FRATERNITÀ UMANA: DIALOGO NELLA DIVERSITÀ VS. COSMOPOLITISMO
di Glauco D’Agostino
Sommario:
In tempi di pandemia, gli ideali di fraternità umana sembrano vacillare sotto i colpi di vecchie e nuove intolleranze sociali. Papa Francesco e il Grande Imām aṭ-Ṭayyib nel Documento Fratellanza Umana ammoniscono sul pericolo dell’estremismo e del fondamentalismo cieco, ma non citano solo l’integralismo religioso, ma anche il “vortice dell’estremismo ateo e agnostico”, biasimandolo e giudicandolo un pericolo. Oggi lo Stato-Nazione secolare concepito nel XVII secolo non regge più l’urto con la società altamente tecnologica del presente e perde la legittimità di preservare il monopolio nel determinare e amministrare il sistema legislativo e giuridico. Il vecchio secolarismo ha bisogno di riformarsi. Deve aprirsi al dialogo. La stessa idea integralista di Occidente e Oriente come civiltà contrapposte viene meno a vantaggio di un’altra ideologia altrettanto pericolosa, il cosmopolitismo (diverso dal multiculturalismo nazionale), che tenta di cancellare le identità sottolineando la natura individualista dei rapporti tra uomini-fratelli. La fraternità umana non consiste nell’abolizione delle differenze, che sono un valore contrapposto all’uniformità dei comportamenti e all’appiattimento delle coscienze. Non si costruisce con un egualitarismo di maniera, che è ideologia e opzione politica. La fraternità umana consiste nell’obbligo di convivenza, di dialogo tra diversi, tutti consapevoli dell’arricchimento che ogni civiltà può apportare all’altra.
La società di massa ha introdotto due concetti pericolosi per la collettività e considerati o valori oppure pratiche auspicabili: la neutralità e la semplificazione delle argomentazioni espressa attraverso slogan. È la vittoria della contingenza sulla permanenza, del transeunte sulla stabilità, del pragmatismo sulla difesa dei principi. Lo scontro non è tanto tra valori fondanti, ma su come questi valori sono trasfusi nell’organizzazione del vivere civile. Da qui il tema dei diritti. Ci si deve intendere sul concetto di diritti, che non sono solo individuali. Con tutte le interpretazioni che possiamo dare al loro significato, non vi è piena coincidenza tra fraternità umana e diritti umani. Dipende dal contenuto di queste espressioni. Contemperare due esigenze: riconoscere equità e giustizia come principi, ma senza discriminazioni verso la riconosciuta alterità.
Parole-chiave:
Fraternità umana, valori, diritti, equità, giustizia, Stato-Nazione, integralismo, estremismo, fondamentalismo, secolarismo, cosmopolitismo, multiculturalismo, egualitarismo.
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Il declino dello Stato-Nazione
Il primo argomento che bisogna chiarire è il rapporto tra etica e legalità, due concetti che individuano scopi e necessità non sempre sovrapponibili, anzi. Un’azione che è eticamente riprovevole non sempre è contro la legge vigente in uno Stato. Questo pone il problema tra coscienza (individuale o collettiva) e autorità statale. La coscienza individuale (da cui scaturisce il senso morale) risponde al soggetto singolo, quella collettiva (da cui scaturisce l’etica) alla comunità. A loro volta, morale ed etica possono avere origine religiosa o non-religiosa. Nel primo caso la coscienza deve rispondere per scelta all’autorità che riconosce come competente e legittima in materia; nel secondo, sempre per riconoscimento di competenza e legittimità, necessariamente allo Stato di appartenenza.
In breve, un problema di giurisdizione, in cui l’elemento discriminante è la comunità in cui ci si riconosce. La giurisdizione non deve essere necessariamente esclusiva, pena il conflitto tra autorità competenti che rivendicano ciascuna il monopolio del potere di normazione e sanzione. È il conflitto ormai storico tra Stato e autorità religiosa che si è pensato di risolvere con la separazione dei poteri. Come funziona questa separazione? Ciascuno dei soggetti detentore del potere di conformare comportamenti e norme deve farlo nell’ambito della propria potestà giudiziale. In pratica i due poteri non hanno motivo di dialogare. Anzi, nel caso di potenziale conflitto, l’autorità secolare prevale su quella religiosa, secondo un principio che si assume essere convalida di modernità.[1] Chiunque disapprovasse è contro il principio di progresso e la disposizione dell’autorità statuale, dunque si pone in antitesi alla legalità e va sanzionato.
Questo racconto storico degli ultimi due secoli riflette la strutturazione degli Stati nazionali cui ciascuno di noi deve necessariamente rispondere. Questa si chiamerebbe modernità, in cui al potere assoluto per diritto divino del sovrano o dell’autorità religiosa si è sostituito un altro sovrano assoluto ma per diritto profano, che non ammette parificazioni di poteri e tantomeno interlocutori nel plasmare il modello di società che intende realizzare. Perché questa è, in definitiva, la finalità della legge.
Ora, non è in discussione che la pretesa di regolare una società complessa come quella attuale possa non corrispondere al consenso verso un unico soggetto attore e promotore dell’ordine sociale. Ed è proprio questo il punto. Così come la monarchia assoluta non ha retto l’impatto con una società in trasformazione, in cui i protagonisti si sono moltiplicati (in politica, in economia, nella cultura e così via), così lo Stato-Nazione secolare concepito nel XVII secolo non regge più l’urto con la società altamente tecnologica del presente e perde la legittimità di preservare il monopolio nel determinare e amministrare il sistema legislativo e giuridico. Vittima del decadimento delle sue proprie istituzioni, deve prendere atto che quella “solitudine al comando” di cui si era fregiato non funziona più. Il vecchio secolarismo ha bisogno di riformarsi. Deve aprirsi al dialogo.
Ecco il concetto principe, la parola magica, il dialogo. In questo, a mio avviso, consiste il concetto di fraternità umana: la dismissione da parte di chiunque della pretesa di rappresentare la totalità delle necessità umane, da cui da secoli e progressivamente è stata esclusa la spiritualità come espressione della natura umana a vantaggio di una concezione materialista e atea dei rapporti interpersonali e sociali.[2] Nel merito, credo che, al contrario, modernità sia quanto va incontro all’essenza del creato e questo non dipende dall’opinione del singolo, che è contingente e soggettiva. Dipende dalla comprensione non della realtà ultima (che per sua natura è inconoscibile se non per fede), ma delle dinamiche profonde dell’umanità, per cui ci vuole studio, impegno, dedizione, responsabilità.[3] Nella mia personale concezione, si chiama politica, che non è raggiungimento del potere come oggigiorno si insegna nelle scuole della società laica, né astratti ideali che trovano agevolmente il consenso delle grandi masse, ma modalità perché gli astratti ideali diventino realtà. Il che implica sforzo interiore e difesa di principi. Viceversa, vediamo adesione esteriore e acquiescenza allo stato di fatto, legittimato o meno da accidentali maggioranze. Specialmente nell’era informatica della facile manipolazione degli accadimenti.
Neutralità e semplificazione
La società di massa ha introdotto, tra gli altri, due concetti pericolosi per la collettività e considerati o valori oppure pratiche auspicabili. Da una parte, la neutralità;[4] dall’altra la semplificazione delle argomentazioni espressa attraverso slogan. La via più facile per acquisire il consenso è non prendere posizione, cioè le ragioni avanzate per una possibile contrapposizione sono tutte valide, sono manifestazioni di interessi contrapposti e quindi per evitare conflitti, meglio astenersi. Il fine è salvaguardare la pace. Non vi è alcuna discriminazione tra giusto e ingiusto. Il discrimine è solo che ci sia conformità alla legge determinata dal potere costituito e insediato secondo regole accettate dalla maggioranza. È la capitolazione dell’etica, che, per sua natura discrimina tra giusto e ingiusto indipendentemente dalla legge in vigore. Il giudizio etico è permanente (non eterno, ovviamente, perché conformato alla società cui si rivolge), la legge in vigore può essere facilmente sovvertita. È la vittoria della contingenza sulla permanenza, del transeunte sulla stabilità, del pragmatismo sulla difesa dei principi. Non che queste modalità siano sempre inaccettabili, perché altrimenti si cadrebbe nel massimalismo e nell’intolleranza. Ma che siano elevati a nuovi principi di comportamento significa diserzione rispetto al dovere civico di testimoniare un proprio credo, laico o religioso che sia, a vantaggio del compromesso elevato a sistema.
Al di là delle posizioni che ognuno possa acquisire, dialogo non significa compromesso, non autorizza al sincretismo, sia ben chiaro, ma esprime rispetto per il pensiero altrui.[5]
L’altro pericolo individuato è la semplificazione, lo slogan. L’assunto è che tutti devono capire, allora il concetto va generalizzato il più possibile e il linguaggio deve essere il più semplice possibile.[6] Anche questi sono diventati valori della comunicazione, ignari (o colpevolmente coscienti) che proprio questo atteggiamento istiga alla contrapposizione tra diversità, perché alimentato da quelli che in altri tempi si sarebbero chiamati pregiudizi.
Esempi di slogan correnti e spesso subliminali:
- l’Occidente (ormai ristretto solo ad alleanza militare) è moderno e l’Oriente deve emanciparsi;
- le religioni devono uniformarsi ai principi secolari (quindi, ricusare il proprio ruolo);
- esistono diritti universali che sono solo quelli individuali;
- l’Ebraismo (che è intrinsecamente orientale) va difeso come parte dell’Occidente e perché gli Ebrei sono stati vittime dell’Olocausto (che tutti conoscono) e non anche per i suoi principi religiosi plurimillenari (meno conosciuti);
- il Cristianesimo rappresenta solo il passato e l’Islam è intrinsecamente violento;
- vorresti come vicino di casa una persona di altro colore di pelle, di altra religione, di altra etnia o è meglio che sia congruente con le tue caratteristiche? E così via.
Da questo abbeveratoio si nutre la società moderna, ormai in caduta libera rispetto alle sfide post-moderne del XXI secolo. Anche se la società cosiddetta avanzata, quella delle accademie, dei circoli esclusivi, dei potentati economici di breve respiro, quella che dovrebbe guidare la transizione verso un “mondo nuovo” è incapace di accorgersene. E il perché potrebbe risiedere nell’evidenza di non aver preparato la successione a se stessa, inorgoglita dall’aver consumato il tempo nell’avidità del presente senza pensare alla ciclicità dei processi storici che non prevede l’immutabilità dello status quo. Ricordate la fine della Storia di Fukuyama?
Dunque il dialogo si attua sulla base della difesa di valori ed ha lo scopo di comprendersi l’un l’altro, evitando di sottolineare le differenze che non possono essere colmate[7] e non è corretto colmare cercando di raggiungere una posizione comune. È quanto hanno fatto Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imām di Al-Azhar Aḥmad aṭ-Ṭayyib sottoscrivendo insieme il Documento Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune durante l’incontro di Abu Dhabi del 2019 (La Santa Sede, 2019). Il Documento trova un terreno comune per molte questioni che diventano una guida etica non soltanto per le rispettive comunità religiose e le realtà scismatiche interne a quelle stesse comunità, ma per tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti. Ecco il problema della giurisdizione. Seppure non costituiscano norme, le espressioni contenute nel documento sono indicazioni per l’umanità, ma anche regole di comportamento per le comunità religiose di cui quelle personalità hanno la leadership.
Principi etici, legalità e partecipazione
Riecheggia ancora una volta la questione del rapporto tra etica e legalità, e la sollecitazione a tradurre i principi “in politiche, decisioni, testi legislativi” (La Santa Sede, 2019) sottolinea la rivendicazione di un potere attivo nella sfera politica che una tendenza laicista imperante vorrebbe annullare e spesso effettivamente nega. Si tratta di garantire la rappresentanza delle istanze non solo ai cittadini, come è ovvio ma non sempre scontato (Taylor, 1994). Le istanze politiche del mondo religioso vanno riconosciute nella pienezza delle loro identità e non come surrogato secolare di un’identità da nascondere in nome di una uniformità presupposta di valori fondanti. Anche perché accade che l’identità religiosa possa coincidere o sovrapporsi a quella nazionale (Nikolova, 2018). Avviene, per esempio, nei Paesi di tradizione cristiano-ortodossa, dove la combinazione di appartenenza nazionale e religiosa affonda le radici nel sistema federativo delle giurisdizioni ecclesiastiche e dove la morale è espressione della coscienza religiosa del popolo. È il tema della partecipazione religiosa alla vita sociale e politica e questo schema è utile per creare accoglienza e solidarietà senza esclusioni, per costruire finalmente il cammino verso la fraternità tra pari.
Questa tematica interessa il cosiddetto mondo occidentale (Houtman e Aupers, 2007) come anche i Paesi musulmani secolarizzati, in gran parte eredi di poteri coloniali che avevano sottomesso quelle società. Questi Paesi, finalmente indipendenti, hanno preso a modello le istituzioni e i principi fondativi dei loro colonizzatori, ispirandosi a principi costituzionali a volte positivi e a volte fuorvianti rispetto al modo i cui i loro “nuovi” cittadini vivono la socialità (Khan, Elius e altri, 2020). Ad esempio, se si introduce la democrazia, non si può negare a partiti di ispirazione religiosa di esercitare il potere esecutivo o addirittura, in molti casi, di partecipare alle consultazioni elettorali. Gli esempi storici sono innumerevoli e vogliamo qui ricordare i casi del Front Islamique du Salut in Algeria, del Mouvement de la Tendance Islamique in Tunisia, di Ḥamās in Palestina, dei Fratelli Musulmani in Egitto e così via.
Il risultato è che le parti coinvolte devono stabilire nuovamente i loro fondamenti e le frange estremiste che non accettano ineguali trattamenti rispetto agli altri soggetti politici inevitabilmente imboccano la strada deprecabile del terrorismo. Giusta la condanna inappellabile del terrorismo sul piano etico e sfido qualsiasi persona di buon senso a prendere posizioni diverse. Deplorevole da parte delle istituzioni nazionali e internazionali non prendere atto del fallimento di un modello secolare integralista impiantato artificialmente nel cuore di Paesi che dalla conquistata indipendenza si attendevano ben altri benefici che non l’esclusione selettiva di gran parte delle rispettive società. Non credo che la favola dell’Islam violento possa attecchire nella coscienza di oltre un miliardo e mezzo di Musulmani, molti dei quali vivono nei Paesi “occidentali” e ne costituiscono una delle componenti.
La criminalizzazione di oltre un quarto dell’umanità non conduce verso la fraternità umana.[8] Credo, per contro, che la continua tensione e instabilità sia funzionale al ruolo putativo in nome di tutta l’umanità e in tema di giudizi etici che alcuni Paesi si sono arrogati il diritto di rappresentare nei confronti di altri Paesi “non conformati”. La generale accettazione di questo ruolo putativo non ha condotto verso un’auspicata pace universale e spirito di fraternità, perché non è basato sulla consapevolezza delle comunità che questo ruolo subiscono, ma sulla forza che soggetti esterni esercitano per loro conto e senza alcun assenso. Anzi, proprio l’acquisizione di quel ruolo, illegittimo sul piano etico e non sempre corretto neanche sul piano del diritto internazionale, ha consentito l’invasione bellica di Paesi inermi (la Somalia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, lo Yemen, guarda caso tutti a maggioranza musulmana) e la loro destabilizzazione pressoché permanente. Però questa la chiamano fratellanza.
Non credo sia una questione soltanto lessicale quanto semantica, qualcosa che la storia sacra aveva già rappresentato a proposito di Babele. Personalmente resto un po’ confuso quando la “Pace di Galilea” serve ad invadere il Libano! Semplificazione e slogan, ma estremamente efficace. Ne abbiamo già parlato. L’assassinio del Generale Sulaimānī, che combatteva il terrorismo, è stato operato in nome della guerra globale al terrore, un paradosso. Non rientra neanche nella fattispecie dei “danni collaterali” con cui si giustificano i crimini di guerra. Anzi, si giustificavano, perché oggi dobbiamo interpellare gli esegeti dei trattati internazionali per ammetterne uno. C’è chi ha difeso le infami torture di Guantánamo considerandole un rischio che si può correre, tentando un bilancio tra rischi e benefici.[9] È un’interpretazione dei diritti umani, ma aberrante dal punto di vista etico. Tanto più che, anche dal punto di vista giuridico, nessuno può pagare per il crimine (ma è un crimine?), vista la non chiarita posizione della giurisdizione sotto cui ricade Guantánamo, nonostante “in caso di gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e di crimini di tortura, i trattati internazionali rendono l’azione penale non solo un diritto, ma un dovere” (Schabas, 2020).
La guerra globale al terrore ha anche comportato una sorta di militarizzazione del mondo che sembra temere la disoccupazione dei suoi dipendenti. La sua sofisticata macchina tecnologica degli attacchi a distanza non può adesso essere fermata facilmente, allo stesso modo come gli altiforni di un’acciaieria non possono spegnersi dall’oggi al domani. Come rileva il magazine americano Newsweek (Arkin, 2021),
Al centro della guerra in questi Paesi – al centro della macchina da guerra perpetua – ci sono i retrostanti poli del Medio Oriente, i comandi e le basi nei Paesi al di fuori delle zone di combattimento e presumibilmente più sicuri – come Giordania, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Arabia Saudita e Djibuti.
Il rischio del cosmopolitismo
Papa Francesco e il Grande Imām aṭ-Ṭayyib hanno biasimato l’estremismo ateo e lo hanno giudicato un pericolo. Nei commenti dei dotti al Documento non mi sembra di aver letto molto sull’argomento. È come se molti sostenitori della fraternità umana ritengano che questo attacco all’ateismo sia stata un’imprudenza da parte dei due autorevoli esponenti religiosi. Sono proprio gli insegnamenti religiosi che, sul piano etico-morale, distinguono il peccato dal peccatore. Chi a questi insegnamenti non si riferisce ha evidentemente difficoltà a comprenderne il significato.
La condanna di una deviazione etica o morale è doverosa da parte dell’autorità religiosa, pena la sua delegittimazione. Ma il peccatore non viene espulso dalla società, perché il peccato non comporta infrazione della legge profana. È l’autorità civile che determina una punizione, giusta o ingiusta che si voglia considerarla, per motivi di conservazione dell’ordine sociale, fino alla sanzione irreversibile della pena di morte. Il concetto di fraternità umana implica forse l’abolizione delle pene per chi viola la legge profana o religiosa? E, sul piano etico, il concetto di fraternità umana comporta l’espulsione dalla comunità di tutte quelle società che applicano la pena di morte? Sottolineo che vi sono compresi, tra molti altri, due Paesi che si dichiarano campioni delle rispettive civilizzazioni, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, i quali, non solo sono da esempio per i loro “mondi di riferimento”, ma sono stretti alleati e collaborano praticamente su tutti i campi delle attività umane. Forse è la stessa idea integralista di Occidente e Oriente come civiltà contrapposte che viene meno a vantaggio di un’altra ideologia altrettanto pericolosa e certamente non nuova, il cosmopolitismo (diverso dal multiculturalismo nazionale), che tenta di cancellare le identità sottolineando la natura individualista dei rapporti tra uomini-fratelli (Fuller, 2003). In questo senso, risultano antiquate anche le dispute tra tendenze nazionaliste e quelle etnocentriche che impregnano i dibattiti oggi predominanti (Brubaker, 1990).
Vorrei ribadire che, a mio avviso, la fraternità umana non consiste nell’abolizione delle differenze, che sono un valore contrapposto all’uniformità dei comportamenti e all’appiattimento delle coscienze (“coscienza umana anestetizzata” la chiama il documento del Papa e del Grande Imām), ma consiste nel dovere di convivenza, di dialogo tra diversi, tutti consapevoli dell’arricchimento che ogni civiltà può apportare all’altra (Pallavicini e Guiderdoni, 2021). Anche questo confronto ideale tra posizioni diverse e perfino contrapposte e spesso irriducibili rappresenta un valore. Tutto il contrario della pretesa di uniformare principi ispiratori delle società, con conseguenti ricadute sull’ordinamento sociale, sulle fonti del diritto, sulle relazioni tra singoli e comunità, su che cosa rappresenti un diritto e cosa non lo sia. Cito qui una frase del filosofo cinese Lo Chung-Shu a proposito dei “Diritti Umani nella Tradizione Cinese” (UNESCO, 2018):
Il concetto etico di base delle relazioni sociali e politiche cinesi è l’adempimento del dovere verso il prossimo, piuttosto che la rivendicazione di diritti. L’idea degli obblighi reciproci è considerata l’insegnamento fondamentale del Confucianesimo.
Forse dovremmo chiedere ai Cinesi di abbandonare il Confucianesimo dopo millenni di sua pratica? E, seconda domanda, come mai si è elaborata la preziosissima disposizione etico-normativa dei Diritti Universali dell’Uomo (che sono diritti individuali) e non esiste una Carta dei Doveri dell’Uomo e delle Istituzioni (che accosterebbe obblighi individuali e collettivi sotto la stessa fattispecie e comporterebbe sanzioni penali per i trasgressori)? Al momento, gli Stati non sono responsabili dei crimini di guerra. Chi paga per non aver ottemperato al dovere di proteggere la popolazione civile durante un attacco armato in territori occupati? I trattati internazionali lo prevedono quando un conflitto è dichiarato, ma non in caso di guerre “asimmetriche”, dove ognuno ha il diritto di intervenire a suo piacimento, in barba a qualsiasi dovere umano o istituzionale. Tra l’altro, quando il corpo di una vittima di tale trattamento si fa sparire, mancano anche i presupposti per l’applicazione del giudizio verso il reo in sede processuale! Anche quando il reo è confesso! E a questo poco serve la pretesa azione in favore della pace della Corte Penale Internazionale,[10] che persegue i crimini commessi all’interno degli Stati membri, e da cui si sono ritirati, ad esempio, Israele, Sudan, gli Stati Uniti e la Russia. Chissà come mai!
Forse siamo già su questa via, visto che, senza bisogno di alcuna codificazione universale, alcuni attori internazionali hanno deciso di applicare un proprio codice prescrittivo e di valutare chi sbaglia e chi no, di giudicare quali siano gli “Stati canaglia”, di applicare unilateralmente una propria idea di giustizia e di irrogare le pene che ritengono adeguate. Qualcosa che riporta alla “legge del taglione” di biblica memoria, ma senza alcuna base giuridica, senza alcuna legittimità per poterla eseguire e senza l’opportunità di un accordo con la parte avversa, come anche il diritto romano, quello germanico e altre giurisprudenze successive hanno riconosciuto. Non vedo dibattiti su questo, vedo assuefazione al comportamento del potente di turno, vedo un allontanamento dalla prospettiva della fraternità umana, soprattutto non vedo una condanna etica (non giudiziaria, che è un’altra materia) di una azzardata condotta sistematica e non occasionale. Come dire, per avvicinarsi al gergo religioso, non vedo la condanna del peccato perché il peccatore ha assunto le vesti del moralizzatore.
L’estremismo ateo e agnostico
Papa Francesco e il Grande Imām aṭ-Ṭayyib ammoniscono sul pericolo dell’estremismo[11] e del fondamentalismo cieco, ma non citano solo l’integralismo religioso (che riguarda una piccola parte delle comunità che rappresentano), ma anche il “vortice dell’estremismo ateo e agnostico”. Questo non significa escludere gli atei dal dialogo per la fraternità umana. La stessa istituzione califfale, erede della Carta di Medina, assicurava libertà di coscienza rispetto alla fede religiosa musulmana fino al punto di non costringere nessun “infedele” a partecipare alle guerre di religione dei Musulmani, così realizzando una concezione diversa da “la legge è uguale per tutti” che sostanzia il diritto egualitario e impositivo degli Stati moderni; e già l’Imperatore Mughal Jalāl ud-Dīn Moḥammad Akbar-e-Azam, seppure all’interno della dottrina sincretica Dīn-i-Ilāhi, aveva incluso gli atei nel gruppo multireligioso di discussione che comprendeva Musulmani, Hindu, Jainisti, Sikh, Cristiani ed Ebrei parsi al fine di dibattere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni (D’Agostino, 2010, p. 155). Ma il pericolo dell’ateismo, specie se aggressivo, è un’altra cosa.
Papa Benedetto XVI non ha avuto remore nell’attaccare “l’estremismo ateista” e “il laicismo aggressivo” e deplorare il danno che nell’ultimo secolo ha apportato “l’esclusione di Dio, della religione e della virtù dalla vita pubblica” (Jones, Hooper and Kington, 2010). Secondo l’analista australiano CJ Werleman (2015),
“il fondamentalismo e l’estremismo violento non appartengono solo alla religione” e “i Nuovi Ateisti promuovono la supremazia bianca, il bigottismo anti-musulmano, il fondamentalismo laico”.
Questa deriva fondamentalista è figlia diretta dell’Illuminismo francese, dal materialismo edonistico propugnato dall’illuminista bretone Julien Offray de La Mettrie all’ateismo di Denis Diderot. Come rileva Charles T. Wolfe, del Dipartimento di Filosofia e Scienze Morali presso l’Università di Ghent, Auguste Comte, che pure è stato l’iniziatore del positivismo, considerava la dottrina secondo cui “tutto ciò che esiste è materiale, compresi gli esseri umani” come il tentativo di “spiegare il livello superiore in termini di livello inferiore” (Wolfe, 2016).
Un filone di pensiero oggi molto bene accreditato ritiene ogni religione intrinsecamente violenta e l’ateismo volto alla pace, quindi basterebbe eliminare le religioni (Shumacher, 2012). Non stiamo parlando di frange oltranziste che non fanno testo, ma di autori che fanno scuola sul palcoscenico della società globalizzata, come gli americani Samuel Benjamin Harris e Daniel Clement Dennett III, neurobiologo il primo e filosofo il secondo, e i britannici Richard Dawkins e Christopher Eric Hitchens, rispettivamente etologo e saggista (Megoran and Foster, 2018). Si fanno chiamare “I Quattro Cavalieri del Nuovo Ateismo (o della Non Apocalisse)”. In particolare, Harris si distingue per la sua foga anti-islamica.[12]
Le argomentazioni secondo cui l’ateismo conduce a una convivenza pacifica sono smentite dalla storia, perché, da quando l’ateismo ha assunto le connotazioni moderne fornitegli dall’Illuminismo, i regimi che hanno sostenuto una società senza fede hanno perpetrato i maggiori stermini, dai massacri giacobini del “Terrore” durante la Rivoluzione Francese, alle persecuzioni anti-religiose dell’Unione Sovietica fino agli orrori dell’Olocausto nell’ultimo conflitto mondiale. Un colpo di spugna su tutto questo, apologeticamente esaltando le virtù dell’ateismo e proponendo come cura l’abolizione delle religioni. Per me questo si chiama infantilismo. Magari l’Umanità fosse così semplice da gestire.
Con questo non si vuole, a contrario, giustificare gli errori storici delle religioni o condannare la forma secolare degli Stati. Solo che il problema non va affrontato sul piano ideologico, tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altro. Questa è una visione che la cosiddetta modernità ha introdotto quando ha individuato alcune caratteristiche comportamentali o persone o addirittura settori della società come “il male assoluto”. E la cronaca continua a presentarci esempi di integralismo di questo genere basati sulla generalizzazione. Sarebbe come se per l’annientamento di Hiroshima e Nagasaki considerassimo Harry Truman “il male assoluto”, l’intero popolo americano responsabile del tentato genocidio e anche, per assurdo, l’intero Partito Democratico americano complice di quel crimine. È ovvio che questo contrasta, sul piano etico, con la concezione della distinzione tra peccato e peccatore. L’azione deplorevole resta un crimine contro l’umanità. La pena corrispondente sul piano giuridico-legale sono i tribunali secolari a doverla irrogare. E poi, nel caso specifico, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo non era ancora stata approvata in sede ONU!
Dialogo nella diversità e diritti delle minoranze
Dal punto di vista islamico, il tema della non automatica sovrapponibilità tra regole religiose e norme giuridiche è risolto alla radice, quando si attribuisce alla fatwā il carattere di responso giuridico come opinione personale autorevole da parte di un faqīh, un giurista dotato di legittimità e di larga considerazione sociale. Proprio in forza della sua natura soggettiva, la fatwā obbliga alla sua automatica applicazione solo nel caso in cui il faqīh appartenga alla stessa scuola giuridico-teologica del qāḍī (il giudice) che ha adito il suo ministero. E quando il giudizio contempla l’applicazione di pene severe (per esempio, la pena di morte) questo deve essere avallato da un muftī, cioè da una figura particolarmente qualificata di faqīh (D’Agostino, 2010). Dice Marzouk Aulad Abdellah (2013), professore presso la Vrije Universiteit Amsterdam:
Ci sono due ragioni per cui tali opinioni (fatāwā) non sono obbligatorie. In linea di principio, ogni individuo risponde a Dio per i propri atti: le persone possono scegliere quale delle varie fatāwā vogliono seguire. In pratica, ciò significa che le fatāwā non hanno alcun valore legale. Lo stato può stabilire regole islamiche e norme di diritto e, in tal senso, può accadere che la legislazione statale vieti atti che sono consentiti secondo molti studiosi di giurisprudenza islamica.
Questa è la libertà accordata dal diritto islamico che non è consentita dall’imposizione della legge secolare, la quale è assolutistica e pervasiva di ogni giudizio legale.
In questo senso, l’Islam è anche diverso rispetto al Cristianesimo del Cattolicesimo romano. Proprio il fatto di non avere un’autorità ecclesiale che esprima l’intera Umma, ha consentito fin dall’inizio la nascita delle scuole giuridico-teologiche, i madhāhib, ognuno con la propria applicazione giurisprudenziale cui la singola persona può scegliere di aderire. La differenziazione interpretativa che ogni madhhab attua rispetto all’altro corrisponde alla presa d’atto che le culture sono diverse anche all’interno della Umma e la capacità di adattamento ai costumi delle comunità territoriali ed etniche rappresenta una buona pratica per la libertà di culto (Ekmekci, 2016). Questo non inficia la validità del concetto di Umma, viceversa esalta i concetti di dialogo nella diversità e di fraternità islamica. Per estensione, la stessa metodologia logica e sostanziale può e deve essere applicata alla fraternità umana. Non omologazione, ma dialogo nella diversità. Ogni tentativo di espungere la Sharī’a dalla vita dei Musulmani è un attentato all’Islam, perché la Sharī’a indica alla Umma i principi generali basilari da seguire, diversamente dal fiqh, il diritto giurisprudenziale, che si applica flessibilmente alle situazioni specifiche di pertinenza della norma giuridica.
Quando Papa Francesco e il Grande Imām aṭ-Ṭayyib si riferiscono al concetto di cittadinanza, utilizzano una base comune fondata sul diritto territoriale che esclude privilegi etnici, tribali, nazionali e persino religiosi. L’identificazione tra Stato e Nazione sorta dallo sgretolamento dello stato a base religiosa si è riversato sul significato della cittadinanza, cambiandone l’accezione in senso favorevole alla nazionalità (i legami di sangue) piuttosto che alla territorialità (Çaylak, 2014). Lo stesso termine “cittadinanza” indica un concetto non necessario prima della nascita dello Stato-Nazione. Dal punto di vista islamico, lo Stato di Medina e i successivi Califfati riconoscevano gli stessi diritti e doveri a chi fosse residente nel territorio dello Stato, indipendentemente dal luogo di nascita, dal suo status sociale o dalla sua religione. Limitazioni e protezione comunque applicate alle minoranze non inficiavano il diritto di appartenenza e capacità d’azione di singoli e comunità, ma ne esaltavano il dovere sociale d’intervento a sostegno dell’integrità di una comunità più ampia, la Umma appunto. Moḥammad Hashim Kamali (2009), già Professore di Diritto presso l’International Islamic University Malaysia, si spinge a dire che
le norme del fiqh su residenza e domicilio all’interno del più ampio Dār al-Islām sono molto meno restrittive delle leggi su immigrazione e cittadinanza degli attuali Paesi musulmani.
A proposito di diritti in uno Stato islamico, Adem Çaylak (2014), dell’Università Kocaeli, spiega che
l’obbedienza è obbligatoria se l’esecutivo è legale e legittimo. Diversamente, l’Islam riconosce il diritto alla disobbedienza civile. E l’assistenza si riferisce alla comunità piuttosto che all’individuo. Quindi, questo è congruente con i diritti del gruppo che rifiuta l’introversione, ma favorisce l’instaurazione di relazioni. Tuttavia, la Umma dovrebbe essere intesa come un tetto sopra le culture che rafforza la contiguità.
Dunque, ci si deve intendere sul concetto di diritti, che non sono solo individuali. Se non superiamo questo fraintendimento, è difficile, per quanto auspicabile, trovare un dialogo sulla strada della fraternità umana.
Con tutte le interpretazioni che possiamo dare al loro significato, non vi è piena coincidenza tra fraternità umana e diritti umani e, sempre con i distinguo relativi alle accezioni, né l’una né l’altro si sviluppano di pari passo con il cosmopolitismo. Dipende dal contenuto di queste espressioni. Senza voler affrontare un argomento che dà vita a infiniti dibattiti, la visione che esportare uno specifico modello di moralità a livello globale corrisponda a concretizzare lo spirito della fraternità umana non si collega affatto a questa aspirazione, ma esacerba i conflitti quando l’aspirazione stessa tende a diventare norma. Quando Kant affermava che
il problema più grande per la specie umana, e di cui la natura costringe a cercare la soluzione, è quello di ottenere una società civile che possa amministrare la giustizia universalmente,
introduceva proprio il problema della normativa globale (Brown, 2009). Il suo cosmopolitismo certo si ricongiungeva al pluralismo culturale di Montaigne. Ma il pensiero del filosofo umanista aquitano di origine ebraica, che pur basava l’idea di moralità sulla ragione umana, sottolineava soprattutto l’impossibilità di uniformare la complessità delle prospettive culturali:
La ragione umana è una vernice stesa più o meno ugualmente attraverso tutte le opinioni e tutti i modi di noi umani, che sono infiniti nella materia e infiniti nella diversità (Brown, 2009).
Dunque, pluralismo nella diversità.[13] Esattamente il contrario del modello di uniformità culturale ed etica che propone il cosmopolitismo.
Il Documento Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune non propone e non nomina mai il termine cosmopolitismo, che confliggerebbe con la natura multiculturale soprattutto del pensiero islamico (Cole, 2019). Tuttavia, alcune strumentalizzazioni del testo potrebbero indurre a ritenere che vi siano aperture verso questa prospettiva. Mi riferisco, in particolare, al passo in cui è scritto (La Santa Sede, 2019):
Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia.
Il non riconoscimento dello status di minoranze è volto, come è scritto, alla piena cittadinanza che, da aggiungere, attualmente non è ancora raggiunta nemmeno negli stati di democrazia liberale. Dunque, un obiettivo da conseguire in omaggio al concetto di responsabilità civile e soprattutto di dovere delle istituzioni che legiferano in tal senso. Tanto è vero che in un passo successivo è detto:
La protezione dei diritti degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi è un’esigenza religiosa e sociale.
Ora, una contraddizione potrebbe risiedere in una probabile discriminazione. Le predette ridotte abilità necessitano di protezione, mentre la condizione di minoranza (etnica, culturale, religiosa), che è di per sé un presupposto di difficoltà di interazione con il resto della popolazione, deve essere disconosciuta in omaggio alla parità dei diritti individuali. L’uguaglianza è ideologica in quanto presupposta e quindi non è una condizione reale. Questo comporterebbe l’estinzione di tutte le misure di protezione per le minoranze, a cominciare da quelle linguistiche. Ad esempio, in un processo il membro di una minoranza deve leggere, comprendere e rispondere nella lingua nazionale dello Stato o ha diritto di interagire nella propria lingua madre? Ecco un diritto specifico della sua condizione, necessario specialmente negli stati democratici, dove per definizione le leggi sono espressione della maggioranza dei cittadini. In base al principio di piena uguaglianza, un cittadino di una lingua, etnia, religione diversa dalla maggioranza subirebbe la negazione delle sue prerogative peculiari. In quest’ultimo caso, le istituzioni devono riconoscere l’esistenza e i diritti di ogni gruppo specifico che ritengono rilevante allo scopo. Diritti della comunità, non solo diritti individuali!
Ecco dietro l’angolo il pericolo del cosmopolitismo impropriamente ritenuto umanitario. La fraternità umana non si costruisce con un egualitarismo di maniera, che è ideologia e opzione politica. Anche perché la storia ci ha già rivelato a cosa conduce e avere la memoria corta non giova alla costruzione della pace universale. Viceversa, si possono riconoscere
valori comuni condivisi da tutta l’umanità
assieme a
la consapevolezza delle diverse culture e religioni, o credenze, e la promozione della tolleranza, che implica l’accettazione da parte della società e il rispetto della diversità religiosa e culturale, anche per quanto riguarda l’espressione religiosa,
come ha ricordato il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres [foto in basso] il 4 febbraio scorso per la celebrazione della Giornata Internazionale della Fraternità Umana nel contesto della Settimana Mondiale dell’Armonia Interreligiosa (United Nations, 2021). Dice Mustafa Genc (2021), Direttore Esecutivo dell’Harmony Institute di Nairobi:
Costruire l’amicizia sociale tra gruppi con una storia di diversità non dipende dall’assenza di guerra, ma dal permettere alle persone di esprimersi e di ricambiare la capacità di ascoltare, guardare, conoscere, comprendere e trovare un terreno comune che si adatti l’uno all’altro.
Conclusioni
In tempi di pandemia, gli ideali di fraternità umana sembrano vacillare sotto i colpi di vecchie e nuove intolleranze sociali. Ancora António Guterres (United Nations, 2020) denuncia che
il sentimento anti-straniero è aumentato online e nelle strade. Si sono diffuse teorie del complotto antisemita e si sono verificati attacchi anti-musulmani legati al COVID-19. Migranti e rifugiati sono stati diffamati come fonte del virus e quindi è stato negato loro l’accesso alle cure mediche.
La strada è lastricata di buone intenzioni, ma anche di pregiudizi ideologici che rischiano di minarne il processo. Non credo che il vero scontro sia tra tradizionalisti e modernisti, così come molti analisti interpretano e molti rappresentanti politici e istituzionali hanno interesse a dichiarare. I cambiamenti del costume fanno parte della storia. Spesso i problemi riguardano i tempi del cambiamento e la maturità del pensiero.[14] Alcuni principi immutabili vanno salvaguardati in quanto valori fondanti della dignità creazionale. Altri vanno recepiti come insegnamenti della tradizione e delle espressioni culturali, che non sono bloccati nel tempo, ma derivano dall’esperienza delle comunità e dei saggi che la interpretano. Altri ancora sono quelli formalizzati come criteri per consentire l’organizzazione della convivenza. Queste categorie di principi non vanno confusi tra di loro, né possono essere stravolti da un materialismo che considera validi e “moderni” solo i valori economici.
Credo che sotto attacco sia finita proprio la Tradizione come concetto, prima ancora che il tradizionalismo, che è un’ideologia così come tutti gli “ismi”. La Tradizione è un principio ispiratore della conoscenza e della sapienza umana e neanche lontanamente significa difesa del passato. Questa è prerogativa del tradizionalismo e delle varie scuole di pensiero che vi si ispirano.[15] Se confondiamo i termini, mai potremo comprenderci l’un l’altro, con conseguente innesco di conflitto.
Lo scontro non è tanto tra valori fondanti, ma su come questi valori sono trasfusi nell’organizzazione del vivere civile. Da qui il tema dei diritti. Tralasciando quello dei diritti collettivi, come conciliare lo “statuto personale” islamico con il “diritto di famiglia” di origine “occidentale”?[16] Tema ovviamente molto complesso, che non affronteremo qui. Ma solo ricordare che la materia interessa matrimonio, diritti e doveri dei coniugi, diritti dei figli, dote, regime dei beni, sessualità, ripudio, separazione, divorzio, convivenza, adozione, successioni, eredità (Jaafar-Mohammad and Lehmann, 2011). E ancora, siamo sicuri che democrazia, diritti politici e interesse finanziario abbiano ciascuno lo stesso significato in tutte le società del mondo? Basta accennare al problema di cosa si intenda per usura, ad esempio, e di come il sistema bancario lo definisca e se ne eviti l’applicazione. Esiste un diritto alla blasfemia, all’uso delle droghe e all’uso dell’hijāb? Quando enunciamo il principio “diritto alla vita”, che in un sondaggio acquisirebbe il 100% dei consensi confermativi, vi è unanime atteggiamento nei confronti di pena di morte, aborto, eutanasia, surrogazione di maternità? Tra questi atteggiamenti, quale può considerarsi moderno? E una volta definito questo, è lecito domandarsi se la modernità è un valore o soltanto una necessità? Perché credo ci sia una enorme differenza gerarchica nella stima.
Dunque, rinunciare alla fraternità umana? Tutto il contrario. La fraternità umana è un sentimento ineludibile e uno di quei valori della dignità creazionale, come già detto. Se lo si riduce a slogan senza la profondità dei contenuti e dei problemi appena enunciati, si rischia di farla diventare ideologia, cioè un concetto metafisico che non corrisponde ai suoi scopi. Viceversa, ridurla a mero concetto giuridico secondo le norme dello Stato di diritto significa svilire il suo significato a conflitto tra correnti di pensiero giurisprudenziale e politico. Esattamente come sta avvenendo. Anche Papa Francesco e il Grande Imām aṭ-Ṭayyib dovrebbero esserne coscienti.
Mi piace concludere con due locuzioni di Khaled M. Abou El Fadl, autore già citato nel testo: la prima sottolinea che
il Corano esplica un principio morale e sociologico di austero significato – afferma che la diversità è un principio della creazione.
L’altra recita:
Pur riconoscendo la legittimità di una notevole quantità di differenze, il Corano insiste su standard morali ed etici oggettivi, universali, condensati nelle idee di equità e giustizia.
Ecco la corretta via. Contemperare le due esigenze: ammettere equità e giustizia come principi, ma senza discriminazioni verso la riconosciuta alterità. Perché sono proprio le discriminazioni che impediscono il raggiungimento della fraternità umana!
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***
[1] Dice Giancarlo Rovati, Professore di Sociologia Generale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore: «La “laïcité” francese [è] basata sulla separazione radicale tra religione e politica, che mira di fatto a sottomettere la religione alla politica». (Rovati, 2020).
[2] Kees Waaijman, della Radboud Universiteit di Nijmegen, Paesi Bassi, dice che la spiritualità è spesso vissuta come fonte di ispirazione o orientamento nella vita, inclusa la credenza in realtà immateriali o esperienze della natura trascendente del mondo. Cit. di Kees Waaijman in Kame e Tshaka, 2015.
[3] Khaled M. Abou El Fadl, un eminente studioso nel campo dei diritti umani della UCLA School of Law, afferma: “Continuiamo a soffrire di odio, fanatismo e razzismo, ma la nostra conoscenza della sociologia umana, dell’antropologia e della storia – della nostra esperienza collettiva come esseri umani – rende questi fallimenti più offensivi e meno giustificabili che in qualsiasi altro momento della storia”. (El Fadl, 2018).
[4] “La società moderna richiede e merita uno Stato veramente laico, con cui non intendo l’ateismo di Stato, ma la neutralità dello Stato in tutte le questioni relative alla religione: il riconoscimento che la fede è personale e non è affare dello Stato”. È una frase dell’ateista Richard Dawkins (di cui si parla nel seguito di questo saggio) e che bene illustra la posizione dominante di questa scuola di pensiero. (Gribbin, 2011).
[5] Nella dottrina islamica questi concetti sono chiaramente espressi dal Corano, qui presentati in una versione in Inglese del 1934: “To you be your Way, And to me mine” (CIX: 6) e “God forbids you not, With regard to those who Fight you not for (your) Faith Nor drive you out Of your homes, From dealing kindly and justly With them: For God loveth Those who are just” (LX: 8). (The Holy Qur’an. Translation and commentary by Abdullah Yusuf Ali).
[6] Nella Lettera Enciclica Fratelli Tutti Papa Francesco dice: “La saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet, e non è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In questo modo non si matura nell’incontro con la verità. Le conversazioni alla fine ruotano intorno agli ultimi dati, sono meramente orizzontali e cumulative. Non si presta invece un’attenzione prolungata e penetrante al cuore della vita, non si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza. Così, la libertà diventa un’illusione che ci viene venduta e che si confonde con la libertà di navigare davanti a uno schermo”. (La Santa Sede, 2020).
[7] Adeng Muchtar Ghazali, dell’Università Islamica Statale Sunan Gunung Djati di Bandung, dice che “l’intesa sulla pluralità non è sempre collegata a questioni di teologia o di fede, ma dà solo conto e riconoscimento dell’esistenza di altre religioni. La visione del pluralismo non si riferisce alla verità in altre religioni. Anzi, sicuramente non se ne discute”. (Ghazali, 2014).
[8] Louise A. Cainkar, dell’Università Marquette di Milwaukee, Wisconsin, documenta come Arabi e Musulmani siano stati discriminati negli Stati Uniti dopo l’11 settembre perché tutti ritenuti aderenti a movimenti estremisti. (Cainkar, 2009).
[9] “Qual è la differenza tra perseguire una linea d’azione in cui corriamo il rischio di sottoporre inavvertitamente a tortura alcuni uomini innocenti e perseguirne una in cui uccideremo inavvertitamente un numero molto maggiore di uomini, donne e bambini innocenti? Piuttosto, sembra ovvio che l’errata applicazione della tortura dovrebbe essere molto meno preoccupante per noi dei danni collaterali: dopo tutto, non ci sono bambini internati a Guantanamo Bay”. (Harris, 2011).
[10] Nota il già citato William A. Schabas, Professore di Diritto Internazionale presso la Middlesex University di Londra: “Non ci sono stati procedimenti giudiziari per crimini contro la pace o per aggressione sin dai processi del secondo dopoguerra. Praticamente nessuna giurisdizione nazionale ha introdotto questa categoria di reato nei codici legali nazionali, in contrasto con la diffusa accettazione delle leggi nazionali contro il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra”.
[11] Sull’uso contemporaneo del termine “estremo”, vedi Wibisono, Louis, and Jetten, 2019.
[12] A proposito di dialogo e pacifismo, cosi si esprime Harris nel suo libro The End of Faith. Religion, Terror, and the future of Reason. “Dati i vincoli dell’ortodossia musulmana, date le penalizzazioni all’interno dell’Islam per un adattamento radicale (e ragionevole) alla modernità, penso che sia chiaro che l’Islam debba trovare un modo per rivedere se stesso, pacificamente o meno. Ciò che questo significherà non è del tutto ovvio. Ciò che è ovvio, tuttavia, è che l’Occidente deve vincere la discussione o vincere la guerra. Tutto il resto sarà asservimento”. (Megoran and Foster, 2018, cit.)
[13] Adeng Muchtar Ghazali dice che “coloro che cercano di negare la legge sulla diversità culturale, causeranno continui fenomeni di conflitto”. (Ghazali, 2014, cit.)
[14] Propongo queste riflessioni di Tamara Kharroub che riporta il pensiero sui diritti delle donne nel mondo islamico di Aziza al-Hibri, Professore emerita di Diritto presso l’Università di Richmond: “Il gradualismo, la shura e l’avversione alla coercizione sono importanti principi islamici più appropriati per promuovere i diritti delle donne musulmane. Attraverso l’Islam è quindi possibile un graduale cambiamento stabile dello status e dei diritti delle donne musulmane. […] Le donne musulmane tendono ad essere religiose e non reagirebbero bene a una prospettiva femminista occidentale che viene loro imposta, quindi è improbabile che approcci laici ai diritti delle donne “liberino” le donne musulmane, perché le persone di fede continueranno a voler seguire la loro percezione della Divina Volontà. Inoltre, molti studiosi sostengono che non esista un modello universale di qualità di genere (“a taglia unica”) e che l’Occidente non dovrebbe mantenere il monopolio sulle topografie della modernità e della verità”. Vedi Kharroub, 2015, e al-Hibri, 1997.
[15] A questo proposito, è interessante la classificazione utilizzata per un’elaborazione di sondaggio operata da Giancarlo Rovati. (Rovati, 2020, cit.)
[16] Dice Alessandro Mangia, Professore di Diritto Costituzionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore: “Qui, ancora oggi, si aprono i problemi più delicati giacché la circostanza per cui nel contesto culturale in cui è sorto e si è sviluppato lo stato di diritto riaffiori l’idea dello statuto personale mette in luce la situazione di difficoltà in cui si trovano le concezioni ispirate all’ideologia assolutizzante dello stato di diritto nel momento in cui ci si accosta ai problemi del multiculturalismo”. (Mangia, s.d.).