Biden, dopo i casi Afghanistan e Kazakhstan, perde il controllo in Asia Centrale e nell’Indo-Pacifico e scommette sulla destabilizzazione per ritrovare la credibilità perduta
di Glauco D’Agostino
Finalmente Zelenskij ha capito. È finito in un inganno che lo coinvolge in pieno. Non è lui il responsabile diretto di questa dolorosa guerra. È solo l’erede politico di una situazione nata nel 2008, quando la NATO, nel suo delirio di forza e al massimo del suo potere mondiale dopo le guerre scatenate in Afghanistan e Iraq, decide di aprirsi ad est. Aprire vuol dire solo alimentare speranze verso le popolazioni di quegli Stati, non verso gli Stati. Cinicamente, eventuali conseguenze le pagheranno i popoli, non gli oligarchi. Adesso Zelenskij lo ha capito. Tranquillo, il gioco geo-politico dura decenni, così è. Solo che il prezzo lo paga anche chi alla fine resta con il cerino in mano. A proposito, che fine hanno fatto Yushchenko e Poroshenko, i due banchieri amici degli Stati Uniti? Poroshenko era stato anche avversario di Zelenskij alle elezioni del 2019! Un altro fregato dagli Stati Uniti?
Al Summit NATO di Bucharest del 2008, un punto della Dichiarazione presumibilmente ispirato da George Bush e dal Presidente polacco Lech Kaczyński affermava che “la NATO accoglie con favore le aspirazioni euro-atlantiche di Ucraina e Georgia per l’adesione alla NATO. Conveniamo oggi che questi Paesi diventeranno membri della NATO”. Qualche mese prima era stata soprattutto la stampa londinese a mettere in risalto la notizia di “un’opzione per un attacco nucleare preventivo” manifestata dalla NATO stessa. Lo Tsar Putin esprime le sue perplessità al concomitante NATO-Russia Council e nel successivo meeting consultivo di Sochi con i massimi vertici di ONU, USA, Unione Europea e Germania, ricevendo assicurazioni che la mossa non aveva scopi di aggressività anti-russa. Ma i quattro eminenti esponenti capiscono anche che uno Tsar è sempre uno Tsar. Diretto e corretto, che avvisa 6 o 13 anni prima. Intanto, l’Ucraina prosegue sull’onda della Rivoluzione Arancione di Yushchenko, poi con l’elezione di Yanukovych, poi con Poroshenko della Rivoluzione di Maidan. Tutte le elezioni sono contestate, con accuse di colpi di stato e interventi della Corte Suprema. Naturalmente, tutti gli Occidentali appoggiano la legittimità rivoluzionaria di Euromaidan, tutti i filo-russi appoggiano la tesi del colpo di stato. Come allo stadio, tra curva est e curva ovest. Vista da lontano, sembra una contesa interna tra tifoserie. Vista da vicino, una guerra fratricida imperversa dal 2014.
Nel frattempo, gli Stati Uniti stavano imponendo la “Pax Orbis ex Jure”. Vediamo. Nel solo 2014, le guerre in Afghanistan e Siria provocavano quasi 100 mila morti; l’insurrezione nelle Aree Tribali del Pakistan (spill-over della guerra in Afghanistan) più di 5 mila; la guerra civile conseguente alla concessione dell’indipendenza del Sud-Sudan 50 mila; altrettanti quelli nella guerra civile conseguente all’invasione dell’Iraq nel lontano 2003; quasi 3 mila quelli conseguenti all’invasione della Libia nel 2011 e altrettanti nella guerra civile somala conseguente all’invasione del 1991. E potremmo continuare. Ma sempre in quell’anno, quasi 5 mila persone perdevano la vita nella guerra per il Donbass. Questa era la conseguenza dello sciagurato Summit NATO di Bucharest del 2008. La memoria è corta. L’informazione giornalistica comincia il primo giorno di guerra, con la coraggiosa opera degli inviati di guerra, alcuni dei quali ci lasciano la vita. Ma l’analisi geo-politica ha l’obbligo di ricordarselo. Questo non attenua nessuna responsabilità etica. Le guerre sono sempre da condannare. Appunto! Il compito della politica, delle istituzioni e della diplomazia è quella di prevenirle o di fermarle quando sono già in atto.
Il problema è che quando politica, istituzioni e diplomazia si degradano al punto tale da non comprendere più il proprio ruolo, anche le scelte non riescono più a prevedere le conseguenze. Le esercitazioni di guerra che la NATO ha condotto in territorio ucraino ne sono un esempio. Qui non è in gioco il diritto internazionale (sempre controverso). Qui è in gioco la responsabilità politica, istituzionale e diplomatica delle classi dirigenti. A meno che questo non sia voluto e controllato. Comprensibile dal punto di vista della geo-politica, ma allora qui entrano in gioco le responsabilità etiche verso le popolazioni che stanno subendo l’ennesima guerra civile e cui ipocritamente diamo la nostra solidarietà. Questo vale per l’Ucraina, come per tutte le altre guerre sopra citate.
Il teatro geo-politico è mondiale e, concentrandosi sulle vicende belliche del giorno, si perde di vista il quadro generale. Gli Stati coinvolti in questa disgraziata guerra non sono solo la Russia e l’Ucraina. Zelenskij lo sa bene. Qui c’entra poco l’orgoglio nazionalista ucraino o l’imperialismo russo. L’Ucraina è il capro espiatorio di un confronto per il controllo delle risorse, dei traffici commerciali e delle tecnologie corrispondenti. Zelenskij ha capito che il confronto si svolge soprattutto in Asia e che la guerra nella sua Ucraina è soltanto la parte tragica di un gioco delle parti dissimulato. Per questo chiede un colloquio diretto con Putin. Potrebbe essere troppo tardi.
Soltanto due mesi fa il Kazakhstan stava per subire le conseguenze di un gioco al massacro. Lo strumento? L’ennesima Maidan. “Gli eventi in Kazakhstan non sono né il primo né l’ultimo tentativo dall’esterno di interferire negli affari interni dei nostri Stati … Le misure adottate dalla CSTO [l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, N.d.A.] hanno chiarito che non avremmo permesso a nessuno di destabilizzare la situazione a casa nostra e di attuare scenari della cosiddetta «rivoluzione colorata»”, aveva affermato Putin. La cosa, di per sé, non fa meraviglia, se un “Putin pazzo” conviene all’Occidente. Soltanto che le “Rivoluzioni colorate” sono state effettivamente lo strumento con cui gli Stati Uniti, soprattutto dell’era Bush jr, hanno cercato di approfittare della debolezza della risorgente Federazione Russa di Putin per imporre la forza della “Pax Orbis ex Jure” attorno alla Russia stessa. Così in Serbia, Georgia, Ucraina del 2004 e Kyrgyzstan. Quando Biden, già da Vice Presidente di Obama, eredita la strategia di Bush, l’emulazione di quelle “Rivoluzioni” più o meno riuscite assumono la parvenza di colpi di stato, così nell’Ucraina di Yanukovych nel 2014, così nella Turchia di Erdogan nel 2016.
Anche il Consigliere di Stato e Ministro degli Esteri cinese Wáng Yì aveva rassicurato il Ministro degli Esteri kazakho Tileuberdi di voler prevenire e opporsi a qualsiasi tentativo di “rivoluzione colorata” e opporsi congiuntamente all’interferenza di qualsiasi forza esterna. Dunque, ancora “rivoluzione colorata”, in Asia Centrale e a gennaio di quest’anno. L’intervento cinese non è casuale. Perché in Asia si gioca la vera partita Cina-USA. Due elementi da sottolineare in un’analisi che non può essere compiutamente sviluppata qui (vedi il mio articolo al link https://www.geopolitic.ro/2022/01/infrastructuri-critice-emergente-riscuri-geopolitice/):
- il rafforzamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, con l’entrata di Pakistan e India (due rivali storici) e della Repubblica Islamica dell’Iran, dal 2017 i primi, da appena sei mesi l’Iran;
- e il sostanziale fallimento del QUAD [il Quadrilateral Security Dialogue tra Stati Uniti, Giappone, India e Australia] per un “Asian Arc of Democracy”, fallimento sottolineato proprio dall’astensione di Delhī nel voto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla risoluzione che intendeva condannare l’intervento russo in Ucraina.
Dopo i casi Afghanistan e Kazakhstan, gli Stati Uniti hanno dimostrato la loro debolezza in Asia Centrale, che, lo ricordo, è il perno della Via della Seta. Se l’India, già entrata a pieno titolo nella cooperazione politico-economica asiatica con Russia e Cina, dovesse indebolire il polo occidentale della cooperazione securitaria indo-pacifica degli Stati Uniti, per Washington si chiuderebbero spazi indispensabili per il suo primato mondiale. A quel punto la destabilizzazione dell’Ucraina come “casus belli” non basterebbe a ritrovare in Europa quella credibilità che Biden ha ormai perduto in Asia.