Nel momento in cui il potere americano in Medio Oriente è in declino, la Turchia si è affermata come un pilastro del nuovo panorama della sicurezza nella Penisola Arabica
Libera traduzione da: Jul 12, 2019 Fair Observer,
Quando nel 2002 il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) giunse al potere in Turchia, la politica estera di Ankara in Medio Oriente era molto diversa da quella attuale. Dalla fondazione della Repubblica di Turchia nel 1923 fino all’inizio di questo secolo, la politica estera turca era definita dall’ideologia e dalle posizioni di Mustafa Kemal Atatürk. Subendo i “postumi ottomani”, la politica estera di Ankara era pressoché tagliata fuori dal mondo arabo.
Tuttavia, dopo che l’attuale Presidente Recep Tayyip Erdoğan divenne Primo Ministro nel 2003, Ankara ha iniziato a beneficiare della sua influenza da soft-power e del suo potenziale economico nel mondo arabo. Gli sforzi della Turchia per affermarsi come potenza emergente in Medio Oriente si sono concentrati sull’importante ruolo della religione – in questo caso l’Islam sunnita – che è servito da denominatore comune tra la Turchia e la maggior parte degli stati arabi.
Quando il neo-islamista AKP al potere ha compiuto importanti passi per smilitarizzare la politica del Paese mentre abbracciava riforme economiche neo-liberiste, molti in Medio Oriente hanno considerato la Turchia come un modello di progresso nella regione. Dal punto di vista di alcuni segmenti delle società arabe che hanno ricercato riforme democratiche, la Turchia ha offerto molto in termini di esempio su come un Paese a maggioranza musulmana possa ottenere un’impressionante crescita economica e democratizzare allo stesso tempo. Senza dubbio, il relativo declino degli Stati Uniti come potenza in Medio Oriente dopo l’invasione dell’Iraq del 2003 ha offerto alla Turchia – assieme a Iran, Qatar e Emirati Arabi Uniti – un’opportunità per riempire parzialmente il vuoto nell’ordine geopolitico della regione.
L’ascesa turca
Durante gli anni 2000, quando Ankara si concentrò sulla creazione di solide partnership in tutto il mondo arabo, le relazioni della Turchia con tutti gli stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) miglioravano. La NATO creò l’Istanbul Cooperation Initiative del 2004, che ha cercato di sviluppare la cooperazione in materia di sicurezza con il Bahrein, il Kuwait, il Qatar e gli Emirati Arabi durante l’incontro al vertice dell’Alleanza a Istanbul. Un memorandum d’intesa che rendeva la Turchia il primo Paese non arabo a ricevere lo status di partner strategico del CCG fu firmato nel 2008, mentre avanzavano i colloqui per un accordo di libero scambio.
Oggi, tuttavia, la regione del Golfo è polarizzata da profonde divisioni che hanno contribuito a complicare i legami di Ankara con le monarchie della Penisola Arabica. In definitiva, le variabili politiche nell’equazione hanno posizionato la Turchia come un attore relativamente divisivo nell’ordine geopolitico del CCG. Alcuni stati arabi del Golfo Persico temono una Turchia in ascesa a causa di una presunta minaccia ideologica derivante dal modello di islamismo democratico dell’AKP. Al centro di questa paura c’è un’ipotizzata sfida alla legittimità islamica e divina delle famiglie reali come gli as-Sa‘ūd a Riyāḍ e gli ān-Nahyān ad Abu Dhabi. Per Abu Dhabi in particolare, il ruolo della Turchia come rifugio per i dissidenti islamici dagli Stati del CCG e l’aperto sostegno di Ankara a certe fazioni legate alla Fratellanza Musulmana, dalla propaggine siriana del movimento a Ḥamās, hanno portato a considerare la Turchia una grave minaccia.
Nel 2011 le aperture politiche causate dalle rivolte della cosiddetta Primavera Araba hanno portato alla ribalta tali tensioni tra Abu Dhabi e Ankara. Il colpo di stato egiziano del 2013, che ha rovesciato un Presidente islamista aperto all’AKP, Moḥammed Morsi, è stato sostenuto dai Sauditi e dagli Emirati, determinati a porre fine al breve esperimento democratico dell’Egitto che ha portato i Fratelli Musulmani al potere nel più popoloso stato arabo.
Eppure quell’episodio non ha messo fine alla collaborazione della Turchia con l’Arabia Saudita e il Qatar negli sforzi dei tre stati di sostenere i ribelli islamici sunniti che combattono il regime siriano. Nondimeno, i programmi di Ankara e Riyāḍ hanno iniziato a dividersi in Siria dopo che la Russia è entrata nella guerra civile a settembre 2015, mettendo fine alla speranza di un cambio di regime e inducendo la Turchia ad accettare sostanzialmente Baššar al-Asad come Presidente della Siria mentre spostava la lotta verso i combattenti legati al Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) nel nord della Siria.
La crisi nel Qatar
Il momento decisivo per la politica estera di Ankara nel Golfo si è rivelato la crisi del Qatar manifestatasi tra maggio e giugno del 2017. Nonostante gli sforzi di Erdoğan per aiutare gli stati del Golfo a superare la loro spaccatura, è apparso subito che la disputa ha posto Dōḥa e Ankara da un lato, contro Riyāḍ, Abu Dhabi e Il Cairo dall’altro. La Turchia, tuttavia, era inizialmente pronta a ricordare alle monarchie del Golfo Arabo-Persico i reciproci interessi economici e strategici che persistevano nonostante la crisi. Come ha detto Erdoğan il 21 luglio 2017, “i problemi politici sono temporanei, mentre i legami economici sono permanenti, e mi aspetto che gli investitori dei Paesi del Golfo scelgano legami a lungo termine”.
Ma ciò che è accaduto all’indomani delle decisioni della Turchia di fornire un forte sostegno a Dōḥa durante tutta la crisi è stato un inasprimento delle relazioni tra la Turchia e alcuni Stati membri del CCG, in particolare gli Emirati Arabi Uniti.
Ad accompagnare tali sentimenti sono le raffigurazioni sempre più comuni della Turchia come una minaccia “neo-ottomana” sulla stampa degli Emirati, saudita e egiziana. Allo stesso modo, la Turchia ha giudicato Abu Dhabi colpevole di sostenere il fallito colpo di stato del 2016 e di sostenere i nemici curdi dello stato turco nel nord della Siria. Più recentemente, ad aprile la saga di spionaggio tra Ankara e Abu Dhabi ha ulteriormente sottolineato la traiettoria discendente dei rapporti Turchia-UAE.
Il Presidente Erdoğan ha visto il blocco del Qatar come un’opportunità per Ankara di mostrare la sua lealtà a Dōḥa. Significativo è che l’Emiro Tamīm sia stato il primo Capo di stato straniero a chiamare Erdoğan nell’incertezza del colpo di stato del 2016 per esprimere solidarietà con il governo legittimo della Turchia. La leadership turca ha visto gli sforzi dell’Arabia Saudita e degli Emirati di portare avanti il cambio di regime a Dōḥa come evidenza del collegamento con i presunti ruoli di quegli stati nel fallito complotto del 2016 contro Erdoğan e nel colpo di stato egiziano del 2013.
Relazioni danneggiate
L’omicidio di Jamāl Khāshoggi nel Consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018 ha gravemente danneggiato i rapporti tra Ankara e Riyāḍ. Sebbene la Turchia e l’Arabia Saudita siano riuscite a mantenere un tono relativamente cordiale dopo il colpo di stato del 2016 e la crisi del Qatar e nonostante entrambi gli episodi abbiano creato un certo grado di attrito nei rapporti bilaterali, la saga Khāshoggi ha provocato un grave deterioramento nelle relazioni di Ankara con la leadership del Regno, cioè con il Principe ereditario Muḥammad bin Salmān (MBS). Prima dell’omicidio, la maggior parte della rabbia della stampa turca sul coinvolgimento del Golfo nel colpo di stato del 2016 era diretta verso Abu Dhabi; da ottobre sui media turchi è crescente il sentimento anti-saudita. Tuttavia, i funzionari turchi sono desiderosi di mantenere relazioni cordiali con il Re Salmān [foto sotto, N.d.T.], sottolineando che lui, a differenza di MBS, non ha le mani insanguinate rispetto alla vicenda Khāshoggi.
Poiché la crisi del Golfo si è regionalizzata in modo significativo dalla sua esplosione a metà del 2017, l’intensificarsi della violenza e il peggioramento del caos in alcune parti della Libia quest’anno ha pesantemente tenuto conto della disputa del Golfo, con la Turchia allineata al Qatar e al governo della Libia riconosciuto dall’ONU contro Abu Dhabi, Riyāḍ e il Generale Khalīfa Ḥaftar.
Temendo l’emergere di gruppi legati alla Fratellanza Musulmana in Libia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno agito subito per rafforzare la posizione di Ḥaftar mentre combatteva una serie di milizie islamiste in Libia. Centrale per il sostegno degli Emirati Arabi Uniti a Ḥaftar è la paranoia di Abu Dhabi verso l’Islam politico pressoché in tutte le sue forme. La guerra civile libica è diventata rapidamente un punto focale nell’agenda di Abu Dhabi volta a contrastare l’influenza turca e del Qatar in Africa, così come i Fratelli Musulmani. Che le forze militari degli Emirati siano direttamente intervenute in Libia sottolinea la misura in cui Abu Dhabi è determinata a sostenere Ḥaftar e sconfiggere i gruppi islamisti nel loro tentativo di conquistare il potere.
Dal punto di vista turco, Abu Dhabi ha svolto un ruolo destabilizzante in Libia concedendo a Ḥaftar la baldanza di portare ad aprile la sua offensiva verso ovest su Tripoli. Le prospettive che Ḥaftar stabilisca una dittatura militare in Libia sono allarmanti, soprattutto in considerazione della retorica strenuamente anti-turca del Comandante che rispecchia la propaganda del regime egiziano contro il governo di Ankara. Per contrastare l’avanzata di Ḥaftar su Tripoli, che è sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti, la Turchia ha fornito droni e camion blindati alle forze fedeli al Governo di Accordo Nazionale della Libia, rispettato internazionalmente.
Le future relazioni
In termini di future relazioni di Ankara con gli Stati membri del CCG, sembra probabile che la Turchia manterrà un ruolo divisivo nella Penisola Arabica. Non ci sono segnali che la crisi del Qatar sia in fase di esaurimento e nemmeno di un allentamento del sostegno di Ankara a Dōḥa a favore di migliori legami con gli Stati del blocco. Inoltre, vista l’entità del sostegno turco al Qatar nel corso degli ultimi due anni, non c’è alcun motivo di aspettarsi che le parti coinvolte nella crisi considerino Ankara un mediatore neutrale in grado di portare entrambe le parti ad una risoluzione.
Nonostante queste importanti fonti di attrito politico nei rapporti di Ankara con alcune monarchie del Golfo, i legami economici hanno una loro logica. Sottolineando che le aziende turche continuano a intrattenere relazioni commerciali con le imprese del blocco, nella Penisola Arabica rimane una diffusa percezione che i legami economici, commerciali e di investimento con i Turchi debbano continuare, in particolare per quanto riguarda i programmi nazionali di diversificazione economica. Resta da vedere se le tensioni politiche si accendano fino al punto in cui gli EAU attuino sanzioni contro la Turchia, il che danneggerebbe gravemente dal punto di vista economico sia i Turchi sia gli Arabi del Golfo.
In prospettiva, gli stati membri del CCG riconoscono che la Turchia sia un potere con cui fare i conti nella Penisola Arabica. Il sostegno che il Qatar ha ricevuto da Ankara ha fatto una grande differenza nel dimostrare che Dōḥa sia in grado di resistere al blocco e rimanere ostile nei confronti dei suoi vicini arabi. Nel momento in cui il potere americano in Medio Oriente è in declino, la Turchia si è affermata come un pilastro del nuovo panorama della sicurezza nella Penisola Arabica. Eppure, in quanto alleato regionale più vicino al Qatar e come potenza generalmente considerata favorevole alla Fratellanza Musulmana, la Turchia rimarrà un attore divisivo nell’ambiente polarizzato del CCG.
* Theodore Karasik è membro della Jamestown Foundation. Negli ultimi 30 anni Karasik ha lavorato per diverse agenzie USA, esaminando questioni politico-religiose in tutto il Medio Oriente, in Nord Africa e Eurasia, compresa l’evoluzione dell’estremismo violento e il suo finanziamento. Ha vissuto negli Emirati Arabi Uniti dal 2006 fino al 2016, lavorando sulla politica estera e sulle questioni di sicurezza del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) riguardanti la consapevolezza culturale, la sicurezza informatica, la sicurezza marittima, la contraffazione, l’antiterrorismo e le infrastrutture e la resilienza nazionale. Tra le sue competenze, anche le relazioni del CCG con la Russia e le implicazioni per gli stati della Penisola Arabica.
* Emily Torjusen è stagista della Gulf State Analytics e studentessa universitaria presso l’Università di Washington, dove si occupa di politica, relazioni internazionali e lingue e civiltà del Vicino Oriente.