CINA: IL COMUNISMO DELLE REPRESSIONI ANTI-MUSULMANE E DELLO… SVILUPPO IPER-CAPITALISTA
Mentre l’iniziativa “One Belt, One Road” apre a nuovi rapporti economici con il Pakistan, la comunità musulmana richiama l’attenzione sulle ristrette condizioni di libertà di Uyghuri e Huí
di Glauco D’Agostino
Il controllo politico sulle religioni
Il 22 e 23 aprile scorso si è tenuta a Pechino la Seconda Conferenza Nazionale sulla Religione. Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare Cinese e Segretario Generale del Partito Comunista, ha messo in guardia il popolo cinese, in particolare coloro che vivono nella provincia dello Xīnjiāng, a evitare di praticare l’Islam e di attenersi alla politica statale cinese dell’”ateismo marxista”. Il regime comunista, con in testa il suo Presidente, si sta impegnando per rafforzare il controllo sulle religioni, in quanto è sua convinzione che esse, in particolare l’Islam e secondo gli assunti della teoria marxista, potrebbero risultare forze in concorrenza con il Partito unico, qualora non fossero per tempo soffocate sul nascere. “Non confondetevi con tendenze non approvate dal Partito Comunista Cinese” e “non identificate mai i vostri valori e credenze in questa o qualsiasi religione”, ha tuonato il Presidente.
Eppure il 5 giugno successivo, primo giorno del mese sacro del Ramaḍān per tutta la Umma islamica, Zhang Chunxian, Segretario del Comitato Regionale del Partito Comunista Cinese dello Xīnjiāng, aveva formulato gli auguri per la sacra festività ai Musulmani dei diversi gruppi etnici. Sono le contraddizioni di una politica religiosa del regime, che da una parte cerca di mantenersi fedele ai principi di un’ideologia ormai tramontata, e dall’altra prende atto della forza di un’esperienza, quella religiosa, che trascende i limiti del tempo, perché radicata nella tradizione popolare e sempre più presente tra le giovani generazioni. Non è solo l’Islam a soffrirne, ma anche la Cristianità, la quale è sotto tiro nelle regioni orientali del Paese con restrizioni simili a quelle imposte ai Musulmani dello Xīnjiāng, fino a proibire l’uso delle croci in cima alle chiese.
Per la verità non è la prima volta che il Presidente Xi (nella foto a sinistra) ha utilizzato questi toni. Nel 2014 aveva dichiarato che il governo cinese avrebbe dovuto prepararsi a una lunga lotta contro le “forze separatiste” che sono incentrate nella provincia dello Xīnjiāng, ammettendo pubblicamente l’esistenza di un problema etnico-religioso per gli Uyghuri nelle “marche” di confine, che, mutuando il termine in uso dai primi decenni dell’800, già alcuni movimenti denominano come Turkestan Orientale. Tra questi, i Movimenti per l’Indipendenza del Turkestan Orientale rappresentano una galassia di organizzazioni indipendentiste che, in realtà, perseguono fini differenti, da quelli che focalizzano l’attenzione sull’identità etnica uyghura, a quelli che si rifanno ad una più ampia identità religiosa all’interno della Umma islamica e negano persino l’esistenza di una etnia uyghura
Gli Uyghuri, infatti, etnicamente vicini agli Uzbeki e ad altre popolazioni dell’Asia Centrale, sono turcofoni Musulmani, in maggioranza Sunniti di scuola giuridico-teologica ḥanafita dal IX-X secolo, dopo una prima conquista da parte del Khanato Kara-khanide dei territori controllati dai Buddhisti iranici Saka, poi rafforzata da una seconda vittoria ottenuta nel XVI secolo dal Khanato Chagatai Orientale sui Buddhisti Uyghuri di origine turca. Oggi gli Uyghuri stabiliti nella regione dello Xīnjiāng sono 10-15 milioni sui 23 milioni di abitanti residenti nella Provincia Autonoma e sui 30 milioni di Musulmani residenti in Cina; fuori dalla Cina ne sono presenti circa 500 mila, soprattutto in Kazakhstan e Uzbekistan.
Il territorio che abitano, similmente a quanto occorso in Tibet, cadde nel XVIII secolo sotto la sovranità cinese della dinastia Qing e poi ereditato dalla Repubblica di Cina nel 1912. Nel 1921 i Sovietici introdussero la denominazione di Uyghuri per gli abitanti delle oasi dello Xīnjiāng, i quali identificavano se stessi dal nome delle singole oasi. Soprattutto a seguito della Rivoluzione dei Tre Distretti (Ili, Tarbagatay, Altaj) che aveva minacciato l’unità cinese dal 1944, con l’avvento della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 quel territorio subì un più stretto controllo. Il regime comunista fu durissimo a causa delle persecuzioni dei credenti, l’ateismo di Stato e l’educazione anti-religiosa. La “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria” del 1966-76 impedì il compimento dell’Ḥājj, il Pellegrinaggio alla Mecca, e il divieto rimase fino al 1979. “Per garantire pellegrinaggi di successo per i credenti dell’Islam, ogni anno lo Xīnjiāng organizza voli charter, portando più di 3.000 Musulmani alla Mecca, in Arabia Saudita”, rivendica oggi Pechino.
Il discorso del Presidente Xi Jinping era rivolto esplicitamente agli Uyghuri e allo Xīnjiāng, ma implicitamente anche al Pakistan, che con la Cina condivide il confine attraverso lo Xīnjiāng e che Pechino ha ripetutamente ammonito per il mancato controllo sulle attività trans-frontaliere di indottrinamento islamico considerato radicale. Xi, sostenuto da contemporanee dichiarazioni del Partito, ha affermato che Pechino considera queste attività come infiltrazioni ideologiche straniere e il principale pericolo per la società e che le conseguenti misure di repressione sarebbero state intensificate. Il Partito ha anche chiarito che questo è un tema che riguarda la sicurezza nazionale. A questo proposito, proprio a Ürümqi, la capitale dello Xīnjiāng, il 4 agosto Cina, Pakistan, Afghanistan e Tadzhikistan hanno firmato una dichiarazione comune sulla cooperazione nel contrasto al terrorismo: “Le quattro parti hanno convenuto di istituire il meccanismo quadrilaterale per coordinarsi e sostenersi a vicenda in una serie di settori, tra cui lo studio e il giudizio della situazione nella lotta al terrorismo, la conferma di indizi, la condivisione di intelligence, la capacità nell’anti-terrorismo, la comune formazione anti-terrorismo e la formazione del personale”, dice la dichiarazione.
Comunque, le allusioni nelle affermazioni del Presidente Xi e del Partito possono leggersi anche in riferimento alle attività del Movimento Islamico del Turkestan Orientale, l’organizzazione pan-islamista presente in Cina sin dal 1997 e che avrebbe la sua base organizzativa nel Nord Waziristan, in Pakistan. Il Movimento retto dall’Uyghuro cinese ‘Abd ul-Ḥaqq (capziosamente considerato assassinato nel 2010 da un drone USA e invece di nuovo a capo del gruppo dal 2014) e da ‘Abdullāh Manṣūr (il reggente durante la sua vacanza), è fuorilegge in Cina, ma anche nello stesso Pakistan, in Kyrgyzstan, Kazakhstan, Emirati Arabi Uniti, Russia, Stati Uniti e Regno Unito. Sembra però che questa enfatizzazione da parte del governo del pericolo estremista (in realtà marginale in termini di coinvolgimento della popolazione) non serva a distendere gli animi e a migliorare la percezione dei Musulmani circa l’atteggiamento di Pechino verso la volontà di dialogo e comprensione delle istanze uyghure. Anzi!
Il divieto delle normali attività islamiche
Da parte sua, la Turchia, che ha stretti rapporti culturali con gli Uyghuri, aveva espresso “profonda preoccupazione” per le limitazioni imposte alle minoranze musulmane uyghure nell’esercizio delle funzioni religiose e nel rispetto dei riti del Ramaḍān e reso noto di aver inviato una nota diplomatica all’Ambasciata cinese ad Ankara, sebbene nella considerazione delle buone relazioni che uniscono le due nazioni. Dopo una protesta diplomatica simile, trasmessa a luglio dello scorso anno, dovuta alla repressione cinese anti-musulmana degli ultimi anni, a Istanbul si erano verificati disordini e qualche prepotenza nei confronti di alcuni componenti della comunità cinese.
Quest’anno nello Xīnjiāng il governo ha vietato ai Musulmani uyghuri, soprattutto funzionari pubblici e di partito, insegnanti e studenti, di digiunare per il Ramaḍān, spesso forzandoli ad alimentarsi nelle ore in cui vige il divieto rituale e minacciandoli di ritorsioni nella loro carriera. Del resto, è lunga la lista degli atteggiamenti che sono sempre messi al bando nella regione, nonostante nel recente libro bianco “La libertà di credo religioso nello Xīnjiāng” il governo si sforzi di dimostrare “una libertà religiosa senza precedenti” e che “nessun cittadino dello Xīnjiāng è stato punito a causa del suo legittimo credo religioso”, dove, ovviamente, il discrimine è proprio il termine “legittimo”. “La Cina sostiene il principio di indipendenza e di autogestione degli organismi religiosi e delle organizzazioni straniere e gli individui non devono interferire”, recita il libro bianco. E ancora: “Le normali attività religiose nello Xīnjiāng sono protette dalla legge, le organizzazioni religiose sono responsabili del coordinamento degli affari religiosi interni e il governo non dovrebbe interferire”. E specifica: “La Cina vieta a qualsiasi organizzazione o individuo di dividere il Paese, diffondere idee religiose estremiste, incitare all’odio etnico, minare l’unità nazionale, disturbare l’ordine sociale o compromettere la salute fisica e psichica dei cittadini in nome della religione”. Questa affermazione si intende a salvaguardia della proclamazione del 2016 come “Anno dell’Unità Etnica e del Progresso”.
Intanto nella Provincia Autonoma sono vietate come attività “anti-statali” o comportamenti radicali, azioni quali ad esempio:
- l’adhān (la chiamata alla preghiera);
- l’ingresso in moschea ai giovani con età inferiore ai 18 anni;
- l’uso in pubblico di barbe lunghe, ḥijāb e, a maggior ragione, del burqaʿ. Proprio a seguito di proteste contro questi divieti la polizia nel 2014 ha aperto il fuoco contro dimostranti uyghuri;
- ogni forma di proselitismo fuori dalle zone con popolazione a maggioranza musulmana;
- le restrizioni alimentari, come il consumo di alimenti ḥalāl (cioè leciti dal punto vista islamico), perché promotrici di “segregazione religiosa”;
- la chiusura diurna dei ristoranti nel periodo del Ramaḍān;
- la proibizione di bere alcolici e di fumare.
Tuttavia, non mancano i segnali di distensione, specialmente nei confronti del Pakistan. Per esempio, il 27 luglio a Pechino il Primo Ministro del Punjab Muḥammad Shehbaz Sharīf ha firmato con le imprese cinesi 7 accordi e 17 protocolli d’intesa nei settori dell’energia, del tessile, del trattamento delle acque, dell’acciaio, della creazione di zone industriali, della formazione e della promozione di fiere e mostre. Sempre a luglio al Pak-China Friendship Center di Islāmābād è stata inaugurata la mostra fotografica “I Musulmani cinesi sulla Via della Seta”, sponsorizzata dal governo cinese nel 65° anniversario delle relazioni diplomatiche sino-pakistane. Secondo quanto riporta il canale televisivo cinese CCTV, uno degli artisti fotografi, Bai Xueyi, che ha documentato cultura, pratiche e mezzi di sostentamento dei Musulmani cinesi lungo la Via della Seta, considera che “dopo la riforma economica e l’apertura, i Musulmani cinesi […] e del gruppo di minoranza Huí e di altre minoranze etniche hanno ottenuto una vita migliore”.
Il giudizio riguarda soprattutto la comunità Huí, oltre 10 milioni di sinofoni etnicamente simili ai predominanti Hàn, ma Musulmani Sunniti, con forti influenze delle confraternite sufi centro-asiatiche (Kubrāwiyya, Qādiriyya, Naqshbandiyya) di scuola ḥanafita. Sono discendenti dei Musulmani migrati in Cina durante il regno della Dinastia mongola Yuan (1271-1368). Ed è proprio la loro condizione uno dei problemi. Perché non a tutte le dieci “nazionalità” musulmane cinesi è consentita quella libertà di espressione e di sviluppo consentita ai Huí, forse in ragione di una discriminazione etnica o forse di una maggiore accondiscendenza rispetto alle direttive governative e di partito.
Sia come sia, è proprio nello Xīnjiāng che negli ultimi venti anni il governo ha favorito l’immigrazione degli Hàn, sinofoni indigeni seguaci di religioni tradizionali cinesi o atei, che hanno usufruito delle opportunità offerte in zona nel campo dell’industria energetica o delle costruzioni. Molti analisti pensano (ed è la stessa percezione degli Uyghuri) che questa immigrazione indotta sia stata programmata per edulcorare l’identità etnica e religiosa nella Provincia Autonoma, specialmente nei maggiori centri urbani. Quel che è certo è che la tensione tra etnie è salita, dando origine a violenze cui sono corrisposte restrizioni delle libertà religiose.
La Via della Seta come elemento di sviluppo
Certo, non mancano neanche le contraddizioni. Se nel 1955, in piena era atea e marxista-maoista, il Ministro egiziano delle Dotazioni Religiose poteva celebrare ‘Īd al-fiṭr (la festa per la fine del Ramaḍān) a Ürümqi, con il beneplacito e il favore del Ministero degli Esteri cinese, al giorno d’oggi è proprio lo Xīnjiāng a subire una sorta di ostracismo da parte del governo aperturista del capitalismo di Stato e delle libertà religiose garantite (almeno formalmente) dalla Costituzione; invece, il governo accorda il proprio favore ai Huí musulmani di Níngxià, la Regione Autonoma nord-occidentale nel bacino del Fiume Giallo. Una sorta di avallo ad un Islam alternativo, domestico e ammansito, cui si rivolgono le attenzioni di Pechino per accreditarsi presso le aree islamiche esterne alla Cina. E anche notevoli investimenti, con un impegno di 3,5 miliardi di dollari in soli quattro anni per rendere Yínchuān, la capitale della Regione Autonoma, una “destinazione del turismo culturale” e “Città Musulmana mondiale”, con i nomi delle strade in Cinese tradotte e traslitterate in Arabo. Tra le ultime realizzazioni, il Centro Congressi che ha ospitato l’Expo Cina-Stati Arabi e il nuovo terminal dell’Aeroporto Internazionale Hédōng, nato per convogliare turisti dal Medio Oriente, dal mondo arabo e da quello asiatico islamico, con cui Pechino intende colloquiare culturalmente e commercialmente sull’onda dell’iniziativa “One Belt, One Road” per la rivitalizzazione della Via della Seta: per esempio, dopo l’inaugurazione a maggio dei servizi aerei da parte di Emirates Airlines, nuove rotte collegheranno Yínchuān con la Giordania e la Malaysia.
Il monumentale Parco Culturale Huí, “ponte culturale sino-arabo”, ne è l’esempio manifesto, con un “Golden Palace” a forma di moschea, opere architettoniche ispirate alla Moschea Blu di Istanbul e al Tāj Mahal di Āgra e manifestazioni artistiche in costume che richiamano “Le Mille e Una Notte”.
Dunque, la Via della Seta come elemento di sviluppo anche per le comunità musulmane più isolate e un’opportunità anche per lo Xīnjiāng, il quale finora era rimasto escluso dalle reti ferroviarie che collegano tra di loro le maggiori aree urbane musulmane centro-asiatiche. Dal 2014 è operativa la linea ferroviaria ad alta velocità Lánzhōu-Xīnjiāng, in cui, secondo la Commissione Nazionale di Sviluppo e Riforma della Cina (la Commissione statale competente per la pianificazione), quest’ultima Regione Autonoma dovrebbe giocare un ruolo cruciale per l’apertura commerciale e della mobilità verso l’esterno della Cina. E la prevista autostrada Ürümqi-Tadzhikistan dovrebbe rafforzare questa necessità, e assieme dichiarata volontà politica, di connessione territoriale con l’Asia Centrale. Sempre che, sembra ovvio, si liberalizzi la condizione giuridica e amministrativa per la circolazione di uomini e merci. Tanto più che, in termini di dipendenza dal commercio estero, lo Xīnjiāng (come d’altra parte il Níngxià) evidenzia percentuali che si collocano a meno del 10%, a fronte di un dato nazionale attorno al 45%.
L’Istituto di Scienza delle Finanze Chóngyáng, il think-tank fondato nel 2013 dall’Università Renmin e dal fondo azionario privato Chóngyáng Investment di Shànghǎi, nel 2014 collocava Xīnjiāng e Níngxià tra le aree che usufruiscono del primo tipo di strategia (il più importante) della “Cintura Economica della Via della Seta”: le province che sono funzionali al disegno complessivo di apertura verso l’esterno e che sono dotate di piani e programmi locali connessi a questo disegno. Ancora, il Corridoio Economico Sino-Pakistano varato nel 2015, cioè l’insieme di investimenti infrastrutturali per 46 miliardi di dollari finalizzati a integrare le reti materiali e di scambio tra i due Paesi, dovrebbe confermare questa tendenza, visto che il programma rientra nel 13° Piano quinquennale cinese 2016-2020 ed è già in corso di attuazione. Anche il Primo Ministro pakistano Nawaz Sharīf, intervenendo il 29 agosto scorso a Islāmābād alla sessione inaugurale di un vertice sul Corridoio, ha detto che il progetto “farà la differenza” per il futuro del Pakistan, considerata l’importanza della connessione infrastrutturale che metterà in comunicazione il porto meridionale di Gwadar, sul Mare Arabico del Beluchistan, con lo Xīnjiāng (vedi schema sotto).
La Cina sembra ad un bivio decisivo. Mentre il mondo guarda principalmente alle sue oscillanti performances economiche in funzione di opportunità affaristiche e di profitto, i Cinesi, soprattutto le minoranze etniche e religiose, cercano di capire e di interpretare le intenzioni del governo, formalmente comunista e avviato verso un iper-capitalismo. Naturalmente, con la disattenzione della stampa mondiale, tutta concentrata sui vantaggi che i mercanti e i mercati globali possono trarre. Se a questo duplice standard di Pechino, uno repressivo in politica interna l’altro neo-mercantilista in politica estera, non corrisponderà l’accoglimento delle istanze di libera espressione delle idee e delle identità etniche e religiose, non credo che la Cina possa rimanere immune dalla tensioni e dalle angosce che affliggono molti Paesi del mondo.
Esattamente come in Occidente quando qualche amministrazione o ambiente politico radicalizzato dà spazio alla mistica dell’intolleranza laicista!