IWA MONTHLY FOCUS

LE FERITE ANCORA APERTE NELL’AREA INDIANA ALLE SOGLIE DEI 70 ANNI DALLE INDIPENDENZE

Il retaggio storico, le cause, i prodromi, le rivalità interne, il ruolo delle comunità religiose e dei loro litigiosi leader, il disagio e il cinismo britannico. La mala gestione dello smantellamento dell’Impero Indiano

di Glauco D’Agostino

Kashmir e Bangladesh: il retaggio di problemi antichi

Pakistan e India sono di nuovo ai ferri corti. Il 1° ottobre scorso il confronto bellico lungo il confine comune si è riaperto nella regione di Jammu, a sud del Kashmir, dopo che due giorni prima “attacchi chirurgici” indiani avevano preso di mira miliziani all’interno del Kashmir amministrato dal Pakistan e dopo che il 18 settembre militanti anti-India avevano ucciso 19 soldati nel Kashmir amministrato dall’India. A dire il vero, non è una novità per questa tormentata regione, dove le scaramucce tra le parti sono all’ordine del giorno. Ma la novità (diplomatica, più che pratica) è che l’India ha rivendicato gli interventi militari, i quali sono negati dal Pakistan, a fronte di un diniego anche rispetto al coinvolgimento di Islāmābād negli attacchi contro l’India. Tutto questo, in presenza di un forte movimento indipendentista attivo nello Stato indiano di Jammu and Kashmir, che quotidianamente affronta il mezzo milione di soldati inviati in loco da Dehlī per controllare le proteste.

Facciamo un passo verso est. Il 28 marzo scorso la Corte Suprema del Bangladesh ha respinto “per mancanza di legittimazione ad agire da parte del richiedente” una petizione avanzata dal Comitato contro l’Autocrazia e il Comunitarismo per la rimozione della norma costituzionale che riconosce l’Islam come religione ufficiale dello Stato. “È la decisione della più alta corte del Paese. L’Islam deve essere la religione di Stato. La maggior parte delle persone in questo Paese crede nell’Islam”, ha dichiarato Mawlānā Raquib, Presidente del Partito islamico Nizām-e-Islam, aggiungendo che nessun pregiudizio occorrerà per le minoranze religiose del Paese, essendo i loro diritti garantiti dalla Costituzione. Già nel 2011 la Lega Popolare Bengalese, di ispirazione laico-nazionalista e social-democratica e partito di governo dal 2008, aveva emendato la Costituzione, inserendovi la norma della “laicità” e della “pari dignità” delle altre religioni, pur non mettendo in discussione la dichiarazione dell’Islam quale religione di Stato introdotta nel 1988 dall’allora Presidente Ḥuseyn Muḥammad Eraśād.

_86766628_kashmir_map_2011Cosa unisce in un unico ragionamento vicende così lontane ed eterogenee come quelle sopra richiamate? Ovviamente la Storia e la consapevolezza delle sue conseguenze all’attualità e per il futuro! Le conseguenze di una divisione dell’Impero Indiano nel 1947 tanto complessa quanto mal gestita sia dai dominatori britannici sia dalla litigiosa leadership indiana e che ha lasciato sul campo la questione irrisolta dello Stato Principesco del Kashmir e, dopo la proclamazione del Dominion del Pakistan, anche quella della Provincia del Bengala Orientale: il Kashmir era (ed è) rivendicato da Pakistan e India, entrambi eredi dell’Impero Indiano, e il mutuo confine provvisorio (Linea di Controllo, nella foto sopra e nella cartina a lato) è delineato secondo l’Accordo di compromesso di Simla del 2 luglio 1972; il Bengala Orientale, dopo una guerra di nove mesi, nel 1971 ha dichiarato la propria indipendenza dalla Repubblica Islamica del Pakistan con il nome di Bangladesh e come stato laico, principio poi ricusato nella Costituzione del 1977.

Non solo, ma per il Kashmir, l’unico territorio a maggioranza musulmana ancora presente in India, le continue tensioni tuttora esistenti hanno condotto a tre gravi crisi belliche (quelle del 1947, 1965 e 1999), facendo temere per la stabilità geo-politica dell’area e perfino l’eventualità di un conflitto nucleare. Per il Bangladesh, la conquista dell’indipendenza non è stata a costo zero, con accuse di genocidi e deportazioni che ancora oggi portano sul patibolo i presunti colpevoli. Questi conflitti sono costati la vita a oltre un milione di civili, migrazioni di massa per circa 15 milioni di individui e consistenti danni al patrimonio pubblico di tutti i territori coinvolti, oltre ad aver compromesso i rapporti vicendevoli tra tre Nazioni dell’Asia centro-meridionale che assieme sommano oltre un miliardo e mezzo di abitanti.

Come è stato possibile tutto questo? A chi attribuire le colpe? Quali le cause e soprattutto quali le modalità adottate per stabilizzare l’area? L’analisi che segue è solo un contributo di natura storica per richiamare fatti e personaggi, contesti e dinamiche. Le conclusioni, ovviamente, spettano a ciascuno secondo la capacità di giudizio e le soluzioni competono ai politici e alle diplomazie. Ma di certo queste funzioni non si possono svolgere in mancanza di un quadro storico realistico e condiviso, come spesso accade per inettitudine o malafede.

Prima della Seconda Guerra Mondiale sull’Impero Britannico “il sole non tramontava mai”. L’India rappresentò l’inizio del suo processo di decolonizzazione, nonostante il Regno Unito comparisse tra i vincitori del conflitto, sebbene in posizione subordinata rispetto ai due nuovi super-poteri, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Nel 1946 la Gran Bretagna, incalzata dalle pressioni ufficialmente anti-imperiali (per lo meno in linea di principio) delle due potenze globali, era ricorsa ad un prestito di diversi miliardi di dollari per l’incapacità di ripagare i propri debiti derivati dalla guerra. Nei successivi 20 anni quasi 700 milioni di persone sotto il dominio britannico avrebbero raggiunto l’indipendenza.

Dunque, la prima ragione per il ritiro dall’India risiedeva nella mancanza di risorse per il controllo del suo vasto patrimonio territoriale, che pure aveva difeso in passato al costo di brutali repressioni. L’errore britannico (o il suo cinismo?) è stato quello di non accompagnare una smobilitazione abbastanza ordinata e senza incidenti rilevanti ad un’azione politica e diplomatica che fosse in grado di evitare il bagno di sangue seguito al ripiegamento delle sue truppe. Invece, prevalse l’atteggiamento utilitaristico del “divide et impera”.

Per più di mille anni popoli di diverse etnie, religioni e costumi avevano convissuto con molti problemi e tensioni, ma dopotutto accettando di vivere l’uno accanto all’altro e, anzi, dando vita a forme sincretiche di civilizzazione. Dopo il disfacimento dell’Impero Indiano, una vera e propria carneficina ebbe luogo soprattutto in Bengala e Punjab, avendo come principali protagonisti le componenti religiose della popolazione, Hindu e Sikh da una parte e Musulmani dall’altra.

L’ascesa dell’Islam in India

Durante la storia l’India, cuore della tradizione hindu dal 2000 a.C., aveva assistito alla graduale influenza musulmana. L’Islam si era diffuso nel bacino dell’Indo a partire dal 647, sotto il comando del Califfo ‘Uthmān ibn ‘Affān, e il generale omayyade Moḥammed bin Qāsim nel 711 aveva occupato il Sindh, l’attuale provincia pakistana in cui sorge anche Karachi, non determinando un permanente dominio del territorio, ma estendendo la qualifica di Ahl al-Kitāb (la Gente del libro) a Induisti e Buddhisti, radicati nella zona. Nel 778 un gruppo di naufraghi musulmani si era insediato in alcuni villaggi del Regno di Arakan (corrispondente grosso modo allo Stato Rakhine dell’attuale Myanmar) nella sua parte occidentale oggi ricadente in Bangladesh, dando vita ad una comunità che con il tempo era diventata così potente da indurre il Re di Arakan a muoverle guerra e sconfiggerla nel 954.

Altrettanto efficace era stata l’azione dei predicatori nel Bengala: per otto anni prima della sua morte (giunta nell’874), il predicatore sciita Bāyazīd al-Bisṭāmī, discepolo khorāsāni dell’8° Imām Sciita ‘Alī ibn Mūsa ar-Riza, aveva diffuso l’Islam a Chittagong, dove ancora esiste il suo mausoleo commemorativo. Nel 1053 Shāh Muḥammad Sultan Rûmî si era insediato a Netrakona, nel Bengala settentrionale, e da lì aveva invitato a convertirsi all’Islam il Re di Madanpur, che aveva accolto la richiesta. Nel 1179 era giunto a Bikrampur, nell’attuale distretto di Munshiganj presso Dhaka, Baba Shāh Adam, poi morto martire nella lotta contro il Raja hindu Ballala, della Dinastia Sena.

La prima vera conquista territoriale islamica nell’area indiana era venuta nel 1021, quando il Sultano Ghaznavide Maḥmūd aveva espugnato Lahore, in Punjab, e ne aveva fatto la capitale del Sultanato, mentre nel 1148 i Sultani persiani Ghuridi avevano fondato il 2° Stato Islamico nell’India settentrionale, conquistando Dehlī nel 1192 e mantenendo il Punjab fino al 1215. Nel 1206 l’Emiro turco Quṭb ud-Dīn Aybak, capostipite di una dinastia di Mamelucchi, aveva fondato il Sultanato Islamico di Dehlī, che con il tempo avrebbe conquistato quasi l’intera penisola e sarebbe continuato con le Dinastie Khilji, Tughlaq, Sayyid e Lodhi fino al 1526 con l’avvento dell’Impero Mughal. Prima della fondazione del Sultanato di Dehlī, l’area settentrionale del Bengala era stata sottratta alla Dinastia Sena e prima della capitolazione dei Mamelucchi nel 1290 era caduta anche l’area sud-orientale, comportando volontarie conversioni collettive all’Islam, specie tra i Buddhisti e le basse caste hindu. Per la conquista di Chittagong e del sud-ovest del Bengala Orientale si sarebbe dovuto attendere rispettivamente il XIV e XV secolo.

Molto attivi erano stati i tentativi con origini indiane di innovare la dottrina islamica. Nel XIV secolo in India era arrivato il Maestro persiano (Pīr) Ṣadr ud-Dīn al-Ḥusaynī, discendente del 6° Imām Sciita Ja’far aş-Şādiq, che aveva dato vita alla particolare forma religiosa sincretica dei Nizariti Khoja, con elementi derivanti da più religioni (Islam, Induismo e antiche forme persiane di religione). Nel 1497 il religioso sciita Syed Muḥammad Jaunpuri, considerato il Māhdī dai suoi seguaci, aveva dato inizio al movimento dei Mahdavi a Badli, nel Sultanato indiano del Gujǎrāt, che, stabilito nel 1407, sarebbe rimasto indipendente fino al 1576. Nel 1575 l’Imperatore Mughal Jalāl ud-Dīn Moḥammad Akbar-e-Azam (il Grande) (nato e morto musulmano) aveva stabilito nella nuova città di Fatehpur Sikri l’Ibādat Khāna (la Casa del Culto), inizialmente aperta ai Musulmani Sunniti, e sei anni dopo vi aveva fondato la dottrina sincretica Dīn-i-Ilāhi (Fede Divina): la Casa aveva ospitato il primo gruppo multireligioso di discussione tra Musulmani, Hindu, Jainisti, Sikh, Cristiani, Ebrei parsi e persino atei, al fine di dibattere i punti e le ragioni delle loro differenti opinioni.

Insomma, in pochi secoli era nata una civiltà ibrida indo-islamica, con l’insorgere di nuove forme espressive, come l’architettura mughal e punjabi, e nuove lingue come l’Hindi-Urdu e il Deccani. Anche dal punto di vista religioso la forte influenza sufi, soprattutto in Bengala e Punjab, aveva fatto da ponte tra le religioni presenti in India, ad esempio riconoscendo il carattere divino dei sacri testi hindu e spesso favorendo manifestazioni di religiosità popolare incrociata, con fedeli hindu in visita ai mausolei dei pīr musulmani e fedeli musulmani in adorazione presso i templi hindu. Ma il reciproco riconoscimento non si era limitato ad esternazione di pietà popolare, coinvolgendo anzi i ceti colti e perfino le casate regnanti: tra i Mughal, per esempio, si era distinto il Principe Muḥammad Dārā Šukūh, figlio maggiore dell’Imperatore Shihāb ud-Dīn Moḥammad Shāh Jahān I, che aveva tradotto dal Sanscrito in Persiano molti dei commentari Upaniad e nel suo studio Majma’ ul-Bahrain (La Confluenza dei Due Oceani) aveva sottolineato le affinità tra Sufismo e tradizione spirituale Vedānta; e il Sultano Bahadur Shāh II, Imperatore dell’Hindustān e ultimo Imperatore Mughal, era un apprezzato Ṣūfī, cui si deve l’equiparazione tra Islam e Induismo come partecipanti della stessa essenza.

Tuttavia l’India del 1857, alla caduta di Dehlī come testimonianza risultante dall’Impero Mughal e dalla Dinastia inaugurata da Tamerlano il Grande, era in preda agli interessi stranieri già dal XVII secolo e ancor più lo era dal secolo successivo, dopo che la British East India Company aveva intaccato l’integrità territoriale dell’Impero conquistando il Bengala nel 1757 con la battaglia di Pôlashi e dilagando nel resto del sub-continente. Nel 1799 era caduto il Regno di Mysore dopo 400 anni di indipendenza e nel 1818 stessa sorte era toccata all’Impero Maratha, che 60 anni prima dominava quasi tutta la penisola indiana. Nel 1848 i Britannici avevano dissolto l’Impero Sikh (con popolazione a maggioranza musulmana) e il Punjab era diventato provincia sotto il controllo della Corona. Nel 1858 era nato il Raj Britannico con capitale Calcutta e nel 1876 l’unione politica delle aree amministrate direttamente dal Regno Unito e dei Principati sotto la Corona Britannica aveva formato l’Impero Indiano.

I protagonisti dell’indipendenza e le loro responsabilità

Questi gli antefatti salienti. Con l’inizio del XX secolo e fino al 1948 le vicende indiane si intrecciano con le vite di alcuni protagonisti della politica regionale asiatica, i cui reciproci rapporti personali e quelli con il dominatore britannico sul tema dell’eventuale indipendenza determineranno i destini dei popoli del sub-continente. Eccone i tratti salienti prima della suddivisione dell’India:

  • Mahātmā (Venerabile) Mohandās Karamchand Gāndhī, Induista con influenze jainiste, nazionalista anti-britannico e sostenitore della resistenza non-violenta, esponente del movimento di riforma religioso e spirituale dedito a sottolineare il carattere hindu della società indiana, ispirato dall’interpretazione Neo-Vedānta dell’Induismo;
  • Qāʾid-e Aʿam (Grande Leader) Muḥammad ‘Alī Jinnah, Musulmano sciita del Sindh da famiglia Ismailita Khoja, costituzionalista, sostenitore dei diritti delle minoranze, leader della Lega Musulmana Pan-Indiana;
  • Paṇḍit (Bramino) Javāharlāl Nehrū, agnostico e laicista di origini braminiche kashmiri, socialista e internazionalista, ma, come il suo mentore Gāndhī, influenzato dal movimento politico-religioso Neo-Vedānta;
  • Sardar (Comandante) Vallabhbhai Jhaverbhai Patel, Induista e nazionalista anti-musulmano;
  • Mawlānā (Maestro) Abûl-Kalâm Muhiyuddīn Aḥmed Azad, Musulmano sunnita, studioso eclettico di origine bengalese nato alla Mecca, laico-socialista, esponente del movimento indipendentista indiano e sostenitore della disobbedienza civile non-violenta, leader del movimento pan-Islamico Khilafat, in pratica la sola personalità di rilievo a propugnare fino alla fine l’unità dell’India con la comune collaborazione di Induisti e Musulmani senza distinzione.

I primi quattro erano tutti avvocati di formazione londinese; Gāndhī, Jinnah e Patel condividevano origini Gujǎrāti; tutti tranne Jinnah (che pure ne aveva fatto parte) erano stati Presidenti del partito Congresso Nazionale Indiano: in definitiva, i cinque provenivano da una formazione politica e culturale non così lontana l’una dall’altra.

La responsabilità della partizione dell’India è stata storicamente attribuita a Jinnah e alla sua volontà di dare ai Musulmani indiani una patria separata dalla maggioranza hindu. Dunque, motivazioni di carattere religioso. Forse bisognerebbe rivedere questo giudizio, alla luce del fatto che il politico sciita prediligeva soluzioni politiche unitarie non confessionali e un ordinato trasferimento di poteri e anche perché, secondo le testimonianze di un governatore coloniale, rimproverava a Gāndhī (nella foto a lato) che “era un crimine confondere politica e religione nel modo in cui l’aveva fatto”.

Se si accetta questa ricostruzione, se ne dovrebbe dedurre che proprio le azioni di Gāndhī, apprezzabili ed efficaci nella pratica della non-cooperazione passiva, presupponevano però quelle basi di carattere confessionale protese verso lo scontro intestino e la disgregazione, che furono addossate invece a Jinnah. Così si spiegherebbero gli sforzi compiuti da quest’ultimo a cavallo della Prima Guerra Mondiale, in favore della collaborazione tra Congresso Nazionale e Lega Musulmana Pan-Indiana (cui contemporaneamente apparteneva), tanto da essere acclamato “Ambasciatore dell’Unità Hindu-Musulmana” dopo il successo del Patto di Lucknow del 1916, che aveva realizzato l’accordo tra i due partiti e l’intento di presentare richieste indiane comuni ai Britannici. Cosa portò Jinnah (nella foto sotto) dopo più di un trentennio da quell’avvenimento a richiedere la divisione dell’India all’atto della concessione dell’indipendenza, smentendo le battaglie politiche di una vita dedicata all’unità indiana? Forse le risposte si possono trovare analizzando le vicende di quel trentennio e le montanti rivalità e incomprensioni intercorse tra i protagonisti indiani dell’epoca.

Dal Patto di Lucknow al Rapporto Nehru

La base di partenza fu proprio il contenuto del Patto di Lucknow, che tra i suoi punti qualificanti includeva:

  • Il principio dell’auto-governo, realizzato mediante l’elezione popolare dell’80% dei rappresentanti nelle Assemblee legislative provinciali;
  • La separazione tra i poteri esecutivo e giudiziario;
  • La separazione degli elettorati per tutte le comunità;
  • Rappresentanza dei Musulmani secondo la quota di 1/3 nel Governo Centrale;
  • La quota del 50% di Indiani nel Consiglio Legislativo Imperiale;
  • L’abolizione del Consiglio del Governatore Generale dell’India, che fu in effetti attuata solo nel 1935.

Con la Legge sul Governo dell’India del 1919, la Corona intendeva affidare “alla rappresentanza eletta dal popolo una quota definita nel governo” e indicare “la strada per un governo pienamente responsabile”, attuando un processo di progressiva decentralizzazione che avrebbe condotto al sistema federale. Tuttavia, nel mentre il principio dell’auto-governo veniva in qualche modo recepito in termini di trasferimento di poteri formali alle autorità provinciali responsabili verso le rispettive Assemblee elettive (e quindi con l’introduzione di un sistema di diarchia), le eccessive prerogative rimaste in capo ai poteri centrali in termini di controllo di competenze riservate (in pratica, al Governatore Generale e ai suoi ministri responsabili verso la Corona) non piacque a molti Indiani, che diedero vita a proteste non-violente, subito represse fino a giungere al massacro di Amritsar con 380 vittime appartenenti a comunità sia Sikh, sia Musulmane, sia Hindu.

Sull’onda dello scontento popolare e anche animati da propositi di sostegno ad un Califfato Ottomano ormai agli sgoccioli, lo stesso anno i Mawlānā Muḥammad ‘Alī Jauhar, tra i fondatori e poi Presidente della Lega Musulmana Pan-Indiana, Shaukat ‘Alī (fratello del precedente) e Hasrat Muhānī fondarono assieme ad altri pensatori il movimento pan-Islamico Khilafat. Nel 1920 Gāndhī, da quattro anni rientrato in India e ormai leader del Congresso Nazionale, invitava il movimento Khilafat e alcuni importanti religiosi musulmani (che accettarono) ad unirsi al Movimento di Non-Cooperazione da lui capeggiato, ma ricevette la netta opposizione sia di Jinnah sia della Lega Musulmana Pan-Indiana, contrari ad azioni destabilizzanti, ma anche dell’Induista Paṇḍit Madan Mohan Mālavīya, già Presidente del Congresso Nazionale. Già due anni dopo la sua nascita, il Movimento di Non-Cooperazione di Gāndhī era fallito e anche il movimento Khilafat, ormai non più sostenuto dal Mahātmā, veniva ridimensionato nel suo compito anche dal collasso del Sultanato Ottomano, seguito nel 1924 dalla caduta dell’istituzione millenaria del Califfato.

Tuttavia, le conseguenze, come già preconizzato da Jinnah, ebbero un grave impatto sull’unità delle forze indipendentiste, perché le varie componenti si erano ormai compattate sulla base di elementi confessionali invece che su quelli territoriali, politici e sociali. Per cui, fallita la cooperazione interreligiosa, nel 1923 l’Hindu ateo Vināyak Dāmodar Sāvarakar scriveva il pamphlet L’Essenziale dell’Hindutva (la condizione hindu), in cui propugnava la creazione in India di una Nazione Hindu come espressione di identità etnica, culturale e politica separata rispetto alla Nazione Musulmana; nei due anni successivi, l’ārya samāja (la Società Nobile), un movimento che sostiene l’infallibilità dei Vedā, convertiva all’Induismo migliaia di Rajput musulmani, soprattutto in Punjab e nelle Province Unite di Āgra e Oudh; nel 1925 la Grande Assemblea Hindu Pan-Indiana (Hindū Mahāsabhā), già nata dieci anni prima con altro nome, diventava un partito politico per poi cadere sotto l’influenza di Sāvarakar e delle sue teorie anti-musulmane opposte alla politica del Congresso Nazionale. Per contrasto, il Mawlānā deobandi Muḥammad Ilyas Kandhelvi fondava il Tablīghī Jamā‘at (Gruppo di Trasmissione della Fede) per dare alla popolazione musulmana uno Stato distinto dall’India dominata dagli Hindu. Insomma, il seme della divisione era già stato piantato.

Quando nel 1928, dopo vari infruttuosi tentativi da parte delle conferenze inter-partitiche indiane di redigere una bozza di Costituzione su sollecitazione britannica, fu insediata allo scopo una Commissione presieduta da Motilal Nehru e molto influenzata da suo figlio Javāharlāl, quel seme germogliò e diventò il primo passo tangibile di un disaccordo irriducibile. Perché il Rapporto Nehru che ne derivò fu ovviamente approvato dal Congresso Nazionale, ma rigettato dalla Lega Musulmana e da Jinnah, il quale denunciò “la miopia e oppressività della Commissione”. Jinnah tentò ancora di salvare l’accordo con il Congresso, proponendo 14 punti di possibile convergenza, ma questi furono respinti dagli interlocutori. E dopotutto Jinnah era consapevole di rappresentare una minoranza debole in mano ad una maggioranza sorda alle istanze non solo dei Musulmani, ma di tutti i gruppi minoritari.

I maggiori punti di disaccordo risiedevano nelle seguenti questioni, che furono anche al centro delle inutili riunioni promosse a Londra tra il 1930 e il 1932 per avvicinare le posizioni delle parti indiane:

  • Le competenze residuali derivanti dalla struttura federale presente in entrambi i progetti di Costituzione. Il Rapporto Nehru le conferiva ai poteri centralizzati federali, mentre la proposta Jinnah le attribuiva ai poteri degli Stati federati;
  • La rappresentanza politica delle minoranze. Il Rapporto Nehru, smentendo uno dei contenuti del Patto di Lucknow, negava la separazione degli elettorati (questo principio sarebbe stato accettato dai Britannici nel 1932) e il peso proporzionale da attribuire loro in ogni Assemblea legislativa, accordando, però, ai Musulmani una quota del 25% nella rappresentanza parlamentare a livello centrale. La proposta Jinnah insisteva, invece, sulla salvaguardia dei diritti delle minoranze a livello territoriale, comprendendo quindi le province in cui non solo i Musulmani, ma anche Hindu, Cristiani e Sikh si trovassero in questa condizione. Inoltre, innalzava almeno al 30% la quota per i Musulmani nella rappresentanza parlamentare e nel governo a livello centrale.

Naturalmente, le rispettive posizioni rispecchiavano le concezioni politiche dei loro principi ispiratori: quella nazionale, unitaria e socialista di Javāharlāl Nehrū, sostenitore di una pianificazione economica centralizzata; e quella di Jinnah, fautore dei poteri decentrati in capo alle entità federate, maggiormente in condizione di valorizzare le peculiarità etniche e religiose delle minoranze, le quali sarebbero state schiacciate dalla prevalenza Hindu a livello centrale.

La “teoria delle due Nazioni”

Nel 1930 il poeta e filosofo punjabi Sir Muḥammad Iqbāl (nell’immagine a lato), considerato l’ispiratore del movimento politico Tarīk-i Pākistān che avrebbe condotto alla separazione del nord-ovest, pronunciava il suo discorso d’insediamento ad Allāhabad nelle vesti di Presidente della Lega Musulmana Pan-Indiana, affermando: “Vorrei vedere il Punjab, la Provincia della Frontiera Nord-Occidentale, il Sindh e il Beluchistan accorpati in un unico Stato. L’autogoverno all’interno dell’Impero Britannico, o senza l’Impero Britannico, la formazione di un consolidato Stato musulmano del nord-ovest indiano mi sembrano essere il destino finale dei Musulmani, almeno dell’India nord-occidentale”. Con questo, al contrario di Jinnah, Iqbāl sembrava avallare “la teoria delle due Nazioni” di Sāvarakar, seppure da una posizione esattamente speculare e antitetica; ma, nel sottolineare la necessità di uno Stato per i Musulmani indiani, non faceva nessuna menzione al Bengala, che, pure, si trovava nella stessa condizione di provincia con popolazione a maggioranza musulmana (circa il 55%). Eppure, Iqbāl fu il principale artefice del ritorno di Jinnah in India nel 1935, dopo il suo volontario esilio di quattro anni a Londra motivato dall’insofferenza per la politica indiana e i suoi esponenti. Da quel momento Jinnah riprende la responsabilità e il controllo della Lega Musulmana, ma forse già propenso a proseguire la strada iniziata dal suo predecessore alla guida della Lega: si preparava alla Risoluzione di Lahore adottata dalla Lega Musulmana del 1940, in cui per la prima volta Jinnah avrebbe aderito all’idea di un Pakistan musulmano separato dall’India hindu, sebbene in una formulazione abbastanza vaga da consentire negoziati con i Britannici.

Le elezioni del 1937, le prime condotte con il sistema degli elettorati separati secondo le disposizioni della Legge sul Governo dell’India del 1935, segnarono un insuccesso per la Lega Musulmana: il partito ottenne soltanto 106 seggi sui 491 riservati ai Musulmani e tra questi 26 furono conquistati dal Congresso Nazionale. Quest’ultimo, a fronte di un onorevole 42% dei seggi sui 1.771 in palio, espugnò roccaforti musulmane come il Bengala e la Provincia della Frontiera Nord-Occidentale. Inoltre, in Bengala la Lega Musulmana riuscì ad assicurarsi soltanto poco più del 15% dei seggi e nel Punjab soltanto due. Con questi risultati, mentre il Congresso Nazionale si accaparrava la conduzione degli esecutivi negli Stati dove era emerso vittorioso (7 su 11) e partecipava al governo di altri due, allo stesso tempo, seguendo l’intransigenza di Javāharlāl Nehrū, si rifiutò di formare governi di coalizione con la Lega Musulmana dove non aveva una maggioranza certa, come a Bombay e nelle Province Unite. Fu il secondo errore politico di Nehru dopo il Rapporto del 1928, perché da quel momento fu proprio dalle Province Unite che sarebbe incominciata la rinascita della Lega Musulmana e di Jinnah.

Quando nel 1939 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania nazista e, senza nemmeno consultazioni preventive, chiamò l’India alla sua responsabilità solidaristica di colonia imperiale, la dirigenza politica indiana si divise ancora una volta: gli unici ad opporsi alla richiesta di partecipazione ad una guerra non voluta furono Gāndhī, per ragioni etiche radicate nella non-violenza e nella non-cooperazione, e l’Hindu bengalese Netaji Subhāṣ Chandra Bose (a lato con Gāndhī in una foto del 1938), Presidente del Congresso Nazionale, che fu costretto alle dimissioni per contrasti con Gāndhī in ordine all’uso della forza per costringere i Britannici a lasciare l’India; sempre in seno al Congresso, Nehru, Patel e Azad si dichiararono pronti alla collaborazione su un piano paritario, cioè in cambio dell’immediata indipendenza; Jinnah assunse lo stesso atteggiamento collaborazionista, che avrebbe voluto negoziare con la concessione di maggiori diritti per i Musulmani. Le suddette posizioni si ripeterono nei confronti della guerra degli Alleati contro i Giapponesi, questa volta a ridosso dell’India; anzi, Bose si spinse fino a guidare il Governo dell’India Libera e l’Esercito Nazionale Indiano, entrambe entità operanti in Birmania a supporto dell’Impero Giapponese, il quale aveva promesso l’indipendenza dell’India dopo la sconfitta dei Britannici; e Gāndhī riprese una più decisa campagna di disobbedienza civile con il movimento Quit India: nel 1942 Nehru, Patel, Azad e lo stesso Gāndhī finirono in prigione per questo.

Dal Cabinet Mission Plan al Governo Provvisorio

Alla fine della guerra vittoriosa, i Britannici ripresero l’annosa questione dell’assetto federale dell’India, già proposto dal Rapporto Nehru del 1928 e all’epoca accettato in linea di principio anche da Jinnah. L’intento era di salvaguardare l’unità dell’India in un quadro di forte decentramento, funzionale ad un trasferimento di poteri da Londra a Dehlī in vista di un’indipendenza condivisa da tutti, Corona compresa. Allo stesso tempo, si intendeva frenare le aspirazioni manifestate dalla Lega Musulmana per un Pakistan libero e indipendente.

A maggio del 1946 fu varato un Cabinet Mission Plan stilato sotto la responsabilità di Lord Pethick-Lawrence, Segretario di Stato per l’India, il quale, dopo consultazioni con il Congresso Nazionale e la Lega Musulmana, proponeva un’Unione federale con tre soggetti costituenti autonomi e un governo centrale cui riservare le competenze fondamentali per la sicurezza dell’Unione: i soggetti federati dovevano essere tre gruppi di province individuate su base confessionale, denominati Gruppo A (le province a maggioranza hindu), B (le province a maggioranza musulmana del Nord-Ovest) e C (il Bengala a maggioranza musulmana e l’Assam a maggioranza hindu). Inoltre, i 572 Stati Principeschi (i quali contavano assieme per una quota corrispondente ad un quarto dell’intera popolazione indiana) avrebbero dovuto integrarsi con le province viciniori sempre all’interno dello stesso gruppo, salvo indicazioni elettorali popolari di avviso contrario.

La proposta Pethick-Lawrence scontentava le aspirazione dei Sikh del Punjab, che, soprattutto per antichi motivi storici, manifestavano atteggiamenti anti-musulmani, per questo non intendevano appartenere al Gruppo B e aspiravano, più concretamente, all’indipendenza nazionale come ricompensa per la lealtà all’Impero durante la guerra mondiale appena conclusa.

Il Cabinet Mission Plan ricevette l’approvazione di Jinnah, ma, a parte l’ininfluente opposizione dei Sikh, anche il diniego da parte di Gāndhī, che si attivò in tal senso invitando l’Assam a rifiutare la collocazione nel Gruppo C assieme al Bengala. Tuttavia, il Congresso il 7 luglio esprimeva il suo assenso al Piano, votando una formale risoluzione nel merito. A questo punto, nella vicenda interviene una mossa imponderabile da parte di un autorevole protagonista della politica indiana, già tre volte Presidente del Congresso Nazionale e già dal 1941 designato da Gāndhī come suo erede politico: parliamo ancora una volta di Javāharlāl Nehrū e del suo terzo, gigantesco errore politico nei confronti dell’unità indiana. Appena tre giorni dopo la risoluzione del Congresso, Nehru dichiarava che il partito non si considerava vincolato alla sottoscrizione del Piano di Pethick-Lawrence se non nell’intenzione di istituire un’Assemblea Costituente. Questo faceva cadere l’impianto istituzionale del Cabinet Mission Plan cui, pur in maniera riluttante, aveva aderito anche la Lega Musulmana.

Nehru fu forse offuscato nella sua lucidità politica dai pregiudizi ideologici dell’efficacia dello Stato accentratore, che gli derivavano dall’adesione agli ideali socialisti, e dunque era incapace di accettare ogni forma di potere decentralizzato. O forse subì il diktat del suo guru Gāndhī, restio ad ogni forma di condivisione del potere con Jinnah e i Musulmani. Difficile da giudicare. Ma, certamente, non riuscì a calcolare le tragiche conseguenze derivanti dal suo rifiuto di accettare il Piano di iniziativa britannica. Oppure giudicò la partizione dell’India come la migliore soluzione per poter mantenere il potere sulla sua parte preponderante, senza interferenze di possibili concorrenti.

Fatto sta che, come reazione, anche la Lega Musulmana ritirò la sua adesione al Piano britannico, giustificando il rifiuto con la particolare attitudine fluttuante delle decisioni del Congresso e dei suoi leader, in pratica prive di affidamento soprattutto nella prospettiva di una coabitazione sotto un’entità istituzionale indipendente. Così, anche le elezioni per l’Assemblea Costituente furono boicottate dalla Lega, lasciando il Congresso solo attore della rappresentanza costituzionale. La rottura era diventata insanabile e da quel momento gli eventi furono fuori dal controllo di tutti. Quando il 6 agosto 1946 la Lega Musulmana chiamò all’“Azione Diretta” come giornata di protesta pacifica, l’evento si svolse secondo le intenzioni degli organizzatori, tranne che a Calcutta. Per cinque giorni la metropoli bengalese fu sconvolta da violenti disordini che coinvolsero Hindu e Musulmani in reciproci eccidi e assalti, tanto da provocare 3.000 morti e 17.000 feriti, secondo il resoconto del Viceré Feldmaresciallo Archibald Wavell.

Mentre il Congresso, su un sorprendente quanto incoerente invito di Gāndhī, accettava di convenire sull’ipotesi di divisione dell’India, a settembre si insediava un governo provvisorio coadiuvato dal Consiglio Esecutivo del Viceré e Javāharlāl Nehrū assumeva l’incarico di Vice-Presidente del Consiglio con i poteri di un primo ministro. Quando la Lega Musulmana si rese conto che il solo interlocutore dei Britannici nel processo di trasferimento dei poteri sarebbe stato il Congresso, entrò a far parte del Consiglio Esecutivo in coalizione con il Congresso e Liāqat Alī Khān, uno dei suoi più eminenti esponenti e futuro Primo Ministro del Pakistan, andò a dirigere il Ministero delle Finanze.

La scelta dell’indipendenza binaria e le sue conseguenze

Il 20 febbraio 1947 il laburista Clement Atlee, Primo Ministro britannico dal luglio precedente, dichiarò che il Regno Unito avrebbe retto l’India fino a giugno del 1948 come termine massimo, al contempo richiamando Nehru e Jinnah alle loro responsabilità in caso di mancato accordo. L’Ammiraglio Louis Mountbatten, nuovo Viceré da una settimana, si rese conto dei rischi di guerra civile cui l’India si esponeva con la sua composizione multietnica e multireligiosa e in presenza di una dirigenza ormai in mutua rotta di collisione. Di conseguenza, impiegò le proprie forze in favore dell’ipotesi di partizione come alternativa alla guerra civile. Il bagno di sangue ci fu lo stesso, purtroppo.

A marzo le prime reazioni all’invito di Lord Mountbatten: il Congresso, dando corpo alla risoluzione del settembre precedente, prendeva in considerazione l’ipotesi di dividere l’India, ma avvertiva che, in caso di nascita del Pakistan, anche il Bengala sarebbe nato come stato separato, il Bengala Occidentale e il Punjab Orientale sarebbero dovuti appartenere all’India e i 572 Stati Principeschi avrebbero avuto la libertà di aderire al Pakistan o all’India. Era chiaro che questa potesse diventare la proposta vincente, ma deludeva le aspirazioni di Jinnah di portare nel Pakistan anche il Bengala in unico stato; inoltre, la mutilazione di Punjab e Bengala, con la conseguente perdita anche di Calcutta, rischiava di accendere gli animi sul terreno. Già nel Punjab, lungo il confine proposto, incominciavano i primi massacri reciproci tra Hindu, Musulmani e Sikh che facevano prevedere cosa sarebbe successo in seguito.

Bengala Occidentale, Pakistan Orientale e Assam al momento della partizione (da Frustrated Indian, 4 gennaio 2016)Il 3 giugno il Viceré Mountbatten, ricevuto l’assenso dai delegati del Congresso, della Lega Musulmana e della comunità Sikh, anticipò al 15 agosto seguente la data del trasferimento dei poteri. Ma nessuno era ancora pronto ad affrontare un evento storico in un così breve lasso di tempo. Tanto più che non erano state definite neanche le linee confinarie che avrebbero dovuto separare gli Stati.

Tuttavia, la decisione di separare l’India era già presa e l’Indian Independence Act fu approvato il 15 giugno con l’assenso della stessa Corona, che avrebbe emesso l’atto di assenso il successivo 18 luglio. In sostanza, una soluzione di compromesso tra le posizioni di Nehru e Jinnah, con il Pakistan formato da Punjab e Bengala, ma mutilati di importanti parti del loro territorio. India e Pakistan avrebbero avuto lo status di Dominion, una forma di semi-sovranità accordata dalla Corona britannica ad uno Stato indipendente, ma che riconosce il Sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna come suo Capo di Stato. Importante anche una delle disposizioni: il riconoscimento che ciascun Dominion fosse considerato come espressione del desiderio di autogoverno degli Hindu in India e dei Musulmani in Pakistan, con ciò istituzionalizzando le componenti confessionali dei due territori.

Quando il 14 agosto il Pakistan già celebrava il trasferimento di poteri un giorno prima della data fissata, per dar tempo a Lord Mountbatten di presenziare all’analoga cerimonia in India il giorno dopo, nel frattempo la tragedia di uno dei più grandi massacri del XX secolo era già in atto, specialmente a Lahore e in tutto il Punjab, con le caratteristiche e le cifre ricordate all’inizio. E a nulla valsero le parole di Jinnah durante il suo primo discorso all’Assemblea Costituente del Pakistan nella sua qualità di Governatore Generale: “Si può appartenere a qualsiasi religione o casta o credo, questo non ha nulla a che fare con gli affari dello Stato”, in linea con la sua battaglia pluridecennale in favore della libertà religiosa per tutte le comunità.

Ma questo era solo l’inizio! Restava da risolvere la collocazione degli Stati Principeschi, i quali, fuori dal Raj britannico, avevano mantenuto una relativa indipendenza all’interno dell’Impero Indiano. Con la creazione dei due Dominions, ora dovevano decidere di aderire all’uno o all’altro secondo le disposizioni dell’Indian Independence Act. Cedendo alle pressioni di Lord Mountbatten, ora Governatore Generale dell’India, e di Sardar Patel, nelle sue funzioni di Ministro degli Affari Interni, la maggior parte dei Principi degli Stati entro i confini della nuova India aderì subito alla richiesta di entrare a far parte del Dominion indiano. Fecero eccezione Junāgaḍh, Hyderabad e Jammu and Kashmir.

Il primo, Stato fondato nel 1730 nel Gujǎrāt con l’assenso dell’Imperatore Mughal e divenuto protettorato britannico nel 1807, il 15 agosto chiese l’accesso al Dominion del Pakistan, che accettò l’istanza un mese dopo. Il 9 novembre l’India rispose, conquistando Junāgaḍh militarmente e imponendo un referendum sotto occupazione, che il 24 febbraio successivo espresse la volontà di appartenere all’India. Hyderabad, Stato sud-orientale sovrano dal 1724 e protettorato britannico dal 1798, all’atto dell’indipendenza indiana decise di restare indipendente (vedi cartina in apertura). Il 17 settembre 1948 l’Esercito indiano occupò lo Stato e obbligò il suo Nizam a firmare l’Atto di accesso al Dominion indiano, determinando situazioni d’instabilità politica e amministrativa che si prolungano all’attualità.

Ben più complicata la situazione del Kashmir, per la sua collocazione geografica e politica. La visione strategica di Lord Mountbatten suggerita dal Congresso imponeva di fatto che soltanto gli Stati Principeschi con confini comuni con il Dominion del Pakistan potessero decidere di aderirvi e questo non era il caso dei due Stati Principeschi citati. Viceversa, lo Stato himalayano si trovava nella posizione di potere effettivamente scegliere. Il problema risiedeva nel fatto che il Principato di Jammu and Kashmir, con il 77% della popolazione aderente all’Islam, era retto da un Mahārāja di fede hindu e condizionato dalla maggiore formazione politica locale, la quale era una costola del Congresso Nazionale Indiano. In questa situazione, il Mahārāja tergiversò, cercando di salvaguardare l’indipendenza del suo Stato. Quando ad ottobre si manifestarono le prime ribellioni con l’appoggio del Pakistan, il Sovrano richiese l’intervento dell’India, che naturalmente condusse alla sottoscrizione dell’atto di accesso al Dominion indiano. Ne seguì la Prima Guerra indo-pakistana, che si sarebbe conclusa due anni dopo con un accordo tra le parti sotto l’egida dell’ONU. Ai Pakistani fu lasciata una porzione di territorio da loro chiamata Azad (in Urdu, libero) Jammu and Kashmir, con capitale Muzaffarabad; mentre in mani indiane restò la maggioranza dell’ex Principato, con capitale invernale Jammu e quella estiva Srinagar. La situazione rimane irrisolta ancora oggi, con la contrapposizione di movimenti armati delle due fazioni in conflitto e un promesso referendum popolare mai effettuato.

चित्र:Kashmir map.svg

Infine, resta da citare un’altra conseguenza dell’onda lunga della tragica frattura provocata dalla fine dell’Impero Indiano: la secessione del Bangladesh dalla Repubblica Islamica del Pakistan nel 1971 (nella foto sotto, la dichiarazione d’indipendenza). Un avvenimento che corrispondeva proprio agli intendimenti espressi da Gāndhī e Nehru negli anni decisivi 1946-47, secondo cui Punjab e Bengala non sarebbero dovuti appartenere ad un unico Stato. Venticinque anni dopo, lo scopo di dividere la popolazione musulmana indiana, contro cui si era pervicacemente battuto Jinnah, era finalmente raggiunto!

Lo Stato secolare del Bangladesh che ne derivò cercò in un primo momento di relegare la religione ai margini della vita civile e politica, in presenza di una popolazione che certamente non si ispirava ai costrutti ideologici di Gāndhī e Nehru. Così, se nella vita politica le forze laiciste sono senza dubbio state protagoniste e lo sono ancora oggi, tuttavia il sostrato civile della società bengalese continua ad essere tenacemente ispirato dai valori islamici. Questo limita la propensione alla prevaricazione politica insito nell’acceso nazionalismo di alcuni partiti locali, forse grazie anche all’influenza esercitata dai sapienti Pir delle varie confraternite sufi presenti da secoli nel Bengala. Ne recano testimonianza i tentativi ormai pluridecennali di disconoscere l’Islam come religione ufficiale dello Stato. Sempre falliti!

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