IWA MONTHLY FOCUS

GLI ISLAMISTI DI PALESTINA SULLA ROTTA DELL’EMIRO

di Glauco D’Agostino

L’impulso diplomatico del Qatar favorisce la riconciliazione tra Ḥamās e Movimento per il Jihād Islamico in Palestina

20121121-Cairo-Hms-Ismc-JhdL’incontro di metà marzo a Dōḥa tra Khālid Masha’l, Capo dell’Ufficio Politico di Ḥamās, e Ramaḍān Shallāḥ, Segretario Generale del Movimento per il Jihād Islamico in Palestina, rende evidente un cambiamento in atto nella geo-politica medio-orientale, frutto di nuovi equilibri strategici tra gli attori regionali e i protagonisti della politica internazionale globale. Facciamo un passo indietro di qualche mese nel teatro politico della Penisola Arabica.

Durante una conferenza al vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo, organizzazione nata il 25 maggio 1981 con il trattato di Abu Dhabi, a dicembre scorso in Kuwait l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti accusano il Qatar di finanziare il terrorismo in Siria. A fine febbraio, durante un incontro a Riyāḍ, nuovamente i Sauditi chiedono piccati al nuovo Emiro del Qatar Shaykh Tamīm ath-Thānī di recedere dalla sua presunta politica di sostegno in Siria ai gruppi affiliati ad al-Qāʿida. Il 5 marzo Riyāḍ chiede addirittura la chiusura di Al Jazeera e del Brookings Dōḥa Center con l’accusa di appoggiare i Fratelli Musulmani e lancia anatemi nei confronti del Qatar per l’allontanamento dalla comune politica di difesa del Consiglio di Cooperazione del Golfo (leggi, politica di solidarietà verso gli interessi dell’Arabia Saudita): la conseguenza più clamorosa è il richiamo degli ambasciatori di Riyāḍ, Abu Dhabi e Manāma da Dōḥa, infrangendo l’unità dei Paesi arabi del Golfo soprattutto nell’alleanza sviluppata in funzione anti-iraniana.

Come si raccordano questi eventi con l’incontro tra Masha’l e Shallāḥ? È palese la connessione con le aperture di Washington a Tehrān sull’affaire nucleare, la reazione scontata dei Sauditi in termini di raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti e il riallineamento della diplomazia del Qatar in termini di revisione dei rapporti con l’Iran; soprattutto sul dossier siriano, in ordine al quale l’Emiro Tamīm ha riconsiderato il coinvolgimento del suo Paese (secondo le richieste saudite), ma, d’altra parte, controbilanciando la mossa con l’intenzione di rafforzare il supporto ai movimenti islamisti nella regione, come la palestinese Ḥamās, il libanese Ḥizb Allāh, gli yemeniti al-Ḥūthiyyūn. Da sottolineare, anche, l’approccio interconfessionale della politica qatariota, laddove si noti che Ḥamās è un movimento sunnita, Ḥizb Allāh sciita duodecimano e gli al-Ḥūthiyyūn sono di osservanza sciita zaydita. Tutto questo è in netto contrasto con gli interessi correnti sauditi, che vedono Riyāḍ contrapposta al presunto espansionismo degli Ayatollah iraniani, sempre meno antitetica alle posizioni protestatarie israeliane nei confronti degli Stati Uniti e sempre più coinvolta nella sanguinosa politica oppressiva condotta dal totalitarismo del Cairo.

Dunque, oggi il Qatar si pone presumibilmente come elemento di mediazione e superamento delle divergenze tra Sciiti e Sunniti nella regione, in vista sia di una più efficace lotta di liberazione dei popoli (vedi questione palestinese) sia di nuovi modelli partecipativi nella gestione delle società islamiche.

Il rendez-vous tra Masha’l e Shallāḥ ha preceduto con buone probabilità un prossimo incontro a Tehrān tra i due e le autorità governative iraniane, forse addirittura con l’Ayatollah Khāmene’i, la Guida Suprema. E questo suggerisce una probabile attenuazione delle posizioni intransigenti di Ḥamās nei confronti di Damasco e un rafforzamento dei legami con Ḥizb Allāh, mentre, di pari passo, il movimento di Masha’l sta limando le divergenze storiche con il Movimento per il Jihād Islamico in Palestina, da sempre saldo alleato di Tehrān nell’area.

Il fatto è che Ḥamās ha sofferto non poco l’allontanamento politico dalle posizioni iraniane, non universalmente accettato all’interno del movimento, e soprattutto ha sofferto l’inasprimento delle condizioni economiche a Gaza e l’isolamento politico dopo la caduta di Morsi in Egitto; tutti fattori che rischiano di ripercuotersi sulla stabilità del governo. Il Primo Ministro Ismā’īl Haniyeh, tra i fautori di uno stretto rapporto con l’Iran, aveva provato a sostenere questa linea durante le elezioni di aprile dello scorso anno per il rinnovo dell’Ufficio Politico del Movimento, ma aveva dovuto cedere il passo di fronte al consenso ricevuto da Masha’l, presumibilmente sostenuto all’epoca dall’Egitto di Morsi, dal Qatar e dalla Turchia e notoriamente aperturista rispetto ad una più stretta collaborazione con il Presidente palestinese Maḥmud ‘Abbās. Ma è pur vero che si tratta di un’altra stagione politica, ormai sepolta dall’attivismo saudita nel contrasto all’egemonia di Qatar e Turchia in Medio Oriente e dalle grevi vicende egiziane prima ricordate.

L’evento che aveva accelerato il distanziamento di Ḥamās da Tehrān era stato più di ogni altro il deflagrare della situazione interna siriana nel 2011, seguita dalla dolorosa guerra civile che tuttora affligge il Paese. Ḥamās, in un primo tempo neutrale, aveva dovuto prendere posizione a favore dei ribelli sunniti soprattutto sulla spinta dell’opinione pubblica in Palestina e poi, dal 2012, sulla scorta della politica estera del nuovo Egitto democratico contraria alla leadership `alawīta in Siria, aveva chiuso il proprio quartier generale di Damasco che aveva sostituito nel 2001 quello di Amman dopo l’espulsione dal Paese hāshemita nel 1999. I rapporti con gli Ayatollah, invece, erano stati precedentemente intensificati dopo la vittoria di Ḥamās alle elezioni legislative del 2006 e il colpo di stato subito nel 2007 dal Primo Ministro palestinese Haniyeh, con la conseguente reazione e acquisizione del controllo di Gaza. A questa alleanza era seguito un maggior coordinamento con Ḥizb Allāh e Siria per la costruzione di un asse di resistenza, in supporto alla lotta nazionale palestinese contro l’occupante israeliano.

Questa scelta di collaborazione con realtà sciite era anche comprensibile, considerata la posizione più morbida verso Israele mantenuta da Egitto e Giordania, i quali con Tel Aviv avevano firmato trattati di pace rispettivamente nel 1979 e 1995. E tuttavia l’influenza sciita di Tehrān su Ḥamās opportunamente non era mai debordata sul piano religioso, ideologico e culturale, osservando un pieno rispetto dell’identità sunnita del movimento e soprattutto della sua base di riferimento in Palestina. D’altra parte Ḥamās, come filiazione dei Fratelli Musulmani, aveva evitato di enfatizzare qualsiasi disputa dottrinale e dogmatica, non soltanto per evidenti ragioni di opportunità politica, ma anche in ossequio ai principi di riavvicinamento tra Sunniti e Sciiti e di solidarietà tra Musulmani cui si ispira la Fratellanza, specialmente quando l’Islam subisce l’attacco da forze esterne al suo mondo. Gli stessi Fratelli Musulmani, quando Israele aggredì il Libano nel 2006 e gli sciiti di Ḥizb Allāh sorsero a difesa del piccolo Paese dei Cedri, espressero la piena solidarietà nei loro confronti. E comunque, nel caso specifico della Rivoluzione di Khomeini, molti sono stati gli esponenti sunniti che hanno giudicato positivamente la svolta politica in Iran come autentica rivoluzione islamica: si cita tra tutti il teologo Shaykh Syed Abū ‘l-Aʿlā Mawdūdī, che così si espresse subito dopo quegli eventi, invocando la collaborazione dei movimenti islamici con il nuovo Iran.

Il Movimento per il Jihād Islamico in Palestina, invece, nato lo stesso anno della Rivoluzione iraniana, con questa e con la sua leadership ha sempre avuto una storica affinità d’intenti. Movimento di dimensioni molto minori rispetto a Ḥamās, aveva sempre contrastato la sua egemonia a Gaza e nel 2007 aveva partecipato al sanguinoso tentativo di al-Fataḥ di estromettere l’influenza dei Fratelli Musulmani dalla Striscia. Per questo l’appoggio dell’Iran a Shallāḥ ha sempre fortemente infastidito Ḥamās, ma non aveva impedito a quest’ultima di stringere comunque un’alleanza strategica, anche perché memore degli aiuti iraniani richiesti e ottenuti nel 1990 a sostegno della Prima Intifāḍa.

Shaykh Ramaḍān Shallāḥ, che guida la Shura del movimento, è nativo della Striscia di Gaza (come anche l’altro fondatore Fathi Shaqaqi, assassinato dal Mossad) e questo dà conto della maggiore presenza del Jihād Islamico in questo territorio, a diretto contatto con le attività di Ḥamās. Ovviamente, questa coesistenza dà origine anche a frizioni tra le Saraya al-Quds (le Brigate Gerusalemme), gruppo armato del Jihād Islamico, e le Brigate ‘Izz ad-Dīn al-Qassām, ala militare di Ḥamās, convivenza che in ogni caso sconta la diversa prospettiva di azione dei rispettivi movimenti di appartenenza: mentre Ḥamās è un soggetto di governo e per sua caratteristica attenta all’azione sociale, i suoi contendenti islamisti pongono maggiore enfasi sulle attività belliche, realizzando una maggiore efficacia negli attacchi militari offensivi.

Sul dossier siriano il Jihād Islamico, a differenza di Ḥamās, è stato molto attento a non farsi coinvolgere, proclamando una chiara neutralità, malgrado il legame politico e strategico con Tehrān. E, tuttavia, ha rafforzato il coordinamento militare con Ḥizb Allāh nella lotta contro Israele. A sua volta, questa organizzazione libanese, alleata di Damasco, ha sempre avuto ottimi rapporti di collaborazione politico-militare anche con Ḥamās, che invece si è opposta al potere del governo siriano.

Nei confronti del governo palestinese, il Movimento per il Jihād Islamico in Palestina ha una posizione ambivalente: mentre rifiuta l’Autorità Nazionale Palestinese e il Consiglio Legislativo Palestinese, in quanto frutto degli Accordi di Oslo del 1993 e punti di partenza del dialogo con Israele, in qualche modo riconosce il ruolo dell’OLP e del Presidente Maḥmud ‘Abbās come guida del processo partecipativo politico-istituzionale. In ogni caso, in quest’ultimo anno il movimento jihādista ha compiuto notevoli passi in avanti rispetto alla ricerca di unità delle forze di liberazione palestinesi e rispetto al riconoscimento degli altri movimenti islamisti operanti nella regione, pur nella considerazione delle rispettive peculiarità: l’incontro di Dōḥa ne è chiara testimonianza.

Per di più a Dōḥa, ora residenza abituale di Khālid Masha’l, un altro incontro ha segnato in modo discreto le cronache di queste settimane: quello tra Ramaḍān Shallāḥ e il giovane Emiro del Qatar, alla presenza di ʿAzmī Bišāra, l’esponente cristiano palestinese con cittadinanza israeliana attualmente insediato nel Paese del Golfo. Quest’ultimo sarebbe incaricato dalle autorità emirali di immaginare e lanciare un moderno network internazionale della comunicazione, da affiancare ad Al Jazeera e cui affidare il compito di promuovere la prospettiva strategica del Sovrano nel nuovo panorama medio-orientale e internazionale in generale.

Insomma, il Qatar innovativo dell’Emiro Tamīm ath-Thānī, dopo il ruolo propulsivo svolto dal padre Ḥamad bin Khalīfa nella riforma politica araba, potrebbe oggi svolgere il ruolo di ponte tra i più incisivi protagonisti dell’Islam politico, raccordando esigenze geo-politiche con la straordinaria vitalità dei movimenti sociali e di resistenza che promana dal profondo delle società mediorientali. Ospitando gli esponenti di due tra i maggiori movimenti di liberazione palestinesi e proprio ponendo al centro del mondo islamico la questione palestinese, il Qatar si smarca dal paradigma saudita e si pone nuovamente al centro dell’innovazione, anche diplomatica, sperimentando vie inesplorate di riavvicinamento religioso tra le poliedriche confessioni dell’Islam.

L’impresa non è facile. Ma spesso i grandi progetti hanno bisogno del tempo durevole della Storia. Forse quel tempo è arrivato!

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