Medio Oriente – La propensione di Israele alla guerra e alle crudeltà esemplari

L’intervento di Netanyahu all’ONU conferma la pretesa superiorità dell’Entità sionista come fondamento della presenza coloniale di Israele in Medio Oriente

di Glauco D’Agostino

Cosa sarebbe Israele senza una guerra da combattere? È la propria essenza a spingerla verso il conflitto, alimentato da un vittimismo che capovolge i ruoli in campo, proponendosi come soggetto aggredito invece che eterno aggressore. “Stiamo vincendo la guerra”, esclama trionfante all’ONU Netanyahu nelle vesti di aguzzino, rifiutandosi di considerare ipotesi di pace prima che lo sterminio sia totale. È il compito che Tel Aviv si è dato come guerra di conquista, mascherata da una lotta al terrorismo cui ben pochi ormai credono.

Non è una deriva estremista. È fin dall’origine la natura di uno Stato nato male, che si nutre dell’aggressività di chi ha paura della propria ombra e si alimenta di fantasmi, di complotti e di persecuzioni operate nei confronti di chi non condivide le sue origini scaturite dalla punta dei fucili. Un Paese ritenuto democratico, ma infarcito di militarismo permanente e dove stato di diritto e diritti umani non hanno cittadinanza. Le continue invasioni, le acquisizioni territoriali indebite, l’infrazione del diritto internazionale non sono la parte peggiore del racconto rispetto all’umiliazione quotidiana dei cittadini non israeliani che vivono nel territorio dei propri padri e dove sono nati, ma sotto il giogo di una “democrazia del terrore” giustificata da superiorità etnica e di sangue. C’è chi lo considera un vero Stato occidentale ispirato alla civiltà giudaico-cristiana!

Proteste a Cesarea, Israele (Photo credit: The National)

Il fanatismo di Netanyahu è anche giustificato: “Stiamo vincendo”, dice. È proprio questo il problema. Israele sta vincendo questa guerra. Quale la prossima? Chi osa fermare la furia devastatrice di un regime radicale che conduce la guerra contro i popoli e definisce alcuni altri Paesi come “Stati canaglia?” Gli alleati occidentali non hanno nemmeno le carte in regola per potere fare la morale a Tel Aviv in fatto di stragi contro i civili, vista la loro storia recente e passata. “Stiamo vincendo”, dice spudoratamente una potenza nucleare, che non dichiara apertamente di esserlo e non è sottoposta ai controlli dell’AIEA. “Stiamo vincendo”, dice l’esponente di un terrorismo di stato che si fa forte dell’unico armamento bellico atomico di tutto il Medio Oriente e che per questo si sente in diritto di violare i confini nazionali, bombardare quando e come vuole, compiere impunemente attentati mirati e ad personam. “Stiamo vincendo”. E ci mancherebbe altro. Nessuno dubita delle capacità militari di Tel Aviv. Soltanto che nessuno dubita anche della perfidia e della brutalità con cui lo Stato di Israele mette in atto questa sua abilità.

Con questi pregressi, il feroce Bibi dice rivolto alla Repubblica Islamica dell’Iran: “Se ci attaccate, vi colpiremo”. Lo dice a pochi mesi dal barbaro assassinio dell’ex Primo Ministro palestinese Ismā’īl Haniyeh in terra iraniana. Lo dice dopo che per anni ha abbattuto decine di alti gradi militari iraniani senza essere neanche in guerra con Tehran. Lo dice dopo l’attentato terroristico perpetrato contro l’Ambasciata iraniana a Damasco. Senza che Tehran abbia mai seriamente reagito. Per Tel Aviv è un gioco. È bello fare la guerra quando non rischi mai nulla e ogni intervento bellico si riduce ad un gioco di computer che lasciano partire armi occidentali altamente tecnologiche, massacrando migliaia di inermi cittadini. Danni collaterali? Non quando la maggior parte delle vittime sono civili, donne e bambini.

Il problema di Tel Aviv non è vincere le guerre. È farle durare, le guerre. E i genocidi si possono cinicamente eseguire in due modi: come a Hiroshima e Nagasaki, cioè in maniera istantanea e confidando negli effetti successivi allo sterminio; oppure distribuiti nel tempo, un poco alla volta, con meno clamore mediatico. “Il genocidio è un processo, non un atto”, secondo il polacco Raphael Lemkin, il creatore del termine “genocidio”. Israele conosce bene questa storia. Se ogni bombardamento giornaliero fa cento vittime, questo basta per dichiararsi vincitori sul lungo periodo. Tanto, finita questa guerra, si passa alla prossima. Con altri “moderati” massacri conseguenti.

Continua il caro Bibi: “Non c’è posto, non c’è posto in Iran che il braccio lungo di Israele non possa raggiungere, e questo vale per l’intero Medio Oriente”. Questo perché Tehran non è una potenza nucleare, naturalmente. Ecco l’incubo di Netanyahu: non di essere colpito dall’Iran, ma di non poter più fare i propri comodi in tutto il Medio Oriente. Difficile che gli analisti occidentali possano considerare questa evidenza. E tuttavia, chi auspica una pace duratura in Medio Oriente deve considerare la necessità che l’Iran si affidi alla deterrenza nucleare. Non c’è alternativa. Forse, anche i cosiddetti proxy iraniani saranno più al sicuro sotto l’ombrello atomico di Tehran. Questione di sicurezza e del diritto all’esistenza!

Israele deve comprendere che il diritto alla difesa non esiste soltanto per i suoi cittadini. I popoli contermini hanno lo stesso diritto e le controversie internazionali non si risolvono necessariamente con le armi, ma con il negoziato e la diplomazia. Ma come fare se il suo Primo Ministro attacca il massimo consesso della comunità internazionale e chiama l’ONU “una palude di bile antisemita, una società terra-piattista anti-israeliana e una sprezzante farsa”?

Israele si sta isolando sul piano internazionale come mai accaduto prima. La sua leadership politica e militare, ma anche la sua società civile, devono prima o poi interrogarsi sulle ragioni di questo processo irreversibile che sta conducendo verso l’oscurantismo. La grettezza maniacale di Netanyahu e del suo governo complice non può coinvolgere gli Ebrei di tutto il mondo. Netanyahu parla a nome di Israele e non necessariamente riceve gli apprezzamenti dei milioni di Ebrei della diaspora. Gli Ebrei prendano le distanze da questi comportamenti contro i principi di umanità di cui in passato sono stati vittime e isolino chi rischia di screditarli agli occhi del mondo.

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