Stato Islamico – Cosa succederà dopo la sua caduta?

L’auto-proclamato Califfato dello Stato Islamico si sta restringendo, ma la sua fine rischia di portare nuovi problemi: nuovi conflitti regionali, un rilancio di al-Qāʿida e più terrorismo in Occidente

di Yaroslav Trofimov*

Libera traduzione da: The Wall Street Journal, Sept. 9, 2016, 11:30 a.m. ET

Il 4 luglio 2014 un religioso col turbante nero di nome Abū Bakr al-Baġdādī si portò sul pulpito della Grande Moschea nella città iraqena di Mōṣul e proclamò la fondazione di un nuovo Califfato. Già in controllo della Siria orientale e dell’Iraq occidentale, questo cosiddetto Stato Islamico aveva ambizioni globali, dichiarò Baġdādī. L’auto-proclamato Califfo giurò di restituire “dignità, forza, diritti e comando” ai suoi compagni musulmani sunniti di ogni luogo.

Quel discorso audace dal cuore della seconda città più grande dell’Iraq è stato il culmine di una guerra lampo jihādista che nelle settimane precedenti aveva preso la maggior parte delle parti arabe sunnite dell’Iraq. È stato anche, come si è scoperto, il punto culminante dell’invito dello Stato Islamico a conquistare il mondo.

Lo Stato Islamico sembra ora destinato a cadere più rapidamente di quanto sia sorto. Negli ultimi due anni il gruppo è stato in guerra con tutti, da al-Qāʿida alla teocrazia sciita iraniana, agli Stati Uniti e alla Russia. Ha lanciato attacchi in Occidente e altrove – o, in ogni caso, ne ha vantato credito – con frequenza crescente, anche se ha subito una serie di sconfitte sul campo di battaglia e ceduto una città dopo l’altra.

È facile pensare che lo Stato Islamico sia ancora in marcia. Non lo è. Nel corso dell’ultimo anno il territorio sotto il suo controllo – un tempo circa le dimensioni del Regno Unito – si è ridotto rapidamente sia in Iraq sia in Siria. Lo Stato Islamico ha perso le città iraqene di Ramādī e Fallūja, l’antica città siriana di Palmyra e la campagna siriana settentrionale confinante con la Turchia. Nelle ultime settimane i suoi militanti in Libia sono stati estromessi dalla loro sede a Sirte. Nei prossimi mesi il gruppo dovrà affrontare una battaglia che è improbabile possa vincere per i suoi due più importanti centri restanti, Mōṣul in Iraq e Raqqa in Siria.

Si può essere tentati di porre la domanda al destino, ma ci si deve chiedere lo stesso: cosa succederà una volta che cadrà lo Stato Islamico? Il futuro del Medio Oriente potrebbe anche dipendere da chi riempirà il vuoto che esso si lascerà dietro, sia sul terreno sia, forse più importante, nell’immaginario dei jihādisti di tutto il mondo.

Mentre in questo fine settimana celebriamo il 15° anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre, una probabile conseguenza del crollo dell’ISIS (come è spesso conosciuto lo Stato Islamico in Iraq e Siria) sarà il rilancio del suo rivale ideologico, al-Qāʿida, che ha contrastato le ambizioni di Baġdādī fin dall’inizio. Al-Qāʿida potrebbe ancora scatenare una nuova ondata di attacchi terroristici in Occidente e altrove, così come anche potrebbero farlo i resti dello Stato Islamico, desiderosi di mostrare che ancora contano.

“La semplice rimozione dell’ISIS non vuol dire che il problema jihādista scompaia”, ha detto Daniel Benjamin del Dartmouth College, che ha lavorato come coordinatore antiterrorismo del Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Obama. “Eliminare il Califfato sarà una conquista, ma, più probabilmente, sarà solo la fine dell’inizio anziché l’inizio della fine”.

Ciò che ha reso unico lo Stato Islamico – e, fino a poco fa, così attraente per tanti giovani e scontenti Musulmani – è che è riuscito a creare uno Stato effettivo in Siria e in Iraq. A Mōṣul lo scorso anno i prezzi alimentari sono stati inferiori rispetto a Baġdād e le strade erano tenute pulite, anche se il gruppo ha scacciato dalla città Cristiani e Sciiti, vietato saloni di bellezza per le donne, proibito agli uomini di radersi la barba e gettato gli omosessuali dai tetti. A differenza dell’Afghanistan governato dai Tālibān negli anni ’90, era anche un posto nel cuore del Medio Oriente dove adepti provenienti da tutto il mondo potevano migrare abbastanza facilmente, grazie ai porosi confini della Turchia.

Quando Baġdādī (a destra nella foto sotto) proclamò il suo Califfato, chiedendo che tutti i Musulmani in tutto il mondo giurassero fedeltà a lui e, se possibile, si trasferissero nel nuovo Stato, i più affermati leader e religiosi jihādisti criticarono l’iniziativa come illegittima. Respinsero il nuovo “Califfo” in quanto non qualificato e avvertirono che l’intera impresa sarebbe inevitabilmente crollata, mettendo in pericolo la causa jihādista.

Il leader di al-Qāʿida, ʾAyman aẓ-Ẓawāhirī (a sinistra nella foto sopra), è stato uno dei più virulenti tra questi critici. Ha bollato lo Stato Islamico come i nuovi “Kharijiti” – una setta scissionista del primo Islam universalmente vituperata e nota per aver ucciso indiscriminatamente e per etichettare falsamente gli altri Musulmani come infedeli.

Ma fino a quando lo Stato Islamico continuava a rafforzarsi sempre più, tali critiche non sembravano avere importanza. Le vittorie sui campi di battaglia di Siria, Iraq e Libia sono state viste dallo Stato Islamico – e dai suoi potenziali sostenitori e reclute – come la convalida divina del suo progetto. Gli affiliati ad al-Qāʿida più lontani, come quelli delle Filippine e del Caucaso del Nord, commutarono la loro fedeltà a Baġdādī.

Allo stesso modo, tuttavia, le perdite di oggi sul campo di battaglia stanno minando i fondamenti teologici dello Stato Islamico. “La perdita di territorio porrà un problema importante, perché fin dalla costituzione del Califfato nel 2014 una gran parte della legittimità dello Stato Islamico è derivata dal controllo del territorio”, dice Stéphane Lacroix, specialista in movimenti islamisti presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Parigi. Il gruppo ha sostenuto “che il Califfo è legittimo proprio perché controlla il territorio”, ha aggiunto.

Oggi Baġdādī ne controlla sempre meno, con lo Stato Islamico che nelle ultime settimane ha abbandonato senza grande lotta la città siriana di Jarābulus e decine di villaggi vicini. “Qui dove siamo ora ci troviamo in un punto davvero nel cuore del Califfato”, ha detto il 30 agosto il Gen. Joseph Votel, Comandante del Comando Centrale degli Stati Uniti. “Vediamo lo slancio preso in Iraq e Siria”.

Lo stesso Stato Islamico ha ammesso che presto potrebbe non rimanere molto del Califfato. Il portavoce capo del gruppo, Abū Muḥammad al-ʿAdnānī (nella foto sotto), ha cercato di preparare i suoi seguaci in un discorso pubblicato a maggio. “Saremo noi sconfitti e voi vittoriosi per aver preso Mōṣul o Sirte o Raqqa o tutte le città e se ritornassimo come eravamo all’inizio?”, ha chiesto ai nemici dell’organizzazione. “No, la sconfitta è perdere la volontà e il desiderio di combattere”. (ʿAdnānī è stato ucciso in un attacco aereo in Siria alla fine di agosto).

Lo Stato Islamico non scomparirà del tutto come ideologia o organizzazione terroristica, anche se perdesse tutte le sue terre. Il suo precursore in Iraq è sopravvissuto all’aumento delle truppe USA nel 2007-09, riprendendosi quando le politiche settarie del governo iraqeno a guida sciita e la rivolta contro il Presidente siriano Baššar al-Asad ha fornito nuove opportunità per il reclutamento e l’espansione. Ed è quasi certo che lo Stato Islamico cercherà di dimostrare la sua rilevanza, inscenando più massacri da prima pagina nella regione e in Occidente. Il rantolo della morte, gli esperti antiterrorismo avvertono, potrebbe essere feroce.

“Mentre il Califfato fisico si disintegra e va in pezzi, mentre lo smantelliamo, penso che torneranno di più alle loro radici simil-terroristiche. E così continueranno direttamente o a supporto o potenzialmente a cercare di ispirare attacchi esterni al nucleo in Iraq e Siria”, ha detto il Gen. Votel.

Ancora, la trasformazione di uno Stato di fatto semplicemente in un’altra organizzazione terroristica, sempre più preoccupata della propria sopravvivenza e screditata persino tra molti compagni jihādisti, è destinata a scuotere di nuovo il Medio Oriente. Milioni di persone irritate dal dominio dello Stato Islamico tireranno un sospiro di sollievo, mentre a milioni saranno estromessi dalle loro case. Ma lo smantellamento del “Califfato” non porrà fine al conflitto che ora infuria all’interno e intorno a Siria e Iraq – e potrebbe addirittura intensificarlo.

Nel corso degli ultimi due anni la campagna contro lo Stato Islamico ha riunito una coalizione insolitamente vasta, che comprendeva democrazie occidentali, Russia, Iran, milizie sciite, Turchia, milizie curde e Monarchie sunnite del Golfo. Mentre lo Stato Islamico si ridurrà, probabilmente alcuni di questi partner inverosimili si affronteranno, combattendosi l’un l’altro per le spoglie del Califfato.

Già Turchia (alleata degli USA e altro membro NATO) e forze curde appoggiate dagli USA si sono scontrate nel nord della Siria sulle terre recentemente strappate allo Stato Islamico. Il governo iraqeno dominato dagli Sciiti sta sempre più litigando con i leader della regione autonoma curda del Paese, con Baġdād che rifiuta di riconoscere il controllo curdo su diverse aree liberate dallo Stato Islamico da combattenti curdi.

“Le battute d’arresto che l’ISIS sta affrontando stanno creando più problemi di quanto la sua esistenza abbia mai fatto”, dice Ḥasan Abū Haniyeh, un ricercatore giordano sui gruppi jihādisti. “Il pretesto di combattere l’ISIS ha ritardato i conflitti e i movimenti di protesta in tutto il Medio Oriente. L’eliminazione dell’ISIS riporterà i conflitti ovunque. E incoraggerà le persone che si stavano trattenendo nel chiedere riforme ai regimi dei loro Paesi, perché erano preoccupate a causa dell’ISIS”.

Inoltre, il conflitto settario tra Sunniti e Sciiti circa il dominio sulla regione – la rivalità che ha contribuito a favorire la crescita iniziale dello Stato Islamico in Iraq e poi in Siria – non si esaurisce. Questa spaccatura soltanto si approfondirebbe qualora altro territorio del Califfato, in gran parte abitato da Arabi sunniti, cadesse nelle mani delle milizie sciite filo-iraniane che hanno combattuto gran parte della lotta contro lo Stato Islamico, in particolare in Iraq. Un corridoio dall’Iran al Libano controllato dagli Sciiti sarebbe un incubo strategico per l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti – che cercheranno di garantire che gli Arabi sunniti liberati dal controllo dello Stato Islamico possano ancora provvedere a se stessi, in un modo o nell’altro.

“Non ci sarà una soluzione militare a meno che non ci sia anche una soluzione politica per tutti i problemi nelle zone sunnite, problemi che sono lì dall’occupazione dell’Iraq”, dice Ṣāleḥ al-Muṭlak, un leader politico iraqeno sunnita ed ex Vice Primo Ministro del Paese.

Tutto questo potrebbe essere sfruttato dal principale rivale ideologico dello Stato Islamico nell’universo jihādista, l’al-Qāʿida di Ẓawāhirī, che sostiene di rappresentare i Sunniti in lotta contro quello che asserisce essere una “alleanza safavide-crociata” tra Stati Uniti e Iran. (La dinastia safavide convertì quello che oggi è l’Iran da sunnita a sciita nel XVI secolo).

Ẓawāhirī è stato a lungo una voce critica dello Stato Islamico – prima in privato e poi pubblicamente. Il gruppo è nato dalla branca iraqena di al-Qāʿida poco dopo che il suo fondatore, il terrorista giordano ’Abū Muṣ‘ab az-Zarqāwī, era stato ucciso da un attacco aereo USA nel 2006. Ẓawāhirī litigò con Zarqawi e ancora di più con i suoi successori sulla strategia dello Stato Islamico di uccidere arbitrariamente i civili sciiti e di rifiutare di cercare il sostegno popolare.

Respinto dall’aumento delle truppe USA e dalle milizie sunnite filo-governative in Iraq, lo Stato Islamico riprese nuova vita dopo che la Siria cadde nella guerra civile nel 2011. Il risultante vuoto diede al gruppo un rifugio dove capitalizzare le rimostranze sunnite, attrarre volontari internazionali e diventare l’organizzazione jihādista più importante del mondo. A febbraio 2014, dopo mesi di contrasti sempre più aspri, lo Stato Islamico rompeva apertamente con al-Qāʿida – una scissione che ha anche reciso il rapporto di Baġdādī con il ramo siriano di al-Qāʿida, il Fronte an-Nuṣrah, che rimase fedele a Ẓawāhirī.

Al-Qāʿida è stata eclissata dagli attacchi sanguinosi e dai video raccapriccianti dello Stato Islamico, ma non è rimasta inattiva. Sotto la guida di Ẓawāhirī, un medico egiziano che ormai si ritiene ampiamente basato in Pakistan, l’organizzazione ha abbracciato un approccio più pragmatico: il decentramento delle sue operazioni, scavando in profondità nei suoi Paesi d’accoglienza e creando alleanze con gruppi meno radicali.

“Ẓawāhirī si starà beando. Ha guidato al-Qāʿida verso un approccio molto più sfumato e sottile e ha sempre avuto un gioco lungo – e ciò che vede ora è una conferma della sua strategia”, dice Bruce Hoffman, Direttore del Centro Studi sulla Sicurezza alla Georgetown University, che ha consigliato il governo degli Stati Uniti in materia di antiterrorismo. Con lo Stato Islamico “che consuma tutto l’ossigeno nella stanza” per i funzionari antiterrorismo occidentali, il Prof. Hoffman aggiunge, “nessuno sta prestando molta attenzione ad al-Qāʿida”.

Nelle ultime settimane Ẓawāhirī ha intensificato le sue condanne dello Stato Islamico – che egli chiama beffardamente “il gruppo Ibrāhīm al-Badrī”, dal vero nome di Baġdādī – descrivendo l’organizzazione rivale come “un pugnale nella schiena” del veri jihādisti sunniti. In un discorso pubblicato online, Ẓawāhirī ha contrapposto “l’abisso di estremismo, l’accusa di essere infedeli e lo spargimento proibito di sangue” da parte dello Stato Islamico agli sforzi di al-Qāʿida per riunire i Sunniti.

La nuova enfasi di al-Qāʿida su come lavorare all’interno di un’alleanza più ampia è stata particolarmente impressionante in Siria. Il Fronte an-Nuṣrah ha negato qualsiasi interesse per attacchi esterni alla Siria e a luglio ha detto di aver tagliato i legami con il nucleo di al-Qāʿida – una mossa che i funzionari occidentali hanno liquidato come uno stratagemma, ma che ha reso il Fronte più accettabile per gli altri gruppi sunniti. Il ribattezzato Fronte an-Nuṣrah ora opera come parte di una coalizione ribelle noto come l’Esercito della Conquista, che comprende sia jihādisti sia milizie più moderate appoggiate dagli USA. Molti di questi Sunniti siriani fanno il tifo per i combattenti del Fronte an-Nuṣrah per combattere il regime di Asad sostenuto dagli Iraniani, in particolare nella città settentrionale di Aleppo, e sono furiosi verso gli sforzi USA per colpire il gruppo.

“Sono molto impressionato da quanto [i leader di al-Qāʿida] hanno imparato dai loro errori e dalle brutte esperienze in Iraq”, dice Robert Ford, che è stato l’Ambasciatore USA in Siria nel 2011-14 ed ora è membro anziano del Middle East Institute. “Sono molto meno brutali in Siria di quanto non fossero in Iraq e operano con le fazioni non jihādiste, cosa che al-Qāʿida in Iraq non ha fatto mai. Sono più sottili nelle loro tattiche e hanno molto più supporto locale … Questo li renderà molto più difficili da contenere: sarà un lavoro molto più difficile generare forze per combatterli e sarà un lavoro molto più difficile determinare il sostegno pubblico per questo”.

Altre grandi branche di al-Qāʿida – in Yemen e in Nord Africa – potrebbero anche approfittare della caduta dello Stato Islamico. Al-Qāʿida nella Penisola Arabica, che ha rivendicato il massacro dello scorso anno a Parigi dei giornalisti della rivista Charlie Hebdo, ha “ora la possibilità di prosperare”, concentrandosi sul sostegno ai suoi compagni sunniti nella sempre più aspra e settaria guerra civile in Yemen, nota Farea al-Muslimi, un esperto di Yemen al Carnegie Middle East Center di Beirut. E mentre lo Stato Islamico si affievolisce, al-Qāʿida nel Maghreb Islamico – che nel corso dell’ultimo anno ha lanciato assalti mortali verso hotel internazionali in Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio – potrebbe rafforzare i legami con gli ex subordinati di Baġdādī nella spietata insurrezione in Nigeria di Boko Haram, che ora è lacerata dalla spaccatura della leadership.

“Non credo che tutti dovrebbero rilassarsi dopo che avremo sottratto Mōṣul e Raqqa all’ISIS. La pressione deve continuare: se ci rilassiamo, torneranno”, ha detto Maḥmūd Irdaisat, un analista giordano e generale a riposo. “E non dobbiamo dimenticare al-Qāʿida, perché al-Qāʿida è stata la culla da cui è venuto l’ISIS”.

 

* Editorialista e corrispondente anziano del Wall Street Journal.

Yaroslav Trofimov scrive una rubrica settimanale, Crocevia Medio Oriente, sulla regione che si estende dall’Africa occidentale al Pakistan. Entra a far parte del Journal nel 1999 e in precedenza ha lavorato come corrispondente a Roma, Medio Oriente e Asia con sede a Singapore, e come caporedattore in Afghanistan e Pakistan. È autore di due libri, La Fede in Guerra (2005) e L’assedio della Mecca (2007).

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