IWA MONTHLY FOCUS

I TUAREG SPERANO, CON MOLTA PAZIENZA.

PER ORA…

di Glauco D’Agostino

Islamisti e nazionalisti all’alba del nuovo Mali, uno Stato politicamente e militarmente corretto

La celebrazione in Mali delle elezioni parlamentari di dicembre (con la prevalenza del social-democratico Rassemblement pour le Mali) e la precedente elezione in agosto di Ibrahim Boubacar Keïta alla Presidenza della Repubblica hanno concluso, per lo meno formalmente, la transizione istituzionale apertasi ad aprile del 2012, dopo il colpo di stato contro il Presidente Amadou Toumani Touré.

Naturalmente, come spesso avviene di questi tempi, si tratta di democrazia imposta con la forza delle armi di sapore neo-coloniale: entrambe le elezioni si sono tenute con la presenza di 3.000 soldati francesi e 6.000 militari della missione Minusma delle Nazioni Unite, dopo che la Francia, inerme quando i militari avevano interrotto la democrazia maliana, era intervenuta, invece, a gennaio dell’anno scorso con l’operazione militare Serval (Gattopardo), ordinata dal socialista Hollande quando il regime di derivazione golpista aveva perso il controllo del territorio settentrionale dell’Azawad a favore degli Islamisti tuareg.

I Tuareg, gruppo di tribù nomadi di lingua tamazight che vivono oggi nelle regioni sahariane e saheliane di Mali, Niger, Burkina Faso, Algeria e Libia, sono minoranza culturale ed etnica in tutte le nazioni in cui risiedono. La struttura tribale della loro composizione sociale aiuta a comprendere la difficoltà storica dei colonizzatori francesi ad integrarli nella configurazione istituzionale prima dell’Africa Occidentale Francese e poi, nella transizione verso le indipendenze, degli avulsi giovani soggetti statuali: nelle nuove realtà i Tuareg si ritrovano suddivisi in diverse nazioni, condividendo lo stesso spazio con altre etnie di costumi completamente differenti (Bambara, Peul, Malinké, Soninké, Bozo, Toucouleur, Songhai) e risultando spesso emarginati rispetto a queste. Per esempio, la possibilità di utilizzare la loro lingua nelle scuole e sui mezzi di comunicazione è stata sempre un motivo di rivendicazione culturale, accanto alla difesa delle loro prerogative economiche e territoriali e alla richiesta di migliori servizi sociali (strutture sanitarie e scolastiche, ampliamento della rete dei pozzi e della distribuzione alimentare, infrastrutture stradali, agevolazioni nei costi energetici, lotta alla criminalità).

Si spiegano anche così le numerose ribellioni scoppiate in Mali e Niger, fra cui si ricordano:

  • quella del 1916-17 contro i Francesi;
  • quella del 1961-64 contro la riforma terriera introdotta dalla nuova Repubblica socialista del Mali e che, dopo una brutale repressione, vide uno dei suoi protagonisti, Zeyd Ag Attaher, figlio dell’Amenokal (Capo tribale) dei Tuareg Ifoghas, finire confinato qualche anno dopo presso le miniere di sale di Taoudeni, nel nord desertico del Mali, in una delle più remote prigioni della Terra;
  • quella del 1990-95 in Mali, iniziata negli ultimi mesi del regime di Moussa Traoré e terminata nel primo periodo della presidenza di Alpha Oumar Konaré, e quella contemporanea e finalizzata all’autonomia in Niger, la quale sfocerà nell’accordo per una maggiore quota di risorsa mineraria a favore dei Tuareg;
  • quella del febbraio 2007 sempre in Niger e questa volta per una maggiore quota dello sfruttamento dei depositi di uranio, richiesta in conflitto con gli interessi delle concessionarie francesi nell’area (vedi i giacimenti di Imouraren, tra i più grandi al mondo).

La dichiarazione d’indipendenza dell’Azawad di aprile 2012, praticamente coincidente con il colpo di stato militare e in reazione ad esso, si iscrive, dunque, in questo contesto di inquietudine tuareg, intrisa di secolare marginalizzazione sociale e vissuta in una dura esistenza tra siccità e carestie, tra promesse statali e dure repressioni delle proteste. È evidente che le radici dell’insoddisfazione vanno ricercate negli errori compiuti all’atto dell’indipendenza nel disegnare territorialmente ed istituzionalmente il nuovo Mali. Dunque, errori francesi di origine, cui, dopo 50 anni, si somma un “paternalismo” militare superficialmente quanto demagogicamente ammantato di finalità anti-terroristiche.

Indubbiamente, il processo democratico indotto dopo l’intervento francese potrebbe comunque andare nella direzione di un recupero del ribellismo tuareg, anche in considerazione del fatto che l’accordo provvisorio di Ouagadougou dello scorso 18 giugno (che ha consentito l’espletamento di elezione presidenziale e legislativa) ha riunito attorno al mediatore burkinabé Blaise Compaoré sia le autorità governative del Mali sia i combattenti tuareg del neonato Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad, del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad e del Fronte Popolare dell’Azawad. Assenti dal tavolo dei negoziati gli islamisti di ʾAnṣār ad-Dīn e del Movimento per l’Unità e il Jihād in Africa Occidentale.

Questo quadro dà conto delle differenziazioni esistenti tra i principali movimenti tuareg, che possono essere per grandi linee così qualificati:

  • i lealisti verso la Repubblica del Mali, come  il Colonnello-Maggiore Alhaji Ag Gamou, già Capo di Stato Maggiore aggiunto del Presidente della Repubblica, poi aderente al Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad e in seguito ritornato sui suoi passi in difesa del regime;
  • i federalisti del Fronte Popolare dell’Azawad (FPA), movimento inter-etnico (Tuareg, Songhai, Arabi e Peul) guidato dalla fondazione (2012) dal Colonnello Hassane Ag Mehdi;
  • i nazionalisti laici, raggruppati soprattutto attorno al Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), il quale, fondato nel 2011, ha perso la superiorità militare nel nord a favore degli Islamisti. Dopo l’intervento francese l’MNLA ha ridimensionato le proprie aspirazioni, ricercando, per lo meno nel breve termine, una più ottenibile autonomia;
  • gli Islamisti autonomisti dell’Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad (HCUA), nato a Kidal il 19 maggio 2013 dallo scioglimento del Movimento Islamico dell’Azawad (MIA) di Algabass Ag Intalla, figlio di Intalla Ag Attaher, l’Amenokal dei Tuareg Ifoghas e Presidente dell’HCUA;
  • gli Islamisti jihādisti di ʾAnṣār ad-Dīn (Difensori della Religione) di Iyad Ag Ghaly, gruppo nato nel 2012 per l’applicazione della Sharī’a e per l’instaurazione di uno Stato Islamico, anche se non necessariamente separato da Bamako, come invece persegue in prospettiva l’MNLA;
  • i pan-Islamisti jihādisti del Movimento per l’Unità e il Jihād in Africa Occidentale (MUJAO), movimento nato a metà del 2011 con lo scopo di portare l’insurrezione islamista nell’Africa Occidentale, con il Mali settentrionale utilizzato come segmento di un jihād più ampio. Per questo da alcuni analisti è erroneamente ritenuto una costola di al-Qāʿida nel Maghreb Islamico, nonostante la evidente contrarietà della direzione algerina di quest’ultima circa l’opportunità di perseguire prematuramente l’instaurazione di uno Stato Islamico in Mali.

Sicuramente altri gruppi islamisti di derivazione esterna all’area maliana sono presenti nell’Azawad, perseguendo soprattutto scopi di proselitismo e allargamento della propria base militante e questo spiegherebbe il successo ottenuto da ʾAnṣār ad-Dīn presso i giovani nell’offrire un modello strettamente islamista, ma nello stesso tempo aderente alla tradizione tuareg. Tra i movimenti esogeni vi sono ad esempio:

  • i deobandi del Tablighi Jamā‘at (Gruppo di Diffusione della Fede), movimento missionario pacifista trans-nazionale nato in India nel 1926 e presente nel Mali settentrionale dagli anni ’90 del secolo scorso. Secondo l’organizzazione internazionale per la prevenzione dei conflitti International Crisis Group, l’intero gruppo dirigente dei Tuareg Ifoghas di Kidal, tra cui Intalla Ag Attaher e Iyad Ag Ghaly, si sarebbe convertito ai Tablighi; ma numerose evidenze indicano che, tra i maggiorenti Ifoghas, solo Ag Ghali e una stretta cerchia a lui vicina avrebbe abbracciato questa dottrina;
  • i wahhābiti di ispirazione saudita del Battaglione Signed-in-Blood, fondato nel 2012 dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, già Comandante della Zona Sahara-Sahel di un gruppo autonomo di al-Qāʿida nel Maghreb Islamico. Basato a Gao, dove i combattenti islamici sono stati bene accolti da molti abitanti quando la città è stata conquistata dal MUJAO, il Battaglione nasce per il consolidamento della Sharī’a nel nord del Mali e si oppone alle Confraternite sufi presenti tradizionalmente sul territorio;
  • i salafiti di Tanzim al-Qāʿida fī Bilād al-Maghrib al-Islāmi (Organizzazione di al-Qāʿida nel Paese del Maghreb Islamico), nuova denominazione da gennaio 2007 dell’algerino Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, dopo la santa unione con al-Qāʿida annunciata dallo Shaykh ʾAyman aẓ-Ẓawāhirī qualche mese prima. Consacrata alla diffusione della Sharī’a e impegnata anche alla liberazione del Mali dal presunto giogo coloniale francese, l’organizzazione ha reclutato militanti anche in Mauritania e Marocco, oltre che naturalmente nel Mali, nel Niger e in Senegal.

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La crisi del 2012-13 in Mali segue un lungo periodo di rivalutazione dei movimenti islamisti come soggetti politici e una profonda riflessione sul rapporto tra identità nazionale e identità religiosa: questa riflessione investe i Tuareg sulla modalità di rendere effettiva la corrispondenza tra etnicità e Islam. In altri termini, dopo le infelici esperienze del governo socialista di Modibo Keïta negli anni ’60 (che aveva oscurato l’Islam e i suoi sforzi riformisti), dall’avvento della presidenza Konaré, primo Presidente eletto democraticamente nel 1992 e 1997 (che pur avrebbe sponsorizzato agli inizi degli anni 2000 la creazione dell’Alto Consiglio Islamico del Mali), molti islamici, specialmente del nord, hanno avuto l’occasione di dimostrare in modo crescente la loro avversione verso Bamako, acquisendo nuovi spazi di legittimità politica e richiedendo riforme in senso islamico. Ma, con gli accordi di pace del 1996, le regioni settentrionali di Tinbuktu, Gao e Kidal restarono ancora più isolate e, allo stesso tempo, videro la formazione di associazioni islamiche locali, così come ne attrassero molte di ispirazione allogena, in particolare da Arabia Saudita e Pakistan. Inoltre, negli ultimi anni si è sviluppato un dibattito pubblico sulla natura della laicità dello Stato e sul ruolo dell’Islam in politica. Ad esempio, l’Imam wahhābita Mahmoud Dicko, Presidente dell’Alto Consiglio Islamico del Mali e nativo della regione di Tinbuktu, respinge una visione della laicità come “negazione della religione da parte dello Stato”, invocando una “laicità intelligente”, in cui “i diritti di ciascuno siano rispettati” secondo i principi costituzionali della libertà di culto.

In questo quadro, la ribellione tuareg del 2012 era incominciata, in concomitanza con il colpo di stato militare di marzo, con la richiesta d’indipendenza delle regioni di Tinbuktu, Gao e Kidal, formulata da parte del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad di Bilal Ag Acherif, suo Segretario Generale, e Moḥamed Ag Najem, Capo dell’ala militare. La leadership dell’MNLA era stata subito contestata dagli Islamisti di ʾAnṣār ad-Dīn, i quali, già radicati nell’area di Kidal, a maggio conquistavano Tinbuktu e a giugno, con l’apporto dei pan-Islamisti del MUJAO, sconfiggevano i laicisti nella battaglia di Gao. In nome del dialogo, negoziati con il governo di Bamako erano avviati subito non solo per conto dei Tuareg, ma anche di altre etnie storicamente in contrasto con loro, come i Bella e i Songhai: è l’evidenza di una motivazione religiosa, che adesso si sovrappone alle pretese territoriali. Il tentativo islamista di conquistare la regione di Mopti ai primi di gennaio 2013 si infrangeva contro l’intervento francese, appoggiato dall’MNLA nella vana speranza di riconquistare a sé il controllo del nord: entro fine mese l’intero Azawad era di nuovo sottomesso al potere governativo maliano e alla tutela militare di Parigi.

Al momento, con un contesto istituzionale completamente rinnovato, il nuovo Mali ha l’opportunità di recuperare il dissenso tuareg e islamista che ha attraversato la sua storia sin dalle origini. Di certo Bamako (e assieme ad essa Parigi, Washington e Algeri) non consentirà nel breve periodo fughe secessioniste, così come non consentirà alle fazioni islamiche ritenute estremiste di condizionare l’agenda politica maliana. Le armi democratiche dei fraterni supervisori, più che la volontà delle sue componenti politiche, lo garantiscono e sono sempre in allerta. Altrettanto certamente il ruolo pubblico dell’Islam non potrà, seppure entro la cornice di uno Stato secolare, essere respinto nei recessi in cui era stato confinato negli anni ’60. Da allora sono trascorsi decenni e, senza dubbio, la sua consapevolezza esce rafforzata dalle vicende belliche e proprio dal ridimensionamento delle sue componenti più radicali: dopo tutto, il ristabilimento di una parvenza di legittimità dello Stato maliano promana da un compromesso cui anche gli Islamisti autonomisti hanno dato un forte contributo.

Questo discorso si riversa direttamente sulle scelte costituzionali che i politici saranno chiamati a promuovere e che saranno tanto più aderenti alla realtà sociale quanto più la classe dirigente si renderà conto dell’influenza che alcuni gruppi sociali più radicati esercitano sulla pubblica opinione: in altri termini, non sempre gli organi della rappresentanza politica possono agire autonomamente, ancorché legittimamente, senza tener conto del sentimento popolare e della sua esigenza di partecipazione alle decisioni. Ne è stata testimonianza, ad esempio, la fiera opposizione islamica ad alcune norme del nuovo Codice familiare introdotto nel 2008 dal Presidente Amadou Toumani Touré e che ha condotto all’immediato ritiro dello stesso a seguito del grande raduno di massa organizzato dall’Alto Consiglio Islamico del Mali.

Allo stesso modo, le richieste autonomiste dei Tuareg non potranno essere ancora sottovalutate sulla base di una sconfitta militare, ma valutate ed esaminate anche in ordine alle politiche da introdurre per combattere marginalizzazione e discriminazione etnica e sociale, arretramento delle condizioni economiche, mancato sviluppo, depauperamento del territorio, esclusione politica. E nel contempo avviare politiche di sostegno alle istituzioni locali e di cooperazione regionale. Forse, questi sono gli interventi che le popolazioni settentrionali si attendono da chi ha a cuore la loro condizione (lo Stato o soggetti spesso sostitutivi della sua autorità, vedi organizzazioni politiche o religiose), in mancanza dei quali difficilmente la cura militare di tanto in tanto offerta assorbirà il dissenso.

Per concludere, il Mali può salvarsi e definire un suo futuro “maliano” se, pur nel rispetto delle sue lealtà internazionali, riuscirà a respingere quelle logiche – queste, sì, allogene sul serio! – che impongono le superficiali, ma utilitaristiche semplificazioni “occidentali”, per cui Tuareg = Islamisti = estremisti = al-Qāʿida = terrorismo, cui consegue intervento militare democratico. Sono logiche molto comode viste dalle opulente Parigi o Washington, molto meno se vissute dalle angosciate Bamako e Tinbuktu.

Ma c’è tempo. I Tuareg, popolo millenario del Sahara, sperano e hanno molta pazienza. Per ora…

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