Myanmar – Le oscure profondità della tragedia dei Rohingya

Dominano il cinismo e la negazione, anche mentre sono a rischio le vite dei bambini

di Emanuel Stoakes*

Libera traduzione da: The Diplomat, December 06, 2016

Circa un anno fa dalle strade di Yangon sono state trasmesse in tutto il mondo scene rilevanti quando alcuni cittadini si sono riuniti per partecipare e celebrare le elezioni generali in Myanmar.

L’intensa atmosfera di speranza che accompagnava le elezioni, le prime di questo tipo apertamente contestate da decenni, è stata una fonte di ispirazione; in quel momento si poteva perdonare agli osservatori non esperti di aver pensato che il Paese fosse alla vigilia di una netta rottura con il suo tormentato passato.

Dodici mesi dopo sono venute alla ribalta le realtà politiche più difficili. C’è voluta la prova più severa di un nuovo governo per mostrare fino a che punto arriverà Aung San Suu Kyi, il Consigliere di Stato [la carica è stata creata il 6 aprile 2016 per consentire un maggior ruolo di Aung San Suu Kyi in seno al governo, N.d.T.] e di fatto leader civile, nell’esprimere solidarietà alle forze armate, uno stato autonomo nello Stato, che conserva il diritto costituzionale di dirigere ministeri chiave e impostare i loro bilanci.

È forse anche per la volontà di evitare un confronto tra le parti concorrenti del potere statale che Suu Kyi ha scelto di assumere questa posizione, trascurando di fare di più per aiutare coloro che sono colpiti dalla crisi attuale, in cui migliaia di bambini sono stati esposti senza motivo al rischio della fame e della morte.

Questa urgente situazione umanitaria è solo uno degli esiti di un dramma in atto nello Stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale, che coinvolge una delle minoranze più indesiderate e disperate del mondo: i Rohingya, un gruppo a maggioranza musulmana di circa un milione di persone.

La minoranza, che è quasi interamente apolide, è stata perseguitata in Myanmar per decenni, sopportando politiche volte a rendere miserabile la loro vita, comprese limitazioni alla libertà di movimento, all’accesso alle cure sanitarie, all’istruzione e ad altri diritti elementari. Crimini come stupro, esecuzioni extragiudiziali e estorsione si sono verificati nell’impunità.

A ottobre un gruppo di militanti ha commesso la prima azione nota di aggressione armata da parte della minoranza in decenni, suscitando una dura repressione da parte delle forze statali e mettendo in moto una serie di eventi che hanno avuto conseguenze disastrose.

È in questo contesto che la vita di migliaia di minorenni è messa in pericolo. L’aiuto umanitario ad alcune parti settentrionali dello Stato di Rakhine [in precedenza denominato Arakan, N.d.T.] è stato sospeso dopo l’istituzione di una “zona di operazioni militari”, in cui le Forze Armate stanno conducendo indagini a tappeto di contro-insurrezione. Dalla zona bloccata sono trapelate accuse di stupri, omicidi e incendi dolosi, accolte con ferventi smentite da varie componenti dello Stato birmano; la verifica è stata pressoché impossibile, dato che ai media indipendenti è stato negato l’accesso alle zone colpite.

Aggiornamenti e-mail forniti dall’ONU ai gruppi umanitari ammettono che circa 3.000 bambini in alcune regioni settentrionali dello Stato di Rakhine soffrono di Malnutrizione Acuta Grave (SAM) – una condizione che colpisce neonati e bambini prodotta da periodi prolungati senza accedere ad un’adeguata alimentazione e idratazione. Il messaggio interno osserva che i minori bisognosi di cure sanitarie specializzate per SAM “non sono stati in grado di ricevere il trattamento regolare” a causa di blocchi autorizzati dal governo per le consegne di aiuti umanitari, blocchi che durano da settimane. “Senza un trattamento adeguato”, aggiunge l’autore della e-mail, “il 30-50 per cento dei bambini affetti da SAM può morire”.

Pierre Peron, portavoce dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), agenzia umanitaria chiave dell’ONU, ha confermato i numeri sopra citati e ha fatto eco alle sue tetre conclusioni, notando che, senza accedere alle cure che stavano ricevendo, “molti bambini affetti da SAM rischiano di morire”.

Mentre i tempi di rischio per i bambini non sono stati chiaramente indicati nelle e-mail, un funzionario umanitario, parlando in condizione di anonimato, mi ha detto che chi è privato dell’accesso ai trattamenti dei centri di alimentazione terapeutica è classificato come recedente al “punto di partenza” in termini di condizioni – e quindi a rischio molto elevato di morte – dopo tre settimane. L’aiuto è stato rigorosamente limitato per circa un mese e mezzo.

Alla domanda su quale sia stata la reazione generale al blocco tra il personale che lavora nella comunità delle organizzazioni umanitarie, ha risposto che assieme ai suoi colleghi è stato “sconvolto e disgustato”.

I gruppi per i diritti hanno ugualmente condannato le limitazioni agli aiuti. Phil Robertson, Vice Direttore per l’Asia di Human Rights Watch, mi ha detto che molti Rohingya stanno “affrontando una crisi di sopravvivenza” a seguito delle limitazioni. Riferendosi al blocco, ha indicato che la decisione di limitare la presenza umanitaria nell’area può essere attribuibile al più cinico dei motivi.

“Quello che è chiaro è che il governo del Myanmar non vuole che alcun occhio o orecchio esterno assista a ciò che le forze di sicurezza stanno facendo in quest’area e questo significa tenere fuori gli operatori umanitari, a prescindere dalla sofferenza che ciò causa alla gente Rohingya dipendente dall’assistenza internazionale”, dice.

Matthew Smith, Amministratore delegato dell’ONG Fortify Rights con sede a Bangkok, è più laconico nella sua analisi: “Le autorità non hanno alcun motivo giustificabile per bloccare gli aiuti. È disumano, semplicemente”.

In un contesto di deterioramento delle condizioni umanitarie e di presunte atrocità, Suu Kyi, nota in passato per i suoi panegirici sui diritti umani, ha dato il consenso a una sempre più assurda campagna di negazione formulata dal governo sotto il suo controllo. Avendo lei stessa detto poco sulla questione, il messaggio dei suoi collaboratori è stato di totale sostegno ai militari.

Anche se la decisione di non alienarsi le forze armate può essere astuta e certi sforzi per fare bene possano svolgersi “a porte chiuse”, le conseguenze di questo teatro politico sono state terribilmente serie.

Ha allentato la pressione sulle componenti dello Stato controllate dai militari, che stanno giocando un ruolo centrale nel bloccare gli aiuti, benché la mossa di sospendere l’accesso equivalga ad una forma di punizione collettiva per le comunità dell’area. Ogni settimana che passa, sempre più persone – oltre i 3.000 bambini – sono a rischio di malattia e anche di morte.

E non è tutto. Il linguaggio di funzionari e incaricati che trattano la situazione, in particolare per riferirsi ai Rohingya come gruppo, è stato pericoloso e persino disumanizzante.

Forse l’esempio più grottesco è stato fornito dall’uomo scelto per dirigere l’esame preliminare sulle violenze, il parlamentare U Aung Win. Ridendo mentre parlava, in un’intervista alla BBC ha confutato le accuse di stupro da parte dei militari, per il fatto che nessun soldato si degnerebbe di violare le donne Rohingya perché sono “molto sporche”.

Altri effluvi negazionisti sono stati recentemente emessi dal portavoce governativo Zaw Htay [Vice Direttore Generale dell’Ufficio del Presidente, N.d.T.] in una conferenza stampa postata su una pagina di Facebook controllata dall’ufficio di Suu Kyi. Lo “spin doctor” ha ancora preso di mira la prova di criminalità più concreta da parte delle forze governative – immagini satellitari diffuse da Human Rights Watch che dimostrano l’evidente distruzione di centinaia di case Rohingya – sostenendo ingannevolmente di aver confutato “accuse sbagliate” fatte dall’organizzazione. Nella stessa conferenza stampa si affermava, tra lo stupore dei giornalisti, che il calendario della violenza era parte di una cospirazione coinvolgente gruppi che esercitano pressioni per i diritti dei Rohingya.

Mentre questa linea non è stata presa seriamente dalla comunità internazionale [nella foto sotto, la baronessa Kinnock parla al presidio per i diritti umani dei Rohingya davanti al Ministero degli Esteri e del Commonwealth a Londra, N.d.T.], è accettata con maggiore credulità dal pubblico birmano. L’idea che i Rohingya, che sono oggetto di pregiudizio diffuso in tutto il Myanmar, siano coinvolti in complotti con gruppi internazionali è stata a lungo promossa da popolari demagoghi del Paese. Avanzare tale narrativa da parte dell’esercito e del governo per deviare le critiche non solo è profondamente cinico, ma davvero pericoloso.

Altrove, il commento nei canali statali scivolava nel linguaggio dell’assoluta disumanizzazione. The Global New Light of Myanmar, un quotidiano portavoce e controllato dal Ministero dell’Informazione gestito da Suu Kyi, ha passato un pezzo auto-esplicativo dal titolo “Se trafigge, la spina va rimossa”, sostenendo implicitamente le azioni delle forze armate, pur restando ambiguo sul fatto se la “spina” rappresenti tutti i Rohingya o solo gli insorti. Similmente, un più recente editoriale ha messo in guardia dal pericolo rappresentato da “pulci umane detestabili … che cercano di amalgamarsi per accrescere la loro forza”.

In contrasto con la posizione del governo, le accuse di atrocità sono trattate come altamente attendibili dal Progetto The Arakan, un gruppo indipendente di monitoraggio che fornisce note informative alle Nazioni Unite.

“Secondo le nostre informazioni, le affermazioni su stupri, incendi dolosi e uccisioni sono accurate. Sono stati uccisi più di 100 civili, tra cui donne e bambini, e centinaia sono stati arrestati. I militari hanno sparato a vista alle persone mentre fuggivano”, mi ha detto Chris Lewa, Direttore del gruppo [e Vice-Presidente del Gruppo di lavoro sull’apolidia della Rete dei Diritti dei Rifugiati della regione Asia-Pacifico – APRRN, N.d.T.].

“In alcuni casi le persone sono state bruciate vive nelle loro case”, ha aggiunto.

I gruppi per i diritti hanno ugualmente trattato denunce di abusi gravi, mentre un alto funzionario dell’ONU ha affermato che lo scopo della repressione militare in corso è “la pulizia etnica”. L’OHCHR [Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, N.d.T.], apposita agenzia per i diritti umani dell’ONU, si è aggiunta al “crescendo”, affermando recentemente che la repressione può aver comportato crimini contro l’umanità.

Fino ad oggi il governo ha resistito alle richieste di un’inchiesta internazionale sulla violenza, annunciando più di recente una seconda indagine interamente nazionale sulla situazione. La stessa Suu Kyi (nella foto sotto), nella sua prima intervista sul tema con i media stranieri, ha scelto di accusare la comunità internazionale di “concentrarsi sul lato negativo della situazione”.

La nuova inchiesta ha provocato polemiche, visto che sarà guidata da un generale in pensione un tempo inserito nella lista nera da parte degli Stati Uniti e noto per il ruolo svolto nel reprimere le proteste popolari del 2007. Anche se è improbabile che questo sviluppo plachi le critiche, l’inchiesta sembra avviata a migliorare quella guidata da Aung Win.

Ci sono stati altri piccoli barlumi di speranza: un recente rapporto Reuters cita diplomatici che sostengono che, dopo lunghe settimane di attesa, il Consigliere di Stato sia molto più disposta ad esercitare pressioni sui militari in ordine alla situazione degli aiuti.

Al momento di scrivere, sono circolate voci che potrebbe esserci qualche mossa sul tema quando Kofi Annan, a capo della più ampia Commissione [Consultiva, N.d.T.] sullo Stato di Rakhine costituita prima della violenza, completerà la sua visita in alcune zone della regione.

Un simile intervento potrebbe non giungere abbastanza presto; eppure, restano interrogativi cruciali – sarà questo altro teatro ancora, accompagnato solo da minimo cambiamento sul terreno? Se è così, quanto peggio dovrà andare prima che vengano adottate misure più significative?

 

* Emanuel Stoakes è un giornalista specializzato in storie connesse ai diritti. Ha realizzato due importanti documentari sulla minoranza Rohingya in Myanmar e scritto, tra gli altri, per The Guardian, Foreign Policy, Vice, Al Jazeera e The Diplomat.

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