IL QATAR, L’INDIPENDENZA TUTELATA, LA SUA ABILITÀ GEO-POLITICA
di Glauco D’Agostino
Questo articolo è stato per primo pubblicato in Inglese da “Geopolitica. Revistă de Geografie Politică, Geopolitică şi Geostrategie“, nr. 1 (102 / 2024) Translații geopolitice (II), Editura “Top Form”, Asociaţia de Geopolitica Ion Conea, Bucureşti, 2024.
Sommario
Qatar, terra di confine e ponte tra culture multiformi all’interno dello stesso Islam. Tutela dell’indipendenza, superamento del settarismo, mediazione diplomatica e difesa delle istanze palestinesi rappresentano il fulcro della geo-politica di Dōḥa. I problemi all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo riguardano quella che viene considerata una sfida culturale ed economica di Dōḥa al potere prevalente dei Sauditi. Negli ultimi trenta anni il piccolo Stato ha assunto la consapevolezza di poter raggiungere un maggiore equilibrio nei rapporti con Arabia Saudita e Iran. Con il sorgere delle Rivolte Arabe, l’atteggiamento del Qatar diventò più politicamente marcato. Qatar e Arabia Saudita condividono l’assetto istituzionale (Monarchie autoritarie), la religione (l’Islam wahhābita) e il sistema giuridico (Sharī’a come fonte del diritto). Eppure, Dōḥa sceglie di supportare le Rivolte Arabe e i Fratelli Musulmani, mentre Riyāḍ fa da barriera ad ogni infiltrazione dell’Islam politico. Sotto embargo del GCC dal 2017, il piccolo Emirato, chiamato in emergenza ad uno sforzo interno di innovazione tecnologica e di efficientamento, ha giocato anche le carte su cui ha costruito la sua credibilità internazionale: il potere finanziario e la diplomazia.
Ma il soft power del Qatar non si limita alla gestione del suo immenso patrimonio energetico, allargando la sua prospettiva ad un ruolo di guida culturale e comunicativa verso tutto il mondo arabo sunnita e promuovendo l’associazionismo sociale. Quando nasce Al Jazeera Media Network, l’Emirato wahhābita si dota di uno strumento di comunicazione plurale che sfida i prototipi di società arabe e medio-orientali ancora in trasformazione, senza avere il timore di scardinare l’ordine politico-istituzionale della nazione stessa. Per quanto riguarda il Medio Oriente, Dōḥa è stata sempre vicina al popolo palestinese sia sulle questioni di Gaza sia sullo status di Gerusalemme. Tuttavia, ha sempre mantenuto un canale aperto con Tel Aviv, privilegiando il dialogo alla netta contrapposizione di principio. Tuttora, i processi di pace verso la ricomposizione di un quadro politico stabile nella regione sono legati alla capacità del Qatar di favorire la comunicazione tra i contendenti.
Parole-chiave: Qatar, Islam wahhābita, Islam politico, mediazione diplomatica, potere finanziario, Consiglio di Cooperazione del Golfo, Arabia Saudita, Iran, Fratelli Musulmani, Al Jazeera, Gaza, Israele.
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Introduzione
Non c’è dubbio che il Qatar abbia svolto e svolga tuttora un ruolo di mediazione sul piano diplomatico nell’azione internazionale e di pacificazione nell’ambito del dialogo inter-islamico. È la sua natura politica fin dall’emancipazione dal colonialismo britannico, fatta insieme di pragmatismo e di visione religiosa volta alla collaborazione, pur tra mille contraddizioni. Eppure, Dōḥa si inserisce come protagonista a pieno titolo nel panorama medio-orientale e non solo. Così, le super-titolate Il Cairo, Riyāḍ, Tehrān, Ankara, Tel Aviv e Damasco devono tener conto delle sue posizioni, mentre anche i colossi geo-politici globali spesso devono ricorrere alle sue mediazioni per risolvere conflitti altrimenti inestricabili. Oggi il caso Israele-Ḥamās, ieri Stati Uniti-Tālibān e Yemen-Ḥūthi, ma anche ostilità interconfessionali come in Libano nel 2008 o quelle in Palestina tra Ḥamās e Movimento per il Jihād Islamico. Quale il retroterra di questo exploit dell’Emirato in poco più di trenta anni? Cerchiamo di fare il punto, esaminandone opportunità e difficoltà, rivalità e alleanze, cause esterne e assetti interni.
Le caratteristiche geo-antropiche del Qatar non ne favoriscono l’espansione delle attività economiche tradizionali, come l’agricoltura e l’industria, tenuto conto del territorio desertico dominante e del conseguente clima. La stretta penisola su cui sorge ne limita anche l’autonomia dei traffici commerciali terrestri, dipendenti dall’accesso dal solo confine con l’Arabia Saudita. La sua collocazione territoriale la pone a diretto contatto con due giganti medio-orientali come l’Arabia Saudita e l’Iran che dominano il Golfo. Il piccolo Stato conta poco più di 300 mila cittadini residenti e circa 2,5 milioni di immigrati provenienti dai Paesi dell’Asia Meridionale, accogliendo così poco più di un milione di Arabi e 1,8 milioni di Musulmani. Tutti questi presupposti particolari ne delineerebbero una condizione di subalternità obbligata rispetto al suo ambiente territoriale di riferimento verso cui espone le proprie debolezze. E tuttavia, da un certo momento della sua breve storia, Dōḥa ha dimostrato di avere consapevolezza dei suoi punti di forza geo-politici, adoperando con saggezza e prudenza le sue risorse economiche, diplomatiche e relazionali e giocandole in una complessa partita geo-politica da cui sembrava completamente esclusa.
Benché sia il quinto produttore di gas naturale al mondo, il Qatar è il terzo Paese con le maggiori riserve di gas naturale dopo Russia e Iran, rappresentando il 13,1% dello share planetario.[1] Con i suoi quasi 82.000 dollari di PIL nominale pro capite a prezzi correnti,[2] oggi è uno dei Paesi più prosperi al mondo con un Indice di Sviluppo Umano (HDI) valutato “Molto Alto”[3] e il quarto al mondo per PIL pro capite valutato secondo Parità di Potere d’Acquisto in International $, con un valore di oltre 114 mila dollari.[4] L’aumento di quasi il 50% nel suo Reddito Nazionale Lordo pro capite tra il 1990 e il 2021 ne è testimonianza. Tutto questo ha alimentato anche le sue ambizioni di autonomia finanziaria e indipendenza geo-politica rispetto ai suoi ingombranti vicini. Dopo le sanzioni alla Russia a seguito degli eventi bellici in Ucraina, Dōḥa ha avuto l’opportunità di incrementare il suo export verso i Paesi occidentali, beneficiando di importanti entrate derivanti dalla vendita di gas su cui Arabia Saudita e gli altri Emirati del Golfo non hanno investito abbastanza.
Ma il soft power qatariota non si limita alla gestione del suo immenso patrimonio energetico, allargando la sua prospettiva ad un ruolo di guida culturale e comunicativa verso tutto il mondo arabo sunnita e promuovendo l’associazionismo sociale che mobilita le opinioni pubbliche verso i temi dell’emarginazione e della povertà nei Paesi in via di sviluppo.
L’eredità coloniale e il ruolo nella Penisola Arabica
Con queste premesse, è conseguenziale l’atteggiamento di preoccupazione dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati nella Penisola Arabica in ordine all’autonomia di comportamento di Dōḥa rispetto alle direttive che Riyāḍ, in quanto forza dominante dell’area, richiede ai governanti dei Paesi contermini. Gran parte dei problemi che si sono verificati nella regione ed estesi al Medio Oriente e Nord-Africa riguarda l’insofferenza di alcuni partner del Consiglio di Cooperazione del Golfo verso quella che viene considerata una sfida culturale ed economica al potere prevalente dei Sauditi, una sorta di lesa maestà. Soprattutto quando le scelte di politica estera di Dōḥa sono da loro giudicate pericolose per la stessa sopravvivenza degli assetti politici esistenti.
Per la verità, dall’imposizione del protettorato britannico nel 1916 e dopo la concessione petrolifera all’Anglo-Persian Oil Company, il Qatar non aveva esercitato alcun potere nella politica estera e di difesa e perfino la sua moneta era rimasta la rupia indiana e poi dal 1959 la rupia del Golfo, sempre emessa dalla Reserve Bank of India. Ma anche dopo l’indipendenza acquisita nel 1971, i legami di Dōḥa con Londra erano rimasti solidi nell’ambito di un trattato di amicizia. Quando nel 1981 nacque il Consiglio di Cooperazione del Golfo, che comprende tutte le monarchie della Penisola Arabica, il Qatar fu posto di fatto sotto la guida del maggiore di questi soggetti, di gran lunga l’Arabia Saudita.
Protagonista della nascita ed evoluzione dello Stato, è stata ed è tuttora la Dinastia ath-Thānī, originaria della regione centrale “dell’altopiano” (“Najd” in Arabo) dell’Arabia Saudita, e artefice nel 1878 della prima forma moderna di entità statale qatariota riconosciuta dai due potentati all’epoca dominanti, il Sultanato Ottomano e l’Impero Britannico. Il suo continuo controllo di governo per quasi 150 anni, la sua forma istituzionale di monarchia consultiva attraverso lo Shura Council in esercizio dal 1972, la capacità di respingere ogni ingerenza esterna sul ruolo istituzionale della dinastia regnante ne hanno consolidato la solidità politica e il talento per guardare al futuro.
Così, sul finire degli anni ‘80 del secolo scorso, dopo oltre un secolo dalla sua nascita, una nuova élite capeggiata dall’allora Principe ereditario Shaykh Ḥamad bin Khalīfa ath-Thānī comprende le potenzialità di innovazione del piccolo Stato, ad iniziare da un più accorto ed efficiente utilizzo delle risorse energetiche. La nomina nel 1992 di ‘Abdullāh bin Ḥamad al-Attiyah a Ministro dell’Industria e dell’Energia e l’anno dopo a Presidente dell’OPEC apre una nuova stagione di protagonismo di Dōḥa sul panorama internazionale, con la consapevolezza di poter raggiungere un maggiore equilibrio nei rapporti con Arabia Saudita e Iran.[5] Questo significava soprattutto un distanziamento dalle posizioni saudite, rese più accondiscendenti verso la politica di Washington dopo la guerra contro Baġdād del 1991 e ancora più vigorosa e assertiva con la nuova Amministrazione insediata alla Casa Bianca nel 1993. Temendo una maggiore egemonia saudita nell’area e memore della fragilità dei piccoli stati come nel caso del Kuwait, il Qatar concluse accordi militari di difesa prima con gli Stati Uniti nel 1992 e due anni dopo con la Francia.
Dopo l’insediamento della nuova leadership, a seguito del colpo di stato del 27 giugno 1995 operato da Ḥamad bin Khalīfa ath-Thānī contro il regnante padre Amīr Khalīfa bin Ḥamad, la politica estera prende il sopravvento negli affari di stato e con questa un nuovo più deciso indirizzo. Soprattutto aumentano le distinzioni nei confronti di Riyāḍ e del suo controllato Consiglio di Cooperazione del Golfo.[6]
La reazione saudita inizia proprio a seguito delle prese di posizione della nuova gestione e si concretizzerà sia con iniziative di ingerenza interna sul quadro istituzionale sia con pressioni e veti verso programmi imprenditoriali di respiro regionale. Nel primo caso rientra l’appoggio, con il concorso dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, ai tentativi di colpi di stato a Dōḥa nel 1996 e nel 2002. Nel secondo caso, diverse sono state le opposizioni saudite a progetti coinvolgenti il Qatar: per esempio, il Dolphin Gas Project per produrre, trattare e trasportare gas naturale dal North Field del Qatar agli Emirati Arabi Uniti e all’Oman, concepito nel 1999 e comunque realizzato nelle sue varie componenti prima del 2010 da una compagnia a partecipazione franco-americana con sede ad Abu Dhabi;[7] il gasdotto Qatar-Bahrein-Kuwait attraverso le acque saudite, previsto da un protocollo del 2001 mai concretizzato;[8] la sopraelevata EAU-Qatar, prevista nel 2005 e subito in fase di stallo, ideata per superare i problemi di traffico e tempi necessari per percorrere i 125 km di territorio saudita che separano i due Paesi.[9]
L’apertura agli USA e la reputazione nella mediazione
In questa situazione di schermaglie continue, non sorprende che Dōḥa abbia cercato e ottenuto la fiducia di Washington nelle sue capacità operative, pur mantenendo una propria facoltà di giudizio politico, come nel caso della Seconda Intifāḍa palestinese del 2000. E tuttavia la Casa Bianca del dopo 11 settembre è impegnata nelle invasioni di Afghanistan e Iraq che richiedono uno sforzo bellico e un maggiore coinvolgimento dei Paesi disponibili nell’area del Golfo. Quando ad aprile 2003 la base aerea di al-Udeid, in Qatar, accoglie il Centro Operativo USA delle Operazioni Aeree da Combattimento per il Medio Oriente, prima insediato alla Base Aerea Prince Sultan in Arabia Saudita, è chiaro che l’avvicendamento territoriale è frutto di una preparazione diplomatica durata alcuni anni. La base qatariota, costruita nel 1996 e mantenuta segreta fino al 2002, era già stata resa disponibile agli Stati Uniti per l’intervento in Afghanistan nel 2001 e l’anno dopo un accordo tra le parti aveva ufficializzato la presenza americana nella base.
La politica estera dell’Emiro Ḥamad bin Khalīfa prima delle Primavere Arabe è stata comunque contrassegnata da una sostanziale neutralità tra contendenti nelle varie crisi medio-orientali, atteggiamento che gli ha consentito di affermare la propria reputazione di mediatore.
L’insurrezione ḥūthi in Yemen, iniziata nel 2004, conclude la sua quarta fase nel 2007 per la mediazione del Qatar, che accetta di accogliere i ribelli in cambio del loro disarmo. Gli Ḥūthi sono Sciiti zayditi considerati eredi del Regno Mutawakkilita dello Yemen, la cui caduta nel 1962 aveva portato alla fine dell’Imamato sciita locale dopo mille anni di governo. Se l’intervento di negoziazione del Qatar wahhābita in favore degli Ḥūthi zayditi mostra la mancanza di settarismo religioso, d’altra parte rivela il tentativo geo-politico di smarcarsi dall’influenza di Arabia Saudita e Iran, che sono coinvolti nelle ostilità, sebbene in quella fase non direttamente, ma certamente in qualità di ispiratori.
Stesse considerazioni si possono fare per il conflitto interno libanese tra il 2006 e il 2008, che opponeva le forze governative prevalentemente sunnite filo-saudite alle opposizioni raccolte attorno agli sciiti di Ḥizb Allāh e Amal. L’Accordo di Dōḥa del 21 maggio 2008, che mise fine alla pericolosa crisi politica e avrebbe portato l’indipendente Michel Suleiman alla Presidenza, costituì un successo diplomatico per l’Emiro Ḥamad bin Khalīfa, riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, da Arabia Saudita e Iran, dagli Stati Uniti e dai maggiori Paesi dell’Unione Europea.
Le Rivolte Arabe e la Fratellanza Musulmana
Con il sorgere delle Rivolte Arabe e l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto, l’atteggiamento del Qatar diventò più politicamente marcato, creando un’ulteriore spaccatura nel Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il sostegno politico alle insurrezioni che hanno sconvolto soprattutto il Nord-Africa contrastava con le preoccupazioni delle altre monarchie del Golfo in ordine alla stabilità degli assetti istituzionali e geo-politici correnti. Negli EAU, per esempio, la petizione avanzata da molti accademici e intellettuali per elezioni libere e democratiche nella formazione del Consiglio Nazionale Federale venne sostanzialmente ignorata. Destava apprensione nei governanti insediati ad Abu Dhabi la risposta politica che avrebbe potuto giungere dagli Emirati della Federazione meno beneficiate dalla distribuzione delle risorse economiche.[10] In pratica, un rifiuto delle concezioni dell’Islam politico in quanto aperte alla partecipazione popolare agli affari di governo. Chiusura soltanto da parte delle Monarchie autoritarie verso la necessità del consenso? Non si direbbe, se è vero che molte Repubbliche scaturite dalla dissoluzione del Sultanato Ottomano avevano finito per scegliere modelli autoritari laici sotto l’influenza delle potenze europee. Così erano l’Egitto, la Tunisia e la Libia prese di mira dalle Rivolte Arabe. Dunque, non una distinzione istituzionale.
Qatar e Arabia Saudita condividono l’assetto istituzionale (Monarchie autoritarie), la religione (l’Islam wahhābita) e il sistema giuridico (Sharī’a come fonte del diritto). Eppure, Dōḥa sceglie di supportare le Rivolte Arabe e i Fratelli Musulmani, mentre Riyāḍ avversa le une e gli altri e fa da barriera ad ogni infiltrazione dell’Islam politico. È evidente che né l’assetto istituzionale, né la religione, né il sistema giuridico aiutano a comprendere le distinzioni di comportamento. Di certo la geo-politica ha il suo peso in tutto questo, ma non basta. Diversamente dalle affermazioni ufficiali delle autorità qatariote, la scelta di affiancare i Fratelli Musulmani è forse anche una scelta politica derivata dalla condivisione di alcuni valori espressi nell’applicazione della Sharī’a: formazione del consenso e sostegno alla legittimità. Molti hanno interpretato questo come un avvicinamento ai valori illuministici di democrazia di cui si nutre l’Occidente, ma è evidente che quelle esperienze non hanno niente a che fare con la realtà del mondo musulmano.
Quando l’Imām wahhābita Ḥasan al-Bannā’ fonda la Fratellanza Musulmana nel 1928, costruisce il movimento sui concetti di Umma (l’universalità dell’Islam), superamento delle identità nazionali e etniche rispetto alla Legge Islamica, partecipazione e solidarietà sociale.[11] Da queste basi nasce negli anni ’80 del secolo scorso l’opzione democratica della Fratellanza, che si iscrive sempre nell’ottica della disapprovazione dell’introduzione di modelli occidentali nell’organizzazione sociale islamica.[12] L’esigenza di internazionalizzazione dell’organizzazione politica ha condotto la Fratellanza ad estendere la sua influenza su vari Paesi arabi con la formazione di nuovi movimenti affiliati. Alcuni di questi, come in Palestina, Marocco ed Egitto, acquisiscono il consenso e poi conquistano il potere istituzionale sulla base del binomio Democrazia e Islamismo, almeno fin quando l’esperimento politico non sia stato interrotto da processi antidemocratici sotto l’egida delle democrazie occidentali, come a Gaza nel 2007 e al Cairo nel 2013.
Proprio la schiacciante vittoria elettorale in Egitto di Moḥammed Morsi, il suo primo Presidente eletto democraticamente, farà emergere palesemente le differenti posizioni politiche di Qatar, da un lato, e Arabia Saudita e EAU, dall’altro. Il Cairo sarà abbondantemente finanziato da Dōḥa durante la Presidenza Morsi e da Riyāḍ e Abu Dhabi dopo il colpo di stato di ʿAbd al-Fattāḥ as-Sīsī (Ulrichsen, 2020).
Da queste vicende appare anche evidente che il Qatar del nuovo Emiro Shaykh Tamīm ath-Thānī, succeduto al padre nel 2013, abbia aperto spazi di relazioni internazionali al di là dei vincoli imposti dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, mettendo a frutto la credibilità offerta durante le mediazioni degli anni precedenti. Le composizioni dei contrasti politici in Yemen e Libano, per esempio, apriranno la strada a rinnovate aperture verso l’Iran, in particolare per la gestione del giacimento di gas di North Pars. Ma la visione dell’Emiro va ben oltre, allacciando stretti rapporti con la Turchia di Erdoğan proprio sulla base condivisa dell’opzione favorevole ai Fratelli Musulmani e proiettandosi nel teatro palestinese con l’ennesima mediazione per la riconciliazione tra Ḥamās e Movimento per il Jihād Islamico, svoltasi proprio a Dōḥa nel 2014.[13] In passato, nel 1996 il Qatar aveva perfino allacciato relazioni diplomatiche con Israele, interrotte dopo il Massacro di Gaza perpetrato dalle Forze di Difesa Israeliane nel 2008-09 durante il blocco terrestre, aereo e marittimo israelo-egiziano della Striscia di Gaza, ma senza che l’azione diplomatica comportasse preclusione per un’ennesima mediazione qatariota per una tregua tra Tel Aviv e Ḥamās nell’Operazione Protective Edge del 2014.[14]
In realtà, la vicinanza del Qatar con il movimento di resistenza palestinese insediato a Gaza era già palese da qualche anno, da quando Dōḥa verosimilmente finanziava la gestione amministrativa della Striscia, nel contempo ospitando la sua leadership politica. E proprio in quel cruciale 2014, Riyāḍ e Abu Dhabi reagirono all’attivismo dell’Emiro ath-Thānī negli affari palestinesi, dichiarando terroristi i Fratelli Musulmani e le organizzazioni affiliate e dunque fiancheggiatori del terrorismo gli eventuali finanziatori (Ulrichsen, 2020).
Una svolta decisiva per gli equilibri medio-orientali e della Penisola Arabica, che si riversò inevitabilmente sulla compattezza del Consiglio di Cooperazione del Golfo.[15] Da sottolineare come questa strategia mutuata dal comportamento di intelligence e cancellerie occidentali durante le distruttive campagne anti-terrorismo, il disegno di marchiare d’infamia molti movimenti islamisti o di liberazione e resistenza nazionale operanti nel mondo arabo-islamico (compreso il Nord-Africa) abbia alienato le loro simpatie verso l’Arabia Saudita, che pure rappresenta uno dei punti di riferimento più importanti della cultura e della spiritualità sunnita.
L’embargo del CCG e l’apertura di nuovi mercati
L’accusa contro il Qatar di allontanarsi dalla comune politica di difesa del Consiglio di Cooperazione del Golfo aveva già portato nel 2014 al richiamo degli ambasciatori di Arabia Saudita, EAU e Bahrein da Dōḥa, infrangendo l’unità dei Paesi arabi del Golfo soprattutto nell’alleanza sviluppata in funzione anti-iraniana. Ma quando il 5 giugno 2017 questi tre Paesi con l’aggiunta dell’Egitto interruppero i rapporti diplomatici con il Qatar specialmente per il suo appoggio concesso ai Fratelli Musulmani, accompagnarono l’azione con il blocco e il boicottaggio delle sue attività economiche e commerciali.[16] Venti giorni dopo, per porre fine alla crisi, presentavano un elenco di tredici condizioni che, se soddisfatte, “il Qatar scomparirebbe come Stato sovrano”, ammoniva Le Monde all’epoca.
Il documento chiedeva di fermare tutti i contatti con “organizzazioni terroristiche”, ma anche con i movimenti d’opposizione nei quattro Paesi citati. Sul fronte diplomatico, Dōḥa era chiamata a ridurre le sue relazioni politiche e commerciali con l’Iran e a cessare qualsiasi cooperazione militare con la Turchia. L’Emirato avrebbe dovuto anche pagare “riparazioni” finanziarie ai suoi vicini e sottoporsi ad un meccanismo di controllo per i futuri dieci anni. Il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ritenne l’elenco delle tredici richieste contrario al diritto internazionale. Richard Anderson Falk, un ebreo americano professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, parlò addirittura di “Crimine geopolitico” e di “ingerenza illegale nella sovranità del Qatar”.[17]
La corrispondenza dei tempi è fondamentale in queste circostanze. Non è un caso che 5 giorni prima della presentazione delle condizioni, Re Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz as-Saʿūd dell’Arabia Saudita avesse designato erede al trono il figlio 31enne Muḥammad bin Salmān, cui è anche ascritta la decisione del blocco anti-Qatar, ricevendo il consenso della Casa Bianca. Il giovane Principe aveva già accumulato vasti poteri, controllando il monopolio statale del petrolio, dirigendo la guerra nello Yemen, intessendo legami con il neo-eletto Presidente Trump e, di conseguenza, rifiutando il dialogo con l’Iran.
Tuttavia, per quanto severo, l’embargo contro Dōḥa non ha condotto ai risultati sperati, come dimostra la gestione di ogni velleitario provvedimento sanzionatorio nell’era dell’economia globale. Il piccolo Emirato, chiamato in emergenza ad uno sforzo interno di innovazione tecnologica e di efficientamento della rete infrastrutturale trasportistica, ha giocato anche le carte su cui ha costruito la sua credibilità internazionale: il potere finanziario e la diplomazia. Con il primo, ha attivato tutta la potenza delle relazioni economico-monetarie a disposizione sui mercati, comprese le piazze finanziarie occidentali e degli Stati Uniti in particolare, fino al punto da ribaltare il giudizio sprezzante della Casa Bianca in ordine all’appoggio di Dōḥa al terrorismo. Con la diplomazia, recependo il disagio di alcuni membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo per la situazione di rottura creata nella regione, ha accolto la disponibilità al dialogo di Oman e Kuwait, soprattutto del secondo con il suo Emiro Shaykh Sabāh al-ʾAḥmad aṣ-Ṣabāḥ, che ha proposto la sua azione mediatrice. Ma anche fuori dall’area, Turchia e Iran dimostreranno solidarietà e supporto, intensificando le relazioni con l’aggredito, mentre da allora la Cina si proporrà come acquirente sul lungo periodo di gas naturale liquefatto.
Il risultato è stato dunque esattamente il contrario di quanto i sanzionatori si attendessero e comunque un processo di riconciliazione e di composizione delle divergenze iniziato nel 2021 tra Riyāḍ e Dōḥa è stato seguito dal ripristino delle relazioni diplomatiche di tutti i contendenti che dal 2017 avevano accompagnato l’atteggiamento dei Sauditi.
Al Jazeera, la bestia nera di Riyāḍ
Soprattutto l’Arabia Saudita è ben cosciente che uno degli strumenti più efficaci del soft power del Qatar è l’attenzione alla comunicazione. Il ruolo svolto durante le Rivolte Arabe e nelle crisi palestinesi, documentando le proteste popolari contro gli establishment oppressivi, lo ha dimostrato ampiamente. Ma l’intento va molto al di là della missione politica e, spesso, propagandistica cui sono abituati molti network sia dei Paesi autoritari che di quelli democratici. Quando nel 2006, dopo dieci anni di programmi in lingua araba, Al Jazeera vara la sua edizione in lingua inglese, è chiara la sua missione: proiettare gli utenti arabi cui si rivolge nel panorama della comunicazione internazionale con standard di qualità corrispondenti e, viceversa, destare l’attenzione del resto del mondo sulle capacità tecnologiche e di apertura sociale che anche il mondo arabo ha la volontà di esprimere. Una breccia anticonformista di promozione della partecipazione in un mondo, quello della globalizzazione, dove il pensiero unico è dominante e dove il dissenso è mal tollerato.[18]
Frutto dell’intuizione dell’Emiro Ḥamad bin Khalīfa ath-Thānī, Al Jazeera Media Network nasce come ente statutario di proprietà dello Stato, autorizzata dalla legge per scopi di pubblico interesse. Nonostante la sua natura pubblica e i finanziamenti governativi, il gruppo multimediale rivendica la propria indipendenza editoriale e soprattutto nega di essere espressione della politica dell’Emirato e tantomeno, visto il carattere islamico dello Stato, di particolari dottrine religiose. In effetti, la sua emittente in Inglese presenta posizioni diversificate sui vari argomenti ad una audience di quasi mezzo miliardo di utenti in 150 Paesi del mondo, mettendo in crisi lo stereotipo occidentale per cui un regime autoritario come viene considerato il Qatar non possa consentire in trasparenza anche la diffusione di notizie che non riflettono rigorosamente la linea delle autorità governative.
Eppure, l’Emirato wahhābita ha dato vita ad uno strumento di comunicazione plurale che non propugna modelli politici o culturali da esportare dal Qatar, ma ha sfidato i prototipi di società arabe e medio-orientali ancora in trasformazione, senza avere il timore che questo scardinasse l’ordine politico-istituzionale della nazione stessa. Il riferimento è ovviamente ancora una volta alla copertura mediatica delle Rivolte Arabe e dei loro lasciti islamisti. Di fatti, una delle richieste avanzate da Riyāḍ durante la prima crisi con il Qatar all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo riguardava la chiusura proprio di Al Jazeera, oltre che del Brookings Dōḥa Center, uno dei più attivi centri di ricerca operati dal think thank di Washington.
L’avversione all’emittente soprattutto da parte di Arabia Saudita e EAU si era radicalizzata in risposta all’attività di un personaggio eclettico e controverso come Yūsuf al-Qaraḍāwī, un ʿālim di origine egiziana stabilitosi a Dōḥa nel 1961 durante le persecuzioni di Nasser contro la Fratellanza Musulmana, cui era collegato. Ispirato dal fondatore del movimento Ḥasan al-Bannā, Qaraḍāwī ebbe la sua formazione in Studi Coranici all’Università Al-Azhar del Cairo, cui dovette il suo trasferimento all’Istituto Secondario di Studi Religiosi del Qatar per poi fondare e dirigere la Facultà di Sharī’a a Studi Islamici all’Università del Qatar.
La svolta con l’inizio del suo programma settimanale “Sharī’a e Vita” su Al Jazeera Arabic, in cui Qaraḍāwī dimostrò l’efficacia di tenere assieme la competenza sui fondamenti dell’Islam con l’esigenza di comunicazione che la tecnologia moderna offre. Così esprimeva questa consapevolezza: “Il Jihād espressivo e comunicativo ai nostri giorni assume molte forme. Tra queste: dichiarazioni attraverso discorsi, lezioni e conferenze, che si rivolgano alle persone in lingua per spiegare e rivolgersi a loro secondo il loro livello di comprensione. Tra queste: dichiarazioni scritte, in diverse lingue, per trasmettere loro il messaggio dell’Islam attraverso libri, lettere, opuscoli, ricerche e articoli, che si rivolgano alle persone a vari livelli, ciascuna in modo appropriato”.[19]
Le sue trasmissioni, seguite mediamente da 40-60 milioni di utenti nel mondo, indispettirono talmente i governanti sauditi ed emiratini da intimare al Qatar la sua espulsione dal Paese. Non gli si perdonava la sua presunta affiliazione ai Fratelli Musulmani (peraltro smentita all’epoca dallo stesso Qaraḍāwī) e la sua difesa delle Rivolte Arabe; ma anche il suo determinante ruolo nella fondazione dell’Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani, basata in Qatar, ritenuta espressione della Fratellanza e di cui assunse anche la Presidenza. La UISM era nata con l’intenzione di accogliere Musulmani sunniti, sciiti e ibaditi e dunque non gradita a tutti gli integralisti del settarismo musulmano.
I fondamenti della geo-politica emirale
Qatar immagine e allegoria di molte doti non comuni nel mondo attuale. Prima di tutto, la difesa della propria sovranità e indipendenza con un atteggiamento non preclusivo verso collaborazioni esterne e di apertura verso le istanze di partecipazione provenienti dalla Umma e non solo. Eppure, i suoi legami di appartenenza regionale e di solidarietà militare sono tanto onerosi quanto vincolanti. Nell’interpretazione di Dōḥa, non fino al punto da determinarne la dipendenza né psicologica né di fatto rispetto alla propria autodeterminazione politica tanto negli affari interni che esteri.
Qatar terra di confine e ponte tra culture multiformi all’interno dello stesso Islam, a somiglianza del ruolo a scala ben più ampia che la Turchia svolge tra Occidente e Oriente. La Turchia della NATO, diversamente da molti suoi membri, non si prostra acriticamente ai dettami di Washington, pur rimanendo una componente importante, anzi fondamentale, dell’alleanza. Entrambe di fede sunnita, Ankara e Dōḥa sanno distinguere le ragioni religiose da quelle geo-politiche e sanno utilizzare le armi della diplomazia per comporre, senza confonderle, le une e le altre. Il riferimento è in particolar modo ai rapporti con l’Iran degli Āyatollāh e al ruolo che Ankara e Dōḥa hanno svolto e svolgono soprattutto in Siria in contrapposizione al Presidente Asad senza che questo possa compromettere la solidarietà verso i movimenti islamisti di liberazione che lottano per l’emancipazione dall’oppressione straniera. In questo senso, l’azione politica del piccolo Emirato è stata fondamentale per intensificare il coordinamento tra i vari attori di diversa estrazione politico-religiosa che operano nei teatri libanese e palestinese per rimettere al centro la questione medio-orientale che era stata espulsa dalle agende delle varie Cancellerie.
Di certo, gli Accordi di Abramo del 2020, figli della stagione del disinteresse verso la questione palestinese e senza l’interlocuzione degli esponenti palestinesi, hanno dimostrato la scarsa lucidità e lungimiranza della classe politica di Washington. Pensare che negoziati di natura sostanzialmente commerciale potessero condurre a una pacificazione sulla base di uno slogan efficace sul piano della comunicazione, ma senza affrontare i nodi politici aperti sin dal 1948, se non addirittura dal 1917 (Dichiarazione Balfour), significa cristallizzare la situazione sul campo. Altro che “due popoli due stati”!
Non aprirò l’argomento della questione palestinese in tutte le sue sfaccettature, perché sarebbe fuorviante rispetto agli intendimenti di questo scritto. Serve però sottolineare che in Medio Oriente esiste una “questione israeliana” mai affrontata seriamente dalla comunità internazionale. E cioè come Tel Aviv intenda convivere con gli Stati viciniori e con i popoli della comunità islamica senza mostrare continuamente i muscoli, infrangendo ogni concetto di diritto internazionale e senza utilizzare la storia come alibi per ogni orribile misfatto. Il ricordo di un olocausto storico che gli Ebrei hanno subito da dittature europee non legittima un genocidio indiscriminato contro i Musulmani come quello di Gaza. Israele è una potenza nucleare senza il controllo dell’AIEA, cui non aderisce, senza la verifica di tribunali internazionali per i crimini di guerra, cui non risponde, che occupa illegalmente e per decenni territori su cui impone il proprio dominio senza rispettare le Convenzioni di Ginevra, in preda ad una deriva legislativa che avalla le colonizzazioni forzate ed armate a danno di popolazioni inermi cui non è riconosciuto il diritto all’autodifesa.
Dōḥa è stata sempre inflessibile su questi temi ed è stata sempre vicina al popolo palestinese sia sulle questioni di Gaza sia sullo status di Gerusalemme. Tuttavia, ha sempre mantenuto un canale aperto con Tel Aviv, privilegiando il dialogo alla netta contrapposizione di principio. Tuttora, i processi di pace verso la ricomposizione di un quadro politico stabile nella regione sono legati alla capacità del Qatar di favorire la comunicazione tra i contendenti. Ma è evidente una radicalizzazione dello Stato Ebraico nell’inosservanza di ogni norma giuridica condivisa e in patente violazione dello Stato di diritto. Non possono altri popoli pagare lo scotto della grave crisi politico-istituzionale che attanaglia un’entità statuale sulla deriva di una vera e propria discriminazione etnico-razziale. La recente eliminazione “ad personam” del Generale Sayyed Razi Mousavi, alta personalità della Forza Quds delle Guardie della Rivoluzione Islamica Iraniana, per un attacco israeliano dalle Alture siriane del Golan occupate ha il sapore di un’ingiustificata strafexpedition simile a quella che quattro anni fa colpì il Generale Qāsim Sulaimānī, Comandante di quella stessa unità ed eroe della lotta all’ISIS. Generalmente, azioni insensate di questo tipo hanno l’intendimento di alzare la tensione sui teatri di guerra dove si riscontrano difficoltà.
Né gli Stati Uniti di ieri né Israele di oggi sono apparentemente coinvolti in una guerra civile che riguarda i Siriani. Ma Tel Aviv ritiene di poter bombardare Damasco, Aleppo, Beirut e perfino Tehrān quando e come vuole, come succede da anni, in virtù del proprio diritto all’autodifesa. Joe Biden, all’indomani dell’assassinio del Generale Sulaimānī da parte del reo confesso Presidente Trump disse: “Il Presidente Trump ha appena lanciato un candelotto di dinamite in una polveriera e deve al popolo americano una spiegazione”. Biden, oggi alla Casa Bianca e capo di quella coalizione occidentale che eccentricamente comprende anche Israele, non ha l’autorità per imporre all’alleato moderazione e comportamenti onorevoli soprattutto nelle guerre non dichiarate. Soprattutto non ne ha il prestigio e il riconoscimento, visti gli insegnamenti che la sua Nazione ha elargito al mondo intero negli ultimi due decenni.
Tutela dell’indipendenza, superamento del settarismo, mediazione diplomatica e difesa delle istanze palestinesi rappresentano dunque il fulcro della geo-politica di Dōḥa. Ma non si può omettere in questo quadro l’attività encomiabile del piccolo Emirato per strumenti di trasferimento di ricchezza a favore dei poveri e degli emarginati e per obiettivi di equità e solidarietà. Alcuni analisti considerano questo dinamismo come frutto di un calcolo geo-politico predeterminato e finalizzato a veicolare il consenso dei beneficiati verso il donatore. Ovviamente, la riconoscenza potrebbe essere una conseguenza dell’aiuto umanitario, ma attribuire finalità di speculazione politica predeterminata ad attività di sostegno sociale per le popolazioni in difficoltà metterebbe in dubbio l’intero assetto dell’associazionismo che opera per lo sviluppo e in favore del superamento delle emergenze.
Sono notazioni veicolate da un dibattito emerso in passato soprattutto nei confronti delle ONG occidentali e secondo una visione laica che considera solidarietà e sviluppo al servizio di economia e geo-politica. Al contrario, la visione etica dell’Islam indica alcuni principi: “La comunità internazionale ha il dovere di adempiere al proprio impegno per sradicare la povertà”, secondo la visione che l’economia è al servizio dei valori; la solidarietà sociale è una delle caratteristiche attraverso le quali una semplice pluralità di individui diventa comunità; la giustizia sociale si esprime non solo soddisfacendo i bisogni materiali essenziali, ma anche quelli etici, civici e culturali.
L’attività in Medio Oriente e Nord-Africa dell’ONG Qatar Charity ne ha reso una delle organizzazioni umanitarie e di sviluppo più grandi al mondo. Innumerevoli gli interventi di emergenza nel campo dell’assistenza medica, alimentare, igienico-sanitaria e finanziaria e gli aiuti allo sviluppo per il miglioramento delle condizioni di salute, istruzione, abitazione e requisiti di interazione sociale. Miliardi i dollari investiti per il soccorso degli sfollati per causa di guerra in tutto il Medio Oriente, nel Sahel e nel Corno d’Africa. Numerose le collaborazioni esistenti con gli organismi internazionali dell’ONU (OCHA, UNHCHR, WFP, UNICEF, WHO), tra cui quello dedicato ai rifugiati palestinesi (UNRWA). Ma, nonostante questa costante operosità in crescendo durante i trenta anni dalla sua fondazione, alcuni Paesi Arabi radicalizzati designano la Qatar Charity come organizzazione terroristica per la sua presunta vicinanza alla Fratellanza Musulmana. Naturalmente questa valutazione non coinvolge la comunità internazionale, che continua ad agire assieme alla Charity con spirito di cooperazione umanitaria.
Visto da una prospettiva esterna come la nostra, è proprio la rottura dei pregiudizi ideologici la cifra dell’originalità del piccolo Emirato, quello che caratterizza i fondamenti della sua geo-politica. Questo consente al Qatar di dialogare con il mondo senza tabù, pur mantenendo una forte integrità politico-religiosa. Un esempio di correttezza anche per il mondo arabo e islamico cui orgogliosamente appartiene.
RIFERIMENTI
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[1] World Population Review, “Natural Gas by Country 2023”, https://worldpopulationreview.com/country-rankings/natural-gas-by-country.
[2] International Monetary Fund, “World Economic Outlook Database”, ottobre 2023, https://www.imf.org/external/datamapper/NGDPDPC@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD?year=2023.
[3] United Nations Development Programme, “Human Development Report 2021-22”, 8 settembre 2022, https://hdr.undp.org/data-center/specific-country-data#/countries/QAT.
[4] International Monetary Fund, “World Economic Outlook Database”, ottobre 2023, https://www.imf.org/external/datamapper/PPPPC@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD.
[5] David B. Roberts, “Qatar Coming to Grips with New Realities of Global Energy Markets”, The Arab Gulf States Institute in Washington (AGSIW), (8/2015), Washington, DC, https://agsiw.org/wp-content/uploads/2015/11/Roberts_Qatar-LNG_2.pdf.
[6] Worldview, “Qatar Asserts Its Independence”, Stratfor, 7 luglio 2017, https://worldview.stratfor.com/article/tiny-qatar-goes-its-own-way.
[7] Hydrocarbons Technology, “Dolphin Gas Project, Ras Laffan,” s.d., https://www.hydrocarbons-technology.com/projects/dolphin-gas/
[8] Al Jazeera, “Qatar to supply gas to Bahrain”, 9 maggio 2005, https://www.aljazeera.com/news/2005/5/9/qatar-to-supply-gas-to-bahrain.
[9] Colin Foreman, “The region’s most ambitious causeway projects”, Middle East Business Intelligence, 8 febbraio 2023, https://www.meed.com/the-regions-most-ambitious-causeway-projects.
[10] Kristian Coates Ulrichsen, “Using Religion for Geopolitical Ends in the Gulf Disputes between Abu Dhabi and Qatar”, Berkley Center for Religion, Peace & World Affairs, Georgetown University, 31 agosto 2020, https://berkleycenter.georgetown.edu/posts/using-religion-for-geopolitical-ends-in-the-gulf-disputes-between-abu-dhabi-and-qatar.
[11] The Emissary, “The Shadow Sultanate: Qatar”, 29 maggio 2020, https://theemissary.co/the-shadow-sultanate-qatar/
[12] Glauco D’Agostino, Sulle Vie dell’Islam. Percorsi storici orientati tra dottrina, movimentismo politico-religioso e architetture sacre (Roma, Italia: Gangemi, 2010), 199-200.
[13] Glauco D’Agostino, “The Islamists of Palestine on the Emir’s Route”, Islamic World Analyzes, 31 marzo 2014, https://www.islamicworld.it/wp/the-islamists-of-palestine-on-the-emirs-route/
[14] Amr Hamzawy, “The Political Impact of the Israel-Hamas Ceasefire”, Carnegie Endowment for International Peace, 6 dicembre 2023, https://carnegieendowment.org/2023/12/06/political-impact-of-israel-hamas-ceasefire-pub-91177.
[15] Refk Selmi and Jamal Bouoiyour, “Arab geopolitics in turmoil: Implications of Qatar-Gulf crisis for business”. International Economics, 161 (2020): 100-119. ff10. Doi: 1016/j.inteco.2019.11.007.
[16] Republic Bank, “Geopolitics”, Economic Intelligence Unit Monitor, Volume 2(2) (maggio 2023), https://republictt.com/pdfs/eiu-monitor/EIU-Monitor-May-2023.pdf.
[17] Richard Falk, “Geopolitical Crimes: A Preliminary Jurisprudential Proposal”, State Crime Journal 8, no. 1 (2019): 5-18, Doi: 10.13169/statecrime.8.issue-1.
[18] Salam Kawakibi, “Qatar’s Role in the Geopolitical Scenarios of the Middle East and North Africa”, IEMed Mediterranean Yearbook 2022, https://www.iemed.org/publication/qatars-role-in-the-geopolitical-scenarios-of-the-middle-east-and-north-africa/
[19] Yūsuf al-Qaraḍāwī, “Jihad of the tongue and statement… Jihad of advocacy and media”, Dr. Yusuf Al-Qaradawi’s website, https://www.al-qaradawi.net/node/2260.