IWA MONTHLY FOCUS

DOPO LA PANDEMIA: UN RISVEGLIO DALL’IDEOLOGIA VERSO LA REALTÀ?

Pechino non propone un modello politico da esportare, ma indica una metodologia per il primato sulla scena economica e geo-strategica mondiale

di Glauco D’Agostino

Abstract

Un virus ha avuto il potere di scuotere la catalessi sistemica globale, soprattutto quella dei Paesi opulenti che si ritenevano tali per definizione. Un cambio di paradigma, un nuovo modo di interpretare i rapporti, tutto da costruire secondo nuovi parametri. Si tratta di ridefinire i rapporti tra Stati nazionali nell’era post-nucleare e di regolare i ruoli degli apparati pubblici e privati, un’organizzazione del lavoro sempre più decentrata e la formazione di élite sempre più capaci di affrontare problemi complessi. Il multilateralismo è stato uno dei pilastri dell’ordine mondiale negli ultimi trenta anni, con gli Stati Uniti che hanno rivendicato una superiorità di posizione nella determinazione degli assetti. Adesso gli attori internazionali soggetti a quel preteso primato si organizzano su basi geo-politiche diverse, verso una moltitudine di ordini regionali regolati da poteri locali. Sono stati gli USA ad aver denunciato l’insostenibilità del loro ruolo egemonico nel mondo, inaugurando un progressivo isolazionismo. Con la presidenza Trump, la debolezza USA si manifesta su due fronti: l’abbandono degli organismi internazionali e la politica commerciale infarcita di volta in volta da sanzioni e ostracismi.

Sul panorama internazionale si è affacciata la Cina, con la possibilità di configurare un nuovo bipolarismo. L’atteggiamento di Trump e di Pompeo è di insofferenza rispetto alla legittima sfida di Pechino. Lo spauracchio degli Stati Uniti si chiama Via della Seta, lo strumento che in prospettiva sarà fondamentale per la ricostruzione di Paesi che escono devastati dalle crisi economico-sociali del post-Covid-19. La Cina è già molto coinvolta nel superamento delle crisi finanziarie del Medio Oriente e Nord Africa e questo potrebbe consentirle un’opera di mediazione tra i contendenti regionali del Golfo, parte della geo-strategia verso l’Africa. Quelle relative al mondo arabo sono tra le situazioni più significative per la loro importanza geo-politica, con i Paesi del Golfo impegnati in una difficile diversificazione delle economie, il Libano in stato di insolvibilità del debito, l’Egitto che sta inasprendo le repressioni contro la libertà di espressione e la Libia, dove la Cina acquisisce influenza attraverso un equilibrato bilanciamento tra iniziative diplomatiche e accordi commerciali. Tuttavia, Pechino non è un modello politico da seguire, rappresentando piuttosto una metodologia non valida sempre e comunque. Il problema degli Stati Uniti resta la consapevolezza del declino di un primato, il riconoscimento di un potere alternativo più adatto ai tempi e la volontà di rigenerazione sua e del “suo” Occidente al tramonto.

Parole-chiave: Pandemia, Covid-19, geo-politica, multilateralismo, bipolarismo, Occidente, Stati Uniti, isolazionismo, Cina, Vie della Seta, Medio Oriente, Nord Africa, Golfo, Libano, Egitto, Libia.

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Un nuovo bipolarismo

Il Covid-19 sta rimescolando le carte degli assetti mondiali, mostrando tutti i limiti di regolazioni dei rapporti internazionali e interni agli Stati ormai datati e superati dalla trasformazione delle società. Il coronavirus è un acceleratore, non la causa, ben inteso. Quei limiti erano ben visibili prima della pandemia, ma pochi avevano il coraggio di denunciarli. Nonostante la forza e la sofisticazione dei sistemi tecnologici, della ricerca scientifica e della comunicazione, pur invischiati tra mille contrasti interpretativi e metodologici da parte dell’accademia, l’auto-referenzialità dei processi impediva di scorgere l’avvento di un mondo nuovo, quello in cui la definizione di finalità e comportamenti cambia la propria struttura in ragione di nuove esigenze avvertite come sostanziali per la comprensione dell’identità. Un virus ha avuto il potere di scuotere la catalessi sistemica globale, soprattutto quella dei Paesi opulenti che si ritenevano tali per definizione. Un risveglio dall’ideologia verso la realtà.

Come dopo una guerra persa, il mondo ha bisogno di una ricostruzione. Qualcuno evoca un nuovo Piano Marshall, dimostrando di non aver capito che il disastro non è solo economico. Purtroppo questa è l’unica realtà compresa, soprattutto nel sedicente Occidente. Forse il termine più adatto per identificare l’avvento di un mondo nuovo sarebbe perestrojka, quella che i Russi hanno vissuto dopo l’incubo dell’Unione Sovietica. Un cambio di paradigma, un nuovo modo di interpretare i rapporti, tutto da costruire secondo nuovi parametri. Via le gabbie ideologiche, i presunti scontri di civiltà e le barriere razziali, i conflitti giustificati da pretestuose difese di interessi nazionali a migliaia di chilometri, la militarizzazione coloniale di intere regioni, le aree di influenza geo-politica costrette entro confini ideologici, le stantie contrapposizioni tra liberismo e statalismo vecchie di secoli. Tutto questo è stato funzionale ad un assetto costruito su presupposti che non esistono più e dunque non più efficaci nel perseguire le finalità di un mondo futuro tutto da ricostruire.

Eppure la via è lunga e il passaggio presenta ancora resistenze che potranno anche essere dolorose nella transizione. Si tratta sul piano internazionale di ridefinire i rapporti tra Stati nazionali nell’era post-nucleare; e sul piano nazionale di regolare i ruoli degli apparati pubblici e privati, un’organizzazione del lavoro sempre più decentrata e la formazione di élite sempre più capaci di affrontare problemi complessi.[1] In pratica, nell’uno e nell’altro caso, si tratta di passare da una politica di pura gestione del presente ad una politica di programmazione strategica delle risorse di lunga prospettiva.

Già adesso i pericoli di un collasso sistemico sono evidenti mentre si affronta la pandemia. Non è il caso di citare le previsioni economiche disastrose che riguardano la produzione e i bilanci degli stati. Ma questo tracollo porta con sé conseguenze che stanno impattando sulla stabilità degli stati stessi, sulla tenuta dei governi, sulla capacità degli apparati pubblici di fronteggiare le crisi e sul bilanciamento interno dei poteri istituzionali.[2] Nel caso della stabilità economica, ne sono un esempio Libano e Argentina, che hanno dichiarato l’insolvibilità dei loro debiti. Per quanto riguarda i poteri nazionali, un rafforzamento dei poteri istituzionali ai limiti dell’abuso è evidente nel caso di Modi in India, Orban in Ungheria, Bolsonaro in Brasile; e tutto lascia prevedere una centralizzazione dei poteri nelle mani degli esecutivi anche in altre nazioni. Questa è un’opzione politica, ovviamente, che sarà verificata nelle opportune sedi elettorali e di controllo istituzionale. Ma il pericolo, in questo caso, è l’operabilità delle autonomie territoriali e, soprattutto, la limitazione dei diritti delle minoranze etniche, religiose e linguistiche presenti nei territori di pertinenza. Le recenti vicende del Kashmir ne sono solo un esempio.[3]

Il multilateralismo è stato uno dei pilastri dell’ordine mondiale negli ultimi trenta anni.[4] Gli analisti ritengono che il riconoscimento di poteri sopranazionali e multinazionali abbia regolato i rapporti tra le potenze in un’ottica di allargamento dei players mondiali, superando la logica bipolare della Guerra Fredda che aveva costretto in una camicia di forza l’autodeterminazione e lo sviluppo dei popoli. Ma l’accoglimento di nuovi attori nel novero degli interlocutori per le decisioni ha continuato a contemplare un divario, un’egemonia degli Stati Uniti che in tutti i campi hanno rivendicato una superiorità di posizione nella determinazione degli assetti, pretendendo un ruolo di arbitro, mentre, allo stesso tempo, consolidavano la propria predominanza economica. Questo ha comportato anche una leadership talmente forte da condizionare la percezione degli eventi, imporre un ordine ideologico unilaterale, richiamare alla “fedeltà occidentale” verso taluni principi ritenuti “universali” e imporre il diritto alle “guerre preventive” neanche dichiarate e considerate legittime per definizione.[5] Da questa impostazione sono derivate, ad esempio, l’individuazione del nuovo nemico, l’Islam, e le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. Con il mondo e le opinioni pubbliche prostrate ai piedi del nuovo “padrone” e con l’avallo dei difensori dei diritti umani.

US AFFPIl problema per gli Stati Uniti è non aver capito che, in mancanza di una tensione etica che sottenda questo ruolo messianico, il gioco è valido solo se si mantiene la supremazia economica e finanziaria. Gli ultimi venti anni, i primi del XXI secolo, avevano già dimostrato che gli sforzi bellici e le conseguenti ricostruzioni dei Paesi devastati possono aumentare il PIL dell’aggressore sul breve termine, ma non bastano in prospettiva a risollevare le sue sorti economiche quando un Paese è già da tempo in difficoltà. E che le spericolate evoluzioni degli ambienti finanziari ormai senza controllo alcuno portano ai dissesti come quello del 2007, che gli USA possono aver parzialmente superato, ma che il resto del mondo (tutto dipendente dall’onnipotente dollaro) paga ancora in termini di disoccupazione e aumento delle disuguaglianze sociali. Come dire che non solo Washington non ha più quella supremazia, ma che adesso gli attori internazionali soggetti a quel preteso primato non ne intravedono più i vantaggi e si organizzano su basi geo-politiche diverse.

Ecco lo sfaldamento delle alleanze precostituite, la nascita di coalizioni transitorie non ideologiche, la tensione verso una moltitudine di ordini regionali diversi che non hanno più l’orizzonte dell’ordine multilaterale e insieme globale, ma che si sostanziano nella capacità di poteri locali di controllare e regolare ambiti geo-politici limitati e definiti. Il rapporto China’s National Defense in the New Era pubblicato da Pechino a luglio 2019, pur tra mille espressioni retoriche caratteristiche del suo regime, riconosce questa realtà: “Mentre il riallineamento delle potenze internazionali accelera e la forza dei mercati emergenti e dei Paesi in via di sviluppo continua a crescere, la configurazione del potere strategico sta diventando più equilibrata”.[6]

Questa transizione è già in atto da qualche decennio. Il Covid-19 il suo rivelatore. Sono stati gli Stati Uniti ad aver denunciato l’insostenibilità del loro ruolo egemonico nel mondo, inaugurando un progressivo isolazionismo. Gli esempi sono innumerevoli, dal disimpegno aero-spaziale ora appaltato ai privati a quello geo-politico verso il Medio Oriente e l’Afghanistan, dal depotenziamento della NATO all’irrilevanza ormai manifestata in America Latina. E, con la presidenza Trump, la debolezza degli USA si manifesta su due fronti: l’abbandono degli organismi internazionali e la politica commerciale infarcita di volta in volta da sanzioni e ostracismi. Nel primo caso il target privilegiato è l’ONU, fino ad arrivare al ritiro da organismi come l’UNESCO e l’OMS. Nel secondo, sanzioni e dazi ormai colpiscono non solo Paesi considerati concorrenti o addirittura “avversari”, ma perfino quelli che una volta venivano chiamati “alleati”. Insomma, un “liberi tutti” che può dimostrare inadeguatezza della funzione finora sostenuta, ma anche volontà di rigenerazione di un sistema sofferente e non più determinante come prima.

Oggi la leadership ha bisogno di una prospettiva di lungo termine e di un’impronta ideale che dia significato all’esistenza nel futuro. Forse l’”American dream” ha cessato la sua attrazione evocativa, incagliata nel “loop” delle sue paure e incertezze. La leadership impone visione (Fiorina, 2020) e anche sogno, se è il caso, ma bisogna avere saggezza e guida sicura e soprattutto individuare una via adatta ai tempi. Per adesso gli USA hanno scelto la modalità di aggredire i loro competitori piuttosto che espandere o anche solo difendere il terreno conquistato in passato (Colombo e Magri, 2020).

L’ascesa della Cina e l’insofferenza USA

Casi di COVID-19 su 100.000 residenti in Asia (Ythlev, 4 giugno 2020)

Già da tempo sul panorama internazionale si è affacciata la Cina, con il suo potenziale demografico (quindi economico), culturale e tecnologico. Per questo gli Stati Uniti l’hanno individuata come il nemico numero uno.[7] Altro che origini del Covid! Qui i problemi si chiamano Huawei e Vie della Seta. E, in prospettiva non tanta lontana, conquista dello spazio. La contrapposizione, prima velata, adesso assume contorni di sfida reciproca che pongono pesanti interrogativi sul futuro, in un quadro senza ormai l’ombra di un impossibile conflitto nucleare ma con quella del possibile uso di armi batteriologiche, vista la capacità tecnologica raggiunta da molti Paesi dopo decenni di ricerca sull’argomento. Molti citano, a proposito, l’inquietante frase tratta dal report Rebuilding America’s Defenses a cura del Project for the New American Century del settembre 2000: “forme avanzate di guerra biologica in grado di «selezionare» genotipi specifici possono trasformare la guerra biologica dal regno del terrore in uno strumento politicamente utile”.[8]

Scena dell’era della Dinastia Hàn raffigurata in “La Via della Seta” di HóngNián Zhāng

Dunque, l’ascesa della Cina potrebbe inaugurare un nuovo bipolarismo, in cui in ogni caso Russia, Turchia e India non farebbero da comparse, ma si ritaglierebbero il ruolo di regolatori degli ordini regionali di riferimento. Non si tratterebbe di un ritorno ai vecchi equilibri mondiali con la semplice sostituzione di uno dei contendenti, cioè l’avvicendamento dell’ormai scomparsa Unione Sovietica con la sempiterna Repubblica Popolare Cinese. Due le differenze fondamentali: l’atteggiamento nei confronti delle economie americana e occidentale, isolazionista nel caso dell’URSS, fortemente integrata nel caso cinese; l’attitudine nelle politiche d’influenza regionale, ideologica nel primo caso e meramente utilitaristica nel secondo (Colombo e Magri, 2020). Infatti, la principale strategia che dà corpo alla politica cinese di non-interferenza è che Pechino non subordina gli investimenti a riforme politiche di sorta. Per contro, a fronte di questa nuova realtà, gli Stati Uniti continuano a propagandare presso gli “alleati” democrazia e diritti umani come fonte del loro operato, salvo poi a delegittimare gli organismi di rappresentanza internazionale e a dispensare messaggi di suprematismo “alla Bannon” al limite delle teorie razziali. Sul piano interno, poi, la Casa Bianca si spinge a evocare interventi militari osteggiati persino dal Pentagono e da tutti i vertici delle Forze Armate e discutibili provvedimenti anti-terrorismo, come nel caso delle recenti proteste per l’uccisione di George Floyd.

Lo scontro USA-Cina non nasce certo con il Covid-19. A parte le tensioni per le rispettive influenze nella regione del Pacifico, già a dicembre 2017 il rapporto National Security Strategy of the United States of America rilasciato dalla Casa Bianca così si esprimeva: “La Cina e la Russia sfidano il potere, l’influenza e gli interessi americani, tentando di erodere la sicurezza e la prosperità americane. Sono determinati a rendere le economie meno libere e meno eque, a far crescere i loro eserciti e a controllare informazioni e dati per reprimere le loro società ed espandere la loro influenza.”[9] All’epoca gli avversari individuati erano due e il Presidente Trump era preoccupato per il sodalizio intrapreso tra Cina e Russia. Appena qualche mese prima il Presidente Xi aveva annunciato l’intenzione di varare una cooperazione economica con l’Unione Economica Eurasiatica patrocinata dalla Russia e subito dopo il fondo sovrano Russia Direct Investment Fund aveva comunicato una partnership con la banca pubblica China Development Bank per la realizzazione di progetti congiunti.[10]

Il Presidente cinese Xi Jinping con il Presidente russo Vladimir Putin

La Munich Security Conference dello scorso febbraio (il New York Times aveva già etichettato come un “requiem per l’Occidente” l’edizione dell’anno prima)[11] ha riconosciuto che “la dimensione della minaccia cinese alla comunità occidentale è stata percepita in maniera molto più pronunciata dai rappresentanti degli Stati Uniti rispetto ai loro partners europei”.[12] Oggi, presa coscienza dell’inarrestabile impennata cinese, Washington tenta la carta di sedurre la parte più debole, cercando di separare gli interessi avversari e invitando Mosca ad un’improbabile G-11 in funzione anti-cinese. A parte il rifiuto di alcuni tra i più importanti alleati NATO (ad esempio Germania, Francia e Canada), Trump deve comunque prendere atto di quanto il citato Libro Bianco cinese di luglio 2019 rende chiaro: “Le relazioni militari tra Cina e Russia continuano a svilupparsi ad alto livello, arricchendo il partenariato strategico globale Cina-Russia di coordinamento per una nuova era e svolgendo un ruolo significativo nel mantenimento della stabilità strategica globale”.[13] Come dire che l’isolamento di Washington si acuisce al pari della sua progressiva ininfluenza nella politica internazionale.

L’atteggiamento di Trump e di Pompeo è di insofferenza rispetto alla sfida di Pechino, che esiste sul piano diplomatico e strategico, non c’è dubbio, ma che è del tutto legittima. La pretesa di una superiorità degli Stati Uniti che non si possa affrontare si scontra con la realtà di una Cina che, invece, non si può redarguire per questo. E proprio in virtù delle sue caratteristiche ormai vincenti. Eccone alcune:

  • In termini economici, la previsione del Fondo Monetario Internazionale per il 2020 consacra la Cina al primo posto nel PIL basato sul potere d’acquisto calcolato in dollari internazionali, sorpassando gli USA di 7.000 miliardi di dollari;[14]
  • Nel settore energetico, la Cina è il secondo consumatore mondiale di petrolio e la domanda è già quasi tornata ai livelli pre-pandemici;[15]
  • In termini commerciali, già dal 2013 la Cina ha superato gli Stati Uniti, divenendo la maggiore nazione commerciale del mondo.[16] Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per singola nazione, nel 2016 la Cina era principale fonte di importazione per 36 Stati, seconda solo all’Unione Europea e prima degli Stati Uniti;[17]
  • Nel settore tecnologico, la produzione cinese ha la maggiore quota di mercato mondiale per le sue esportazioni di elettronica e domina il mercato dei personal computers, condizionatori e telefoni.[18] Inoltre fornisce circa l’80% del fabbisogno mondiale di terre rare,[19] prodotte soprattutto nella Regione Autonoma della Mongolia Interna.[20] L’importanza delle terre rare è legata all’utilizzo in superconduttori, batterie, veicoli ibridi, schermi a cristalli liquidi, LED, fibre ottiche;[21]
  • Per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, la Cina rimane il secondo destinatario globale, anche se, a causa del coronavirus, nei primi quattro mesi di quest’anno il volume ha avuto un calo del 6,1%. Tuttavia, nello stesso periodo sono aumentati gli investimenti nel terziario high-tech e quelli provenienti dal Sud-Est Asiatico e dai Paesi coinvolti nelle Vie della Seta.[22]

Ecco lo spauracchio degli Stati Uniti. Le Vie della Seta. Lo strumento che in prospettiva consentirà alla Cina di primeggiare in campo economico e geo-strategico e che sarà fondamentale per la ricostruzione di Paesi che escono devastati dalle crisi economico-politiche del post-Covid-19, a somiglianza di quelle susseguenti ad un conflitto bellico planetario.[23] La Cina ha riunito 138 Paesi e 30 organizzazioni internazionali nella Belt and Road Initiative (BRI).[24] Se il secondo dopo-guerra ha visto gli Stati Uniti come il benefattore per il ripristino dei meccanismi statali di intere regioni del mondo, oggi l’avvento di una “nuova era” potrebbe essere guidata proprio dalla Cina. In una nemesi storica, potrebbe riprendersi il proprio ruolo perso con la caduta dell’Impero Qing poco più di un secolo fa e, ancora prima, quando nel 1900 truppe di otto potenze alleate (Gran Bretagna, U.S.A., Germania, Francia, Russia, Giappone, Italia e Austria) saccheggiarono Pechino, stanziandovi le loro truppe senza alcuna presenza cinese.

La strategia cinese in Medio Oriente e Nord Africa

L’Institut Montaigne, che molti danno vicino al Presidente francese Macron, ritiene la Cina già molto coinvolta nel superamento delle crisi finanziarie del Medio Oriente e Nord Africa.[25] Per esempio, dopo i danni provocati dalle sanzioni americane e un drastico ridimensionamento del PIL, prevede una maggiore disposizione di Tehrān verso Pechino, già in atto visto che l’alta velocità ferroviaria è già in costruzione come infrastruttura sulla Via della Seta. Inoltre, si aspetta il rafforzamento degli accordi in materia di idrocarburi che l’Arabia Saudita ha stipulato con la Cina in quanto suo maggiore acquirente.[26] Questo consentirà al gigante asiatico un’opera di mediazione tra i contendenti regionali del Golfo, allontanando le tentazioni americane di regime-change in Iran e scompaginando gli assi geo-politici attuali come quello Tel Aviv-Riyāḍ-Cairo o quelli concorrenti Mosca-Tehrān-Damasco e Ankara-Dōḥa. L’istituto anticipa anche la probabilità di una garanzia cinese sulle esigenze finanziarie di Algeria e Egitto, nel caso di quest’ultimo rompendo il legame di dipendenza dal Fondo Monetario Internazionale e dai Paesi del Golfo e dell’Occidente. D’altra parte, questo è in linea con il comportamento di Pechino, che durante la pandemia ha portato aiuti economici e sanitari a 82 nazioni in difficoltà, non chiedendo una contropartita di maggiore apertura verso la sua influenza commerciale, come invece sostenuto da chi l’accusa di portare avanti una “diplomazia mascherata” (Wehrey and Alkoutami, 2020).

Il Presidente cinese Xi Jinping con Re Salmān d’Arabia Saudita

Il ruolo della Cina in Medio Oriente è testimoniato dal fatto che nell’area il Paese del Dragone è la prima fonte degli investimenti e il primo partner commerciale e, in termini di investimenti esteri cinesi, il Medio Oriente rappresenta la seconda destinazione dopo l’Unione Europea. Questo non significa condizionamento politico tout court, tant’è che nei tanti conflitti in corso Pechino ha evitato di schierarsi per l’uno o l’altro dei contendenti, mantenendo una neutralità funzionale alla penetrazione economica e alla capacità di intervento nella riabilitazione degli Stati.

Il coinvolgimento cinese nell’area Medio-orientale è sottolineato anche da Armando Sanguini, già Ambasciatore in Tunisia e Arabia Saudita. Nel Rapporto ISPI 2020,[27] cita, oltre all’influenza esercitata sull’Iran, il “partenariato strategico con il mondo arabo, in particolare l’Arabia Saudita, ma anche Giordania, Egitto, Djibouti (militarmente) e così via”. L’area interessata, dominata economicamente e politicamente dall’Arabia Saudita, è infatti una cerniera naturale tra il Medio Oriente e il Corno d’Africa.[28] Tutte zone che giornalmente sperimentano i disastri delle guerre in corso o delle possibili destabilizzazioni politiche sempre dietro l’angolo. Questo determina il sostegno di Pechino a tutte le iniziative in programma nell’area e l’inserimento dei poli marittimi strategici locali negli itinerari della Via della Seta che condurranno da Tehrān al Cairo, al Mar Rosso e Djibouti, appunto. Con ciò, aprendo le porte dell’Africa sub-sahariana, dove già le economie nazionali stanno abbondantemente beneficiando degli aiuti cinesi. Senza dimenticare la Libia, dove il legittimo Governo di Accordo Nazionale è firmatario dell’accordo sulla Via della Seta, ma dove Pechino mantiene rapporti commerciali informali con l’Esercito Nazionale Libico, fedele al Consiglio dei Deputati insediato a Tobruk.

Tutto questo è parte della geo-strategia che Pechino ha imbastito e sviluppato verso l’Africa, dove il volume degli scambi commerciali cinesi è aumentato di venti volte negli ultimi dieci anni,[29] surclassando i competitori in termini di quantità e qualità. Di questo gli Stati Uniti sono coscienti e le parole pronunciate a giugno dell’anno scorso dalla Vice Segretario al Commercio Karen Dunn Kelley sono rivelatrici: “Abbiamo finora perso terreno rispetto alle pratiche commerciali sempre più sofisticate – ma troppo spesso opache – dei concorrenti stranieri”.[30] Ma la verità è che i deboli programmi impostati da Washington alla fine del 2018 con la “New Strategy for Africa” non possono misurarsi con le capacità di Pechino, la quale già detiene il debito pubblico di molte nazioni africane, intende cancellare il debito di quelle più povere e basa la sua diplomazia sui rapporti personali con le leadership locali. Tre assets che non fanno parte del bagaglio culturale della Casa Bianca.

Nairobi

Il dopo-Covid nei Paesi Arabi

Il problema del dopo-coronavirus per gli Stati, tuttavia, non è solo geo-politico e non si limita al confronto Stati Uniti-Cina. Si è voluto marcare questo tema perché nel futuro non si potrà prescindere da questa realtà condizionante le prospettive di vita e di sviluppo del mondo intero. Ma tutto dipenderà anche dalle condizioni economiche e sociali con cui le nazioni usciranno dalla pandemia. Quelle relative al mondo arabo sono tra le situazioni più significative per la loro importanza geo-politica. Ne riassumiamo alcune nel quadro che segue.

Penisola Arabica

Se alcuni analisti ritengono che i principali Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, in virtù delle loro riserve finanziarie, saranno tra le economie che meglio reagiranno agli effetti del Covid (Duclos and El Karoui, 2020), bisogna anche considerare la necessaria rimodulazione delle loro programmazioni al 2030 o 2040 su cui le leaderships avevano tanto puntato per assicurare un trend di sviluppo all’altezza delle loro possibilità. L’Arabia Saudita, visto l’aumento del relativo deficit di bilancio, ha da anni recepito le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale per aumentare gli introiti diversi da quelli derivanti da idrocarburi.[31] Come maggiore esportatore di petrolio al mondo, infatti, il settore energetico vale il 50% del suo PIL e il 70% delle esportazioni.[32]

Anche se l’Oman proprio nei mesi della pandemia ha addirittura aumentato l’export di petrolio verso la Cina (Ardemagni, 2020), gli altri Paesi del CCG, nell’ottica della diversificazione, hanno puntato sul potenziamento di settori come logistica, turismo, sanità e servizi alla finanza e alla produzione. Gli EAU, con l’obiettivo di innalzare all’80% il contributo al PIL delle attività non petrolifere, hanno puntato sul turismo e sui servizi finanziari, trasportistici e alle imprese, con il governo intenzionato a presentare il Paese come hub finanziario; mentre il Bahrein sta potenziando il settore della trasformazione alimentare, oltre a quello finanziario. Tutti, però, avevano curato gli investimenti nella congressistica, le rassegne e i grandi eventi. Adesso, gli effetti del Covid-19 hanno già determinato il rinvio di importanti esposizioni a Riyāḍ, Jeddah, Dubai, Abu Dhabi, Dōḥa.

Dubai

Libano

Il Libano è uno di quei casi in cui la pandemia rischia di aggravare la propria situazione economico-finanziaria e sociale e su cui gli Stati Uniti puntano per “ridurre all’ordine politico” un Paese che rivendicava l’indipendenza delle proprie posizioni nello scacchiere medio-orientale. Purtroppo, il Libano affronta la peggiore crisi economica degli ultimi decenni e il nuovo governo tecnico di Diyāb è chiamato a risolvere i disastri provocati nel passato da gestioni poco oculate e dipendenti dai condizionamenti internazionali. Soprattutto, la crisi diventa oggi pericolosa per la sua stabilità in un’area di grande interesse energetico.

“Come possiamo pagare i creditori mentre ci sono persone nelle strade senza i soldi per comprare una pagnotta?” aveva puntualizzato il Primo Ministro.[33] Così, per la prima volta nella sua storia, il 9 marzo scorso lo Stato non è stato in grado di ripagare il debito di 1,2 miliardi di dollari degli Eurobond acquisiti. Di conseguenza, il governo ha richiesto assistenza al Fondo Monetario Internazionale e si prepara a chiedere finanziamenti alla Banca Mondiale e probabilmente ad alcuni Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo.[34] Il 22 gennaio scorso Foreign Policy scriveva: “Alcuni Libanesi, incluso il Governatore della Banca Centrale Riad Salamé, sperano di essere salvati dal Qatar”.[35]

Beirut

Tutto questo avrà ovviamente il suo prezzo non soltanto in termini finanziari, ma anche in termini di ricaduta sui servizi sociali. Soprattutto, l’intervento del Fondo Monetario Internazionale richiede azioni prioritarie, programmi e operazioni di monitoraggio simili ad un vero e proprio commissariamento, tutte iniziative che, nel caso di accettazione delle condizioni, saranno implementate gradualmente nei prossimi anni. Quasi sicuramente vorrà dire che Beirut sarà costretta a ridurre il debito, a svalutare la lira libanese (che al cambio parallelo in maggio è già scambiata fino a tre volte il suo valore ufficiale contro dollaro), ad aumentare le sue entrate fiscali, a ristrutturare il sistema bancario e la sua stessa Banca Centrale. Un effetto conseguente sarà anche il ritiro di molti depositari bancari in dollari, che graverà sulle già indebolite riserve monetarie centrali. Insomma, un futuro incerto per il governo e la popolazione del Paese dei Cedri.

Egitto

“La vera pandemia, che è più pericolosa per questo amato Paese, non è il coronavirus, ma è la pandemia as-Sīsī che si è diffusa giorno dopo giorno. Questi risultati catastrofici in vari aspetti della vita, siano essi economici, politici, sanitari, educativi o relativi ai media, sono il risultato inevitabile”.[36] Queste frasi pronunciate durante una campagna on-line del movimento Batel (illegale, tradotto in Italiano) manifestano l’attitudine di molti cittadini egiziani nei confronti del loro Presidente Sīsī. Al di là di ogni retorica, l’Egitto rappresenta uno dei peggiori esempi di uso strumentale della pandemia per stroncare ogni opposizione interna. D’altra parte, questo è scritto nel DNA del regime, nato da un colpo di stato laico e quindi non osteggiato dai governi democratici occidentali. Così, le restrizioni del Covid-19 hanno dato adito al governo di inasprire le repressioni contro la libertà di espressione e innocue manifestazioni di protesta. Innumerevoli gli episodi riportati dagli organi di stampa internazionali, dall’arresto di quattro donne intellettuali che manifestavano per la prevenzione sanitaria dei carcerati,[37] alle ritorsioni verso The Guardian e The New York Times, accusati di fornire “dati errati” sulla diffusione del coronavirus.[38]

Il Cairo

Resta inalterata l’individuazione delle priorità da affrontare, come la ripresa delle attività turistiche, la lotta alla corruzione e, nel campo sociale, la riduzione delle diseguaglianze e della disoccupazione giovanile. Da oggi in poi, tenuto conto della posizione strategica dell’Egitto nel contesto mondiale, sarà il livello quantitativo di queste emergenze a cambiare, determinando la necessità di nuove politiche non più emergenziali, ma strutturali e sostenibili rispetto alle esigenze insorgenti da nuove sensibilità sociali.

Libia

L’evenienza del coronavirus sta comportando il rientro di cittadini libici dall’estero attraverso le frontiere egiziane e tunisine e gli aeroporti di Misurata, Bengasi e al-Bayḑā’. Nonostante il basso impatto della pandemia sulla popolazione, le misure restrittive stanno penalizzando gli immigrati, i lavoratori giornalieri e gli sfollati interni, soprattutto in termini di sicurezza alimentare e assistenza.[39] È evidente che l’emergenza si sovrappone agli ormai annosi problemi sociali connessi alla perdurante guerra civile e che quindi non ci si attende che la situazione possa migliorare senza una soluzione politica o militare del conflitto. Piuttosto, è in corso una militarizzazione nella gestione delle attività civili che sta conducendo verso una più marcata centralizzazione della fornitura di servizi essenziali.

L’intervento sul terreno di molti militari regolari esterni o milizie mercenarie dissimulate (egiziane, russe, turche, saudite, emiratine, qatarine e di alcuni Paesi europei) riporta al tema geo-politico. È il filo-rosso di qualsiasi ipotesi di ripresa per un’area caratterizzata da posizione strategica sostanziale per gli equilibri mediterranei, da risorse energetiche considerevoli e da struttura tribale della popolazione, tali da aizzare contrasti e interferenze da parte dei molti potentati interessati. Ancora una volta, seppure defilato, uno dei protagonisti è la Cina, che ha mantenuto un atteggiamento di neutralità tra i contendenti, denunciando queste interferenze e spingendo per una soluzione diplomatica della crisi, sebbene non coinvolgendosi in azioni di mediazione tra le parti. La linea politica di Pechino è sostanzialmente diversa da tutte le altre, perché basata sull’acquisizione di una propria influenza sull’area non già attraverso inconcludenti occupazioni militari, ma attraverso un equilibrato bilanciamento tra iniziative diplomatiche e accordi commerciali non necessariamente rispondenti a logiche di schieramento. Sul piano della legittimità internazionale riconosce il Governo di Accordo Nazionale del Presidente Sarraj, il quale ricambia consentendo investimenti cinesi nei settori infrastrutturale e delle telecomunicazioni con l’avallo della Banca Centrale Libica controllata da Tripoli. Allo stesso tempo, Pechino mantiene ottimi rapporti con il secessionista Generale Ḥaftar, peraltro cittadino americano, il quale controlla ancora gran parte degli impianti petroliferi insediati nell’est del Paese alla cui realizzazione la Cina aveva contribuito nell’era Gheddafi. Alla fine, questa ambigua posizione cinese conviene tanto a Tripoli quanto a Tobruk anche in prospettiva di una necessaria ricostruzione sia fisica sia istituzionale (unitaria o meno), avallando il successo di una geo-politica alternativa rispetto a quella portata avanti da altre potenze interessate (Wehrey and Alkoutami, 2020).

Tripoli, Libia

La considerazione principale rispetto agli avvenimenti è che questa politica di neutralità non è frutto di estemporaneità e contingenza, bensì di una visione programmata del ruolo cinese nel contesto globale, in cui, per la sua parte, rientra la Libia. Il che significa che l’atteggiamento attuale di Pechino è frutto di un difficile percorso iniziato nel 2011 con l’astensione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU riguardo all’intervento militare NATO in Libia, nonostante la Lega Araba e l’Unione Africana fossero favorevoli, seguito dal riconoscimento del Consiglio Nazionale di Transizione e infine del successivo Governo di Accordo Nazionale.

Conclusione

L’analisi e le considerazioni riportate rivelano che il primo attore internazionale nel XXI secolo ha un nome e si chiama Cina. Non è una questione ideologica. Anzi, l’articolo titola “dall’ideologia verso la realtà”, lasciando in sospeso l’affermazione aggiungendo un punto di domanda. Pechino non è un modello politico da seguire perché non vuole esserlo. Rappresenta piuttosto una metodologia che non è valida sempre e comunque, ma è la più valida hic et nunc, secondo l’espressione riferita alle concezioni di Martin Heidegger e Ernst Jünger.

L’America incarna la visione vincente del XX secolo, quella che aveva basato l’azione su principi decretati come universali e che demagogicamente riflettevano una falsa idea della propria essenza. L’attualità rende plasticamente evidente lo sviluppo della sua storia, che non ha mai fatto i conti con le distorsioni delle sue radici, dal mai sopito razzismo delle sue origini, alla cultura della violenza espressa da Hiroshima a Guantánamo, sempre giustificate con motivazioni di preminente interesse nazionale diventato automaticamente interesse globale. Questo rende evidente la fragilità della retorica in materia di diritti umani, mille volte piegati ad una sorta di ragion di stato che non è certo un’invenzione americana.

Il senso di questo scritto non vuole essere una invettiva anti-americana, sarebbe una distorsione ideologica anche questa. Molti sono i meriti che il mondo deve riconoscere a Washington, prima di tutto la barriera che ha mantenuto nei confronti del totalitarismo marxista per quasi cinquanta anni. Però, in pratica, il meccanismo era ideologia contro ideologia, entrambe sganciate da una realtà costretta ad inseguire altisonanti utopie ispirate ad alti principi, ma alla fine soltanto funzionali al controllo di potere. Mi riferisco, per esempio, all’“abbandono dell’uso della forza”, sancito nella Carta Atlantica,[40] o al “gigantesco sviluppo delle forze produttive della società umana” conseguente alla fine del capitalismo, come dichiarato da Lenin.[41] Il problema di fondo è che l’attitudine a combattere un nemico che comunque aveva contribuito a rinvigorire durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva portato gli Americani ad una responsabilità troppo grande quando questo nemico si era afflosciato sotto l’incapacità di gestire l’attuazione dei propri assunti dottrinali. Non che le previsioni per il XXI secolo siano prive di questi meccanismi, ma sicuramente la messa in mora di premesse e promesse volte soltanto a determinare solidarietà di campo faciliterà la gestione della realtà. Dal momento che il futuro si prefigura ben più complesso, richiederà procedure sicuramente più adattabili alle esigenze di un mondo in movimento.

Il coronavirus sarà servito da lezione se il suo superamento solleciterà tutto questo. Washington sembra in ritardo in questo senso. Le dichiarazioni di Pompeo in merito al contrasto con la Cina[42] sembrano datate, perché puntano sull’aspetto ideologico del suo regime e sul sospetto che esso sia all’origine della pandemia. Certo, sollevare il problema politico dei diritti umani degli Uyghuri e del Tibet non è mai inopportuno, le incognite sul loro futuro restano. Ma farlo solo nel caso cinese, quando l’India di Modi e l’Egitto di Sīsī sono tra i regimi influenzati da Washington che stanno facendo strame di quei diritti, sembra un arrampicarsi sugli specchi. In specie quando il Presidente Trump invoca la militarizzazione dell’ordine pubblico e della stessa politica.[43]

Il problema non è chi sia il Presidente, sembra evidente. E non ci appartiene la strumentalizzazione di certi argomenti per avallare l’una o l’altra posizione utile alla campagna presidenziale di novembre. Qui il problema degli Stati Uniti resta la consapevolezza del declino di un primato, il riconoscimento di un potere alternativo più adatto ai tempi e, nel contempo, la volontà di rigenerazione sua e del “suo” Occidente al tramonto.

Qui, forse, sarebbe il caso di riflettere su quanto scrive il filosofo Muṣṭafā Chérif, già Ministro dell’Educazione in Algeria: “Malgrado i prodigiosi progressi portati all’eccesso, l’emarginazione del sacro e l’identificazione di un nemico come diversivo, sono sorti squilibri ed eccessi”. E ancora: “L’ambizione di diventare maestri e padroni del mondo all’infinito facendo a meno di una legge superiore sta cadendo a pezzi. Le società europee […] sono le prime nella storia a voler vivere scollegate da una trascendenza spirituale”.[44]

È la fine di un mondo!

Il robot-poliziotto cinese che riconosce i volti (foto Weibo)

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[1] Jean-François Fiorina (4 maggio 2020). Une nouvelle ère pour les entreprises ! Vedi https://www.linkedin.com/pulse/une-nouvelle-%25C3%25A8re-pour-les-entreprises-jean-fran%25C3%25A7ois-fiorina-1c/?msgConversationId=6659188096464146432&msgOverlay=true&trackingId=5dnMvN%2BrTEqnleIUDFCN4g%3D%3D.

[2] Frances Z. Brown, Jarrett Blanc (14 aprile 2020). Coronavirus in Conflict Zones: A Sobering Landscape. Carnegie Endowment for International Peace. Vedi https://carnegieendowment.org/2020/04/14/coronavirus-in-conflict-zones-sobering-landscape-pub-81518.

[3] Pakistan claims new Kashmir residency law ‘illegal’ (19 maggio 2020). Vedi https://www.dailysabah.com/world/asia-pacific/pakistan-claims-new-kashmir-residency-law-illegal.

[4] Alessandro Colombo, Paolo Magri (Marzo 2020). Work in Progress. The End of a World, part II. ISPI Report 2020. Milano, Italy: Ledizioni LediPublishing.

[5] L’accademico canadese Peter Dale Scott ricorda come dal 1997 il Project for the New American Century abbia perseguito “una Pax Americana globale senza limiti di diritto internazionale e ha espresso francamente la necessità di mantenere le truppe statunitensi nel Medio Oriente, anche se Ṣaddām Ḥusayn dovesse scomparire”. Peter Dale Scott (2007). The Road to 9/11: Wealth, Empire, and the Future of America, pag. 192. Berkley and Los Angeles, California: University of California Press.

[6] State Council of the People’s Republic of China (Luglio 2019). China’s National Defense in the New Era, § I. International Security Situation. Beijing, China: Foreign Languages Press Co. Ltd. Vedi http://english.www.gov.cn/archive/whitepaper/201907/24/content_WS5d3941ddc6d08408f502283d.html.

[7] Pepe Escobar (21 febbraio 2020). No Weapon Left Behind: The American Hybrid War on China. Strategic Culture Foundation. Vedi https://www.strategic-culture.org/news/2020/02/21/no-weapon-left-behind-the-american-hybrid-war-on-china/

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[10] Glauco D’Agostino (27 febbraio 2018). La Cina strizza l’occhio all’Asia Centrale tra connivenze, incertezze e rifiuti. Vedi https://www.islamicworld.it/wp/iwa-monthly-focus-30/

[11] Roger Cohen (15 febbraio 2019). Munich or a Requiem for the West. The New York Times, https://nyti.ms/2EbAbbr.

[12] The Munich Security Conference 2020 (16 febbraio 2020). Westlessness, Event Summary. Vedi https://securityconference.org/en/news/full/westlessness-the-munich-security-conference-2020/

[13] State Council of the People’s Republic of China (Luglio 2019). China’s National Defense in the New Era, cit., § VI. Actively Contributing to Building a Community with a Shared Future for Mankind.

[14] International Monetary Fund (Aprile 2020). World Economic Outlook: The Great Lockdown. Vedi https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weo-april-2020.

[15] Muyu Xu, Stephanie Kelly, Yuka Obayashi (3 giugno 2020). China drives global oil demand recovery out of coronavirus collapse. Vedi https://www.reuters.com/article/us-global-oil-demand-analysis/china-drives-global-oil-demand-recovery-out-of-coronavirus-collapse-idUSKBN23A0XF.

[16] Angela Monaghan (10 gennaio 2014). China surpasses US as world’s largest trading nation. Vedi https://www.theguardian.com/business/2014/jan/10/china-surpasses-us-world-largest-trading-nation#:~:text=China%20became%20the%20world’s%20largest,landmark%20milestone%22%20for%20the%20country; Daniel Workman (31 dicembre 2019). World’s Top Export Countries. Vedi http://www.worldstopexports.com/worlds-top-export-countries/

[17] Dati tratti da World Trade Organization (2019). Trade Profiles 2019. Vedi https://www.wto.org/english/res_e/statis_e/statis_e.htm.

[18] Jan Bühring (23 marzo 2018). Consumer Electronics Industry Report. Vedi https://intrepidsourcing.com/industry-reports/consumer-electronics-industry-report/

[19] The National Bureau of Asian Research (NBR) (13 agosto 2019). China’s Control of Rare Earth Metals, Interview from the Pacific Energy Summit. Vedi https://www.nbr.org/publication/chinas-control-of-rare-earth-metals/

[20] China’s Inner Mongolia sees more rare earth in situ conversion (19 settembre 2019). Vedi http://www.xinhuanet.com/english/2019-09/19/c_138405352.htm#:~:text=HOHHOT%2C%20Sept.,municipal%20government%20said%20on%20Thursday.

[21] Gordon B. Haxel, James B. Hedrick, and Greta J. Orris (2002). Rare Earth Elements – Critical Resources for High Technology. USGS Fact Sheet 087-02. United States Geological Survey.

[22] China Foreign Direct Investment (2020). Vedi https://tradingeconomics.com/china/foreign-direct-investment.

[23] Frederic Wehrey, Sandy Alkoutami (10 maggio 2020). China’s Balancing Act in Libya, section “China Hedges its Bets”. Carnegie Endowment for International Peace. Vedi https://carnegieendowment.org/2020/05/10/china-s-balancing-act-in-libya-pub-81757.

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[25] Michel Duclos, Hakim El Karoui (23 aprile 2020). Is Covid-19 a Game-Changer for the Middle East and the Maghreb? Institut Montaigne. Vedi https://www.institutmontaigne.org/en/blog/covid-19-game-changer-middle-east-and-maghreb.

[26] Where does Saudi Arabia export to? (2018). Observatory of Economic Complexity (OEC). Vedi https://oec.world/en/visualize/tree_map/hs92/export/sau/show/all/2018/

[27] Armando Sanguini (Marzo 2020). Middle East. In Colombo e Magri, Work in Progress, cit., Part II – The Playing Fields, § 9., pagg. 130-140.

[28] Eleonora Ardemagni (18 maggio 2020). Post-covid e petrolio: come cambiano le monarchie del Golfo? ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), Vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/post-covid-e-petrolio-come-cambiano-le-monarchie-del-golfo-26180.

[29] Giovanni Carbone (Marzo 2020). In Colombo e Magri, Work in Progress, cit., Part II – The Playing Fields, § 7. Africa, pagg. 109-119.

[30] Danielle Paquette (19 gennaio 2019). Trump administration unveils its new Africa strategy – with wins and snags. Vedi https://www.washingtonpost.com/world/trump-administration-unveils-its-new-africa-strategy–with-wins-and-snags/2019/06/19/c751be4c-91f5-11e9-956a-88c291ab5c38_story.html.

[31] Glauco D’Agostino (Maggio 2017). The Emirates Boost and Renewal Opportunities of Gulf Arab Countries. The Diplomatic Insight, 10(5). Islamabad (Pakistan): Institute of Peace and Diplomatic Studies.

[32] Organization of the Petroleum Exporting Countries (2020). Saudi Arabia facts and figures. Vedi https://www.opec.org/opec_web/en/about_us/169.htm.

[33] For the first time, Lebanon defaults on its debts (12 marzo 2020). Vedi https://www.economist.com/middle-east-and-africa/2020/03/12/for-the-first-time-lebanon-defaults-on-its-debts.

[34] Amer Bisat, Marcel Cassard, Ishac Diwan (11 maggio 2020). A Grave Crisis, With No Silver Bullet. Carnegie Middle East Center. Vedi https://carnegie-mec.org/2020/05/11/grave-crisis-with-no-silver-bullet-pub-81752.

[35] Firas Maksad (22 gennaio 2020). Lebanon’s Halloween Government. Vedi https://foreignpolicy.com/2020/01/22/lebanons-halloween-government/

[36] Egypt: Opponents say Sisi’s rule as dangerous as coronavirus (23 marzo 2020). Vedi https://www.middleeastmonitor.com/20200323-egypt-opponents-say-sisis-rule-as-dangerous-as-coronavirus/

[37] Lucia Ardovini (09 aprile 2020). Covid-19 in Egypt: Global Pandemics in Times of Authoritarianism. ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), Vedi https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/covid-19-egypt-global-pandemics-times-authoritarianism-25653.

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[40] North Atlantic Treaty Organization (2 luglio 2018). ‘The Atlantic Charter’. Vedi https://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_16912.htm.

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[42] Joseph Bosco (7 giugno 2020). Pompeo and Trump can turn human-rights issues against China. Vedi https://thehill.com/opinion/international/501523-pompeo-and-trump-can-turn-human-rights-issues-against-china.

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[44] Mustapha Cherif (s.d.). La fine di un mondo. Traduzione dal francese a cura della Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS). Vedi https://www.coreis.it/articoli/la-fine-di-un-mondo.

 

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