Tunisia – Un Nobel a sostegno di un processo fragile

di Frédéric Bobin

Libera traduzione da: Le Monde.fr

“Orgoglio”, “onore”, “ottima notizia per la Tunisia”. Le formule si ripetevano in tutti i commenti a Tunisi nella mattinata di venerdì 9 ottobre, quando si è diffusa la notizia: il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato al Quartetto, la piattaforma di dialogo proveniente dalla società civile che aveva evitato che il Paese cadesse nel caos due anni e mezzo dopo la sua “primavera” del 2011.

Così la Tunisia stabilizzava una transizione democratica che sembrava allora minacciata dalla crescita della violenza salafita e dall’aggravarsi concomitante del conflitto sempre più virulento tra il partito islamista an‐Nahḍa – al potere tra la fine del 2011 e l’inizio del 2014 – e un’opposizione cosiddetta “modernista”. All’inizio del 2014, dopo l’adozione di una Costituzione progressista e l’inaugurazione di un governo “tecnocratico”, la transizione tunisina sembrava riprendere il suo corso in un clima relativamente pacificato. In realtà, nuove insidie oscuravano l’orizzonte. La “rivoluzione” tunisina non solo rimane un processo incompiuto, ma soprattutto un’opera fragile, minacciata da regressioni di qualsiasi tipo.

Le conquiste di questa “primavera” del 2011, l’unica sopravvissuta nel mondo arabo-musulmano, sono indiscutibili. Una vita democratica è effettivamente iniziata, con le sue elezioni, i suoi dibattiti parlamentari, i suoi partiti politici che si battono, i suoi media combattivi benché a volte grezzi, la sua società civile inquieta, ecc. Per quanto imperfette, queste libertà conquistate sono sempre care alla maggioranza dei Tunisini, anche se una corrente di opinione neo-conservatrice inizia ad esprimere apertamente nostalgia per l’antico regime del dittatore deposto Zine el-Abidine ben Ali, quando “non c’era disordine come ora”. Amira Yahyaoui, una delle personalità della società civile – ha diretto fino alla primavera l’ONG al-Bawsala (“la Bussola”), che sostiene una campagna per la trasparenza democratica – elogia queste conquiste in questi termini: “I cittadini non temono più i loro governanti, è la conquista più importante”.

Anche nelle zone marginali dell’interno della Tunisia, dove fermentano aspri rancori a fronte di promesse disattese dalla Rivoluzione in materia sociale ed economica, continua a prevalere un discorso sfumato. Noumen Mhamdi, uno degli animatori del movimento dei laureati disoccupati di Kasserine, la regione che si è sollevata a fianco di Sīdī Bū Zīd e Gafsˤa come avanguardia della Rivoluzione a fine 2010-inizio 2011, esprime la sua delusione dinanzi ad un orizzonte sociale sempre così bloccato (il tasso di disoccupazione dei laureati è del 46,9%): “I giovani sono disperati, hanno perso la speranza nel futuro”. Ma, allo stesso tempo, si rifiuta di buttare via il bambino con l’acqua sporca: “Non sono un deluso della Rivoluzione, perché abbiamo conquistato la libertà di espressione. Si tratta di un traguardo, di un tesoro”.

Scioperi e sommovimenti sociali

I Tunisini hanno tuttavia molte ragioni per lamentarsi di una transizione che è ben lungi dall’aver risposto alle loro aspettative. Uno dei rimproveri più amari riguarda la stagnazione economica e sociale. La crescita economica è agonizzante, nel 2015 non raggiungerà l’1% ufficialmente atteso. In questo contesto, l’antagonismo tra l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT) e la federazione dei datori di lavoro UTICA (Unione Tunisina dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato) – per ironia della sorte tutt’e due insignite del Premio Nobel – si inasprisce attorno a contrattazioni salariali nel settore privato. Scioperi e sommovimenti sociali scoppiano qua e là, in particolare nel bacino minerario tradizionalmente ribelle di Gafsˤa, dove la primavera è stata calda. Ad aumentare la confusione, il governo guidato dal partito Nidāʾ Tūnis – lacerato tra la sua ala destra e la sua ala sinistra – fatica a elaborare un piano coerente di riforme economiche, con disappunto dei donatori come il Fondo Monetario Internazionale (FMI).

In questo clima cupo, due pericoli sono emersi nel 2015. Il primo è stato l’emergere di un terrorismo jihādista determinato a colpire nel sangue l’immagine internazionale della Tunisia, con l’evidente obiettivo di far precipitare il Paese nel caos generale. Gli attentati contro il Museo del Bardo a Tunisi (il 18 marzo) e poi contro un albergo di Sousse (il 26 giugno), che hanno provocato la morte di 59 turisti stranieri, hanno indicato questa nuova minaccia. Lo Stato tunisino, già esposto alle esitazioni del suo apparato di sicurezza dopo la Rivoluzione, è apparso ancor più sommerso dagli avvenimenti che gli effetti di contagio della guerra nella vicina Libia hanno aggiunto alla sua impotenza. Questi attentati sono sopravvenuti in un momento in cui il movimento jihādista tunisino era in piena ricostruzione: cellule legate al ramo libico del gruppo Stato Islamico (IS) è dilagato in uno scenario dominato in precedenza dal gruppo Okba ibn Nafaâ, emanazione di al-Qāʿida nel Paese del Maghreb Islamico (AQIM) operante dalla frontiera algerina.

Il secondo pericolo che minaccia le conquiste della “primavera” del 2011 è proprio la risposta della sicurezza dello Stato a questa sfida jihādista. Appoggiandosi ad un’ opinione tunisina tentata da metodi con il pugno di ferro, il governo ha ispirato una serie di progetti di legge denunciati come “liberticidi” da parte delle organizzazioni dei diritti umani. Alcuni sono stati abbandonati prima della controversia, altri sono stati adottati dall’Assemblea, come il progetto di legge “anti-terrorismo” approvato in luglio.

A questo nuovo quadro legislativo si è aggiunta la proclamazione dello stato di emergenza il 4 luglio, dopo l’attentato di Sousse, un dispositivo d’eccezione che ha permesso alla polizia di limitare la libertà di manifestare in determinate circostanze. Certo, questo stato di emergenza è stato revocato ai primi di ottobre, ma l’episodio ha lasciato l’amaro in bocca agli attivisti dei diritti umani. In alcuni ambienti prevale la sensazione che settori dello Stato legati al vecchio regime approfittino della tensione locale per riconquistare posizioni perdute dopo la Rivoluzione. “Lo Stato profondo sta nuovamente armeggiando” denuncia Sihem Bensedrine, Presidente di Instance Vérité & Dignité (IVD), il cui compito di attuare la “giustizia transitoria” incontra molti ostacoli politico-amministrativi. Così, Amna Guellali, rappresentante di Human Rights Watch (HRW) a Tunisi, si felicita per questo Premio Nobel, ma, alla luce della minaccia diffusa che aleggia sulle conquiste della Rivoluzione, dice: “Questo Premio Nobel rende omaggio al ruolo della società civile tunisina nel mantenimento della pace al culmine della crisi del 2013. È importante, in un momento in cui la stessa società civile è sempre più attaccata da derive securitarie”.

Eppure, questo Premio Nobel risveglia una forte speranza in Tunisia. Molte sono le persone che lo vedono come un ripristino di una traiettoria storica unica sul punto di deragliare e, quindi, una leva per correggerne il corso. “Questo è un bene per il morale dei Tunisini, dopo questo anno passato nel grigiore” commenta Mokhtar Trifi, Presidente Onorario della Lega tunisina dei diritti dell’uomo. “Speriamo che il mondo, i cui fari si accendono nuovamente sul nostro piccolo Paese, prenda coscienza che abbiamo bisogno anche del suo aiuto per proseguire il lavoro iniziato”.

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