L’Egitto delle finte rivoluzioni

di Daniele Scalea

Condirettore di Geopolitica (http://www.geopolitica-rivista.org/), rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, 14 luglio 2013

Il 3 luglio 2013 Muḥammad Mursī, presidente dell’Egitto – ossia il principale paese interessato dal fenomeno noto come “Primavera Araba” – è stato destituito dalle Forze Armate, le quali – appoggiandosi a proteste di piazza organizzate dall’opposizione – hanno sospeso la Costituzione e nominato un governo ad interim. Fin da subito, prima ancora cioè che i sostenitori del presidente eletto scendessero in piazza, i militari hanno preso misure repressive verso la Fratellanza Musulmana, il Partito Libertà e Giustizia e i loro alleati. Nel momento in cui scriviamo la situazione è ancora fluida, sebbene il nuovo governo di transizione stia faticosamente assestandosi al potere, sorretto, oltre che dal consenso d’una porzione importante della popolazione, dalle baionette dei militari.

La finta rivoluzione d’Egitto

In tempi non sospetti, ossia il 15 febbraio 2011, quattro giorni dopo la deposizione del presidente Hosni Mubarak, sostenevamo che quanto avvenuto in Egitto, più che una rivoluzione, era stato un golpe militare volto a rafforzare il regime, riformandolo se necessario, ma non certo ad abbatterlo (vedi: Rivoluzione? Cosa (non) cambia in Egitto). Il presidente Mubarak cercava d’imporre in Egitto, sulla falsariga di gran parte dei paesi arabi (compresi quelli con regime politico repubblicano), una successione dinastica a favore del figlio Gamal. Ciò non solo era molto impopolare nel paese, ma anche tra i militari, a maggior ragione perché Gamal Mubarak – di formazione anglosassone e professione bancaria – era fautore di liberalizzazioni economiche. Ciò minacciava il variegato impero finanziario (dai resort di Sharm el-Sheikh alle fabbriche di frigoriferi) che le forze armate egiziane hanno edificato nel paese fin dall’Ottocento, molto prima del colpo di stato condotto da Nasser e Naguib. Le stime sono varie, ma è ragionevole supporre che le forze armate controllino il 30% dell’economia egiziana.

Destituendo Mubarak, i militari nel 2011 non solo presero in mano la transizione, ma si posero anche come tutori del nuovo regime democratico – avvicinandosi in ciò al vecchio modello turco. Ai Fratelli Musulmani è stato permesso di vincere le elezioni, ma tramite un partito collaterale (il Partito di Libertà e Giustizia) e una figura non di primissimo piano come Muḥammad Mursī. Infatti, la Fratellanza Musulmana rinunciò formalmente a partecipare alle elezioni in prima persona, e la candidatura del suo leader Khairat el-Shater fu rigettata dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (CSFA). Quest’organismo autoproclamatosi dopo la caduta di Mubarak non si sciolse dopo l’elezione del Parlamento e del Presidente. Tutto ciò che ha potuto fare Mursī, in un anno di presidenza, è sollevare dall’incarico il Feldmaresciallo Tantawi, in un gesto poco più che simbolico: il CSFA, solo capeggiato da una nuova figura (il Colonnello Generale Abdul Fatah al-Sisi), è rimasto a vigilare sul nuovo regime, e infine ha preso l’iniziativa di destituire Mursī, rivelandosi così il vero potere supremo in Egitto. Inutile dire che, nel corso di quest’anno, Mursī non ha potuto minimamente intaccare la potenza finanziaria della holding militare.

Residui del vecchio regime si sono conservati facilmente nel nuovo, anche quando non vestono divise militari. È il caso della Corte Suprema, il massimo potere giudiziario con facoltà di veto su ogni azione del potere politico. Tale istituto si è distinto, nel corso degli ultimi due anni, per aver cercato di sciogliere il Parlamento appena eletto. Significativamente i militari hanno scelto quale nuovo presidente ad interim proprio il capo della Corte Suprema, Adly Mansour. Nel momento della sua proclamazione presidenziale, oltre agl’immancabili militari era presente anche il Grande Imam di Al-Azhar Ahmed el-Tayeb, nominato nel 2010 da Mubarak nel cui Partito Nazionale Democratico militava. E se personaggi tanto in vista del passato regime sono rimasti al proprio posto (i Mubarak, Tantawi e pochi altri hanno pagato per tutti), ancora più significativa è stata la permanenza di burocrati più oscuri, ma che presi nel loro insieme hanno avuto la capacità di tenere in mano le sorti del paese.

Mursī non ha voluto o potuto avviare una radicale epurazione, perché il vecchio regime era di fatto ancora in sella. È probabile che la strategia dei Fratelli Musulmani prevedesse una coesistenza pacifica coi militari e i resti del Partito Nazionale Democratico, erodendone con metodo ma lentezza il potere, senza arrivare a uno scontro aperto ma aspettando che la supremazia del movimento islamista si fosse affermata a tal punto da poter rovesciare ciò che rimaneva del Ancien Regime con un piccolo scrollone. Purtroppo per loro, i militari avevano in mente qualcosa di similare. Hanno dapprima permesso che i Fratelli Musulmani arrivassero al governo, e da lì li hanno “lavorati ai fianchi”. La situazione economica dell’Egitto, quando Mursī è divenuto presidente, era tragica. Ma i residui del vecchio regime hanno sfruttato le loro posizioni per peggiorarla. Mentre le imprese dei militari offrivano beni a buon mercato per procacciarsi il favore popolare, il paese lottava con i black-out energetici, la carenza di gas, l’aumento della criminalità. Che questi disservizi, i quali hanno contribuito notevolmente a minare la popolarità di Mursī, fossero in larga parte artificiosi, sembra confermato dal fatto che, subito dopo il golpe, siano improvvisamente spariti.

Oltre a militari e burocrati, a rimanere incolumi dalla “rivoluzione” del 2011 sono stati anche i potentati economici. Molti, a dir la verità, afferivano già durante il passato regime ai Fratelli Musulmani. Khairat el-Shater, ad esempio, è un imprenditore tessile e d’arredamenti con una fortuna di svariati milioni, sebbene abbia pagato la sua militanza con svariati anni di prigionia. Non è però il caso della famiglia Sawiris, che ha un patrimonio stimato di 36 miliardi di dollari tramite il conglomerato Orascom. I Sawiris hanno costruito la loro immensa fortuna sotto i governi liberisti di Sadat e Mubarak (Onsi Sawiris, il patriarca della famiglia, ebbe invece problemi col più socialista Nasser), operando in settori come le telecomunicazioni, l’edilizia, il turismo e anche i media. Naguib Sawiris, il più noto dei tre successori di Onsi, è infatti padrone di televisioni e giornali in Egitto. In Italia è conosciuto come il proprietario di Wind. Di religione copta, i Sawiris sono ostili ai Fratelli Musulmani. Naguib ha fondato, assieme allo scienziato egizio-statunitense Farouk El-Baz, il Partito degli Egiziani Liberi, laico e liberale, che ha accolto al suo interno anche diversi ex membri del disciolto PND di Mubarak. Sawiris ha sostenuto finanziariamente e mediaticamente Tamarrod e gli altri manifestanti protagonisti delle proteste di piazza che hanno innescato il golpe.

Un regalo all’islamismo radicale

L’ultimo golpe egiziano avrà un effetto di lungo periodo sull’Egitto e il mondo islamico in generale. Il professor Vittorio Emanuele Parsi ha esultato perché dall’Egitto «potrebbe allora partire la sconfitta dell’islamismo politico». Molti altri credono come lui nella possibilità che l’Islam Politico sia declinante, potendo chiamare a sostegno anche le recenti proteste di piazza che hanno dovuto affrontare i governi d’ispirazione religiosa di Ankara e Tunisi, o le sconfitte militari dei ribelli islamisti in Siria. Chi scrive, nel 2011, in prossimità delle prime rivolte arabe e quando tutti o quasi parlavano di rivoluzioni “progressiste” (intendendo con ciò laiche e liberali), pubblicò un libro dove si sosteneva, al contrario, che fosse in corso una transizione dal nazionalismo “laico” e autoritario alla democrazia islamica. L’ascesa dell’islamismo risultò in seguito evidente a tutti gli osservatori. Rimaniamo dell’idea che l’Islam Politico sia ancora in fase ascendente, e che quella egiziana sia una battaglia persa, che non pregiudica il risultato della guerra. Ma che non di meno ne segnerà significativamente il percorso.

In Egitto i Fratelli Musulmani sono riusciti a vincere sia le elezioni legislative sia quelle presidenziali. Ciò malgrado, contro di loro si è scatenato il fuoco di sbarramento dei residui del vecchio regime. Sommato agli errori commessi dagli stessi nuovi governanti, ciò ha portato alle imponenti proteste di piazza che hanno dato ai militari il pretesto per effettuare il colpo di stato. L’impressione, fin dall’inizio, tra veti ai candidati presidenziali e scioglimenti in tribunale del parlamento, è stata che agl’islamisti non si sarebbe permesso di governare. In Turchia, il governo d’ispirazione islamica ha dovuto affrontare nutrite e vivaci (spesso violente) proteste di piazza, il cui fine ultimo sarebbe stato costringere Erdoğan alle dimissioni. In precedenza, quando l’islamista Hamas vinse le prime elezioni legislative in Palestina, gli stessi paesi che avevano costretto le autorità palestinesi a indirle reagirono rabbiosamente disconoscendo il risultato e incitando Abbas a un colpo di Stato presidenziale. Tornando più indietro nel tempo, ritorna alla mente quanto avvenne in Algeria quando il fronte islamico conquistò democraticamente il potere: la violenta reazione militare e anni di sanguinosa guerra civile. L’impressione evidente che potrà ricavarne un seguace dell’Islam Politico è che mai gli sarà permesso di raggiungere pacificamente il potere.

Il golpe in Egitto segna forse, come scrive e auspica il prof. Parsi, la fine del sogno della “via islamica alla democrazia”. Ma non tanto, com’egli sostiene, per le colpe degl’islamisti, quanto per quelle dei loro avversari, che scelgono la via non costituzionale per affrontarli. Si dirà che la democrazia non s’esaurisce con l’elezione, e che gl’islamisti avrebbero potuto sfruttare la vittoria elettorale per imporre un regime non democratico. Ma il punto è che non l’avevano fatto ancora nel momento in cui è scattata la reazione violenta. Né Mursī né Erdoğan si sono imposti come dittatori prima che l’opposizione cercasse di rovesciarli con la piazza. Sono forse governanti autoritari se paragonati a quelli dei paesi occidentali, ma non certo se confrontati coi predecessori nei loro stessi paesi. Hamas governa ora in maniera dittatoriale la Striscia di Gaza, ma ciò è stata la conseguenza del colpo di palazzo del presidente Abbas: non vi è la prova che sarebbe accaduto lo stesso se il processo democratico fosse proseguito senza intoppi. I Fratelli Musulmani da decenni hanno abbandonato la lotta armata in Egitto (la perseguono invece in Palestina e in Siria), ma la loro scelta è stata infine retribuita col golpe cui abbiamo appena assistito. In futuro sarà molto più difficile, per un leader islamista, progettare e proporre ai suoi seguaci una strategia pacifica per la conquista democratica del potere. Le frange che credono nella lotta violenta, e nell’imposizione d’un regime autoritario e chiuso dopo l’arrivo al governo, sembreranno d’ora in poi le più realiste e ragionevoli ai milioni di seguaci dell’Islam Politico presenti nel mondo musulmano. Non è così lontana dal possibile la previsione di Vincenzo Maddaloni d’«una “mezzaluna salafita” che si estenda dal Golfo Persico al Nord Africa».

Vince l’Arabia Saudita, perde il Qatar

Il panorama dell’islamismo sunnita vede, su grosse linee, una contesa tra una corrente più democratica e moderata, incarnata in genere dai Fratelli Musulmani o da movimenti affini, ed una più radicale, che è generalmente descritta come “salafita”. L’Arabia Saudita wahhabita, per quanto al suo interno debba affrontare l’ostilità d’alcune frange salafite, è di fatto il principale patrocinatore e finanziatore della diffusione del salafismo nel mondo. La visione saudita dell’Islam, purista e intransigente, è propagandata dalle numerose moschee e istituti islamici che Riyad dissemina ovunque. Alla loro rigidità ideologica fa spesso da contraltare una notevole flessibilità strategica. L’Arabia Saudita è il paese arabo meno occidentalizzato, ma uno di quelli più saldamente legato agli USA e all’Europa. I salafiti, d’idee anti-occidentali, hanno però collaborato con l’Occidente in Afghanistan o in Bosnia o in Kosovo. Questi elementi peculiari li ritroviamo osservando il caso egiziano.

I salafiti egiziani, rivelatisi una forza sorprendentemente rappresentativa alle ultime elezioni, si sono sì coalizzati per il governo coi Fratelli Musulmani, ma di fatto hanno impedito loro di governare da soli appropriandosi d’una porzione consistente del loro bacino di voti potenziale. Hanno criticato i Fratelli Musulmani per non aver portato a termine la rivoluzione, ma nel contempo si sono allineati ai militari accettandone il piano di transizione. Ciò è in linea con la posizione dell’Arabia Saudita, che fu il più pervicace difensore di Mubarak e oggi ha salutato con entusiasmo il golpe militare. Riyad sa di avere importanti leve finanziarie sui militari egiziani, e comunque non può che valutare positivamente qualsiasi cosa allontani dai suoi confini la democrazia, soprattutto se islamica e dunque potenzialmente più attrattiva per i propri cittadini. Secondo il New York Times, nei giorni successivi al golpe Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Kuwait hanno fatto affluire in Egitto ben 12 miliardi di dollari per aiutare i militari.

Il piccolo ma ricco Qatar, invece, ha acquisito molta influenza sostenendo – col suo denaro e la sua televisione Al Jazeera – le rivolte arabe (esclusa quella “scomoda” degli sciiti in Bahrayn) e le forze islamiste moderate. Non è democratico al suo interno, ma sostiene la diffusione della democrazia nel mondo islamico. Il fallimento dell’esperimento egiziano rappresenta una sconfitta per Doha, che si somma alle difficoltà della ribellione in Siria, dove il Qatar si è schierato fortemente contro il governo. Inoltre il golpe egiziano crea problemi anche a Hamas, protetto di Doha in Palestina: i militari si sono subito preoccupati di chiudere il Valico di Rafah, e così ritornare come ai tempi di Mubarak a stringere d’assedio la Striscia di Gaza assieme a Israele. In questa fase il Qatar sta poi attraversando una delicata fase di transizione, con l’abdicazione dell’Emiro Hamad bin Khalifa Al Thani a favore del figlio Tamim bin Hamad Al Thani. La delicatezza dell’evento è meglio comprensibile se si ricorda che Hamad giunse al potere con un colpo di palazzo che destituì il padre.

Chiudiamo citando gl’immancabili protagonisti della politica mondiale, gli USA. Secondo Al Jazeera Washington ha finanziato i movimenti che hanno contribuito al rovesciamento di Mursī. Non è sorprendente. Gli USA sono maestri del giocare su più tavoli, soprattutto in Egitto. Nel 2011 erano i grandi sostenitori di Mubarak, ma nel contempo da anni addestravano e finanziavano quelli che avrebbero occupato Piazza Tahrir per chiederne la destituzione. Oggi Washington ha appoggiato Mursī, anche per influenzarlo politicamente, finché è stato più o meno saldo al potere, salvo privarlo visibilmente del suo favore allo scoppio delle proteste di piazza. Col pieno reintegro dei militari al potere, gli USA ritrovano un governo docile alle loro richieste.

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