PATRIMONIO ARCHITETTONICO E SITI STORICI SIMBOLICI: CONSEGUENZE NEGATIVE DEI CONFLITTI E VIOLAZIONI DELLE NORME INTERNAZIONALI
di Glauco D’Agostino
Questo articolo è stato per primo pubblicato in Inglese da “Geopolitica. Revistă de Geografie Politică, Geopolitică şi Geostrategie”, Anul XIII, nr. 62 (4 / 2015) “Target: EUROPE”, Editura “Top Form”, Asociaţia de Geopolitica Ion Conea, Bucureşti, 2015.
Sommario. Al di là di una scontata riprovazione per le guerre e i suoi effetti negativi, c’è una sorta di inerzia nel riconoscere il patrimonio artistico e i luoghi storici simbolici come strumenti di concordia tra i popoli, proprio all’insegna del potere di affinamento della sensibilità civica e sociale che l’arte reca con sé indipendentemente dalla civiltà che l’ha espressa. Questa è anche una funzione politica! Per questo la protezione del patrimonio artistico e culturale è un dovere civile anche durante i conflitti, in ragione della sua opera di ricostituzione del senso di comunità anche in presenza di sensazione di confusione e sradicamento.
I danni causati ad un complesso architettonico o ad un sito archeologico sono di natura molto differenziata e possono essere non soltanto fisici o strutturali. In generale si possono classificare secondo il seguente schema: danni materiali; altri danni (senza peraltro escludere conseguenti danni materiali); danni morali.
Sono evidenti gli abusi commessi dai belligeranti sul patrimonio storico, artistico e architettonico, il che comporta non soltanto una mancanza di sensibilità nei confronti del comune sentimento delle popolazioni colpite e del valore della testimonianza storica, ma anche una violazione del diritto internazionale secondo gli accordi e i trattati che regolano le leggi e i crimini di guerra.
Il problema è di sensibilità culturale e di adesione da parte delle istituzioni sovrane ad un modello di comportamento etico, che esige anche in guerra il rispetto per il nemico e soprattutto per l’eredità storica delle sue incolpevoli popolazioni. Ma purtroppo lo Stato difficilmente è etico!
Rilevanza storica, simbolica e / o identitaria dell’architettura
La recente distruzione dell’Arco di Trionfo a Palmyra (foto 1 dell’autore, in apertura) del 5 ottobre scorso ha scosso le coscienze del mondo intero per l’importanza archeologica rivestita dal capolavoro di architettura civile di epoca romana e ha sollevato l’irrisolta questione della conservazione e protezione delle opere d’arte durante eventi bellici o sollevazioni di carattere politico. Ed è vero anche che il prezioso Arco eretto dall’Imperatore Settimio Severo durante il suo regno tra il 193 e il 211 d.C. non è stata la sola perdita a Palmyra, perché il 24 giugno precedente due santuari (quelli cinquecenteschi dei religiosi autoctoni Abū Baha ed-Dīn e Shaykh Moḥammed ‘Alī, un discendente di ‘Alī ibn Abū Ṭālib) erano saltati in aria e il 30 agosto la stessa sorte era toccata al Tempio di Baal (foto 2 dell’autore, a lato), fondato nel 32 d.C.
La citazione di questi riprovevoli episodi serve ad introdurre il tema degli effetti negativi dei conflitti sul patrimonio architettonico (purtroppo frequentissimi anche nella storia recente), delle diversificate caratteristiche e motivazioni che determinano questi effetti distruttivi, da quelli intenzionali ai cosiddetti “danni collaterali”, fino ad identificare i significati storici, simbolici e/o identitari dell’architettura come fenomeno espressivo anche “politico”.
Aldo Rossi, il noto architetto italiano Premio Pritzker, ha scritto nel suo libro L’Architettura della Città: “La città stessa è la memoria collettiva della sua gente e come la memoria è associata a oggetti e luoghi”. Dunque, manifestazione plastica di un sentimento comune e, come tale, volta alla costruzione di un’identità e di una comune azione politica e civile della società. “Prodotto materiale della politica”, dice Eyal Weizman, Direttore israeliano del Centro di Ricerca Architettonica alla Goldsmiths dell’Università di Londra. Ogni qualvolta si determinano le condizioni per cui un’entità interna o esterna mette in discussione quel sentimento o quella costruzione ideale e materiale o ancora quel significato storico, allora l’architettura come simbolo identitario e politico è a rischio distruzione o danneggiamento volontario, quasi sempre dissimulato nelle sue intenzioni devastatrici. Alcune giustificazioni retoriche sui “danni collaterali” spesso rientrano in questa categoria.
Molte volte l’architettura è utilizzata dai governi come rappresentazione del potere attuale o come emblema di un passato storico cui si richiama. Le crisi politiche susseguenti alla caduta di un potere istituzionale possono suscitare nelle popolazioni o in alcuni suoi gruppi un desiderio di vendetta che si esprime contro il patrimonio artistico, spesso prima strumentalizzato e ora interpretato come metafora di quel potere. Allo stesso modo, la furia devastatrice di uno Stato o coalizione internazionale contro una sua controparte durante una guerra qualche volta non fa distinzione tra obiettivi militari e siti di interesse artistico (per non citare gli altri obiettivi civili), proprio per la volontà (dissimulata) di colpire l’immagine di una nazione, dimostrarne la sua intrinseca debolezza ed affermare la propria superiorità. Robert Bevan, giornalista e consulente per il patrimonio, nel suo libro La Distruzione della Memoria: L’Architettura in Guerra, parla di “genocidio culturale”, proponendolo, in definitiva, come crimine punibile dal diritto internazionale.
Viceversa, al di là di una scontata riprovazione per le guerre e i suoi effetti negativi, c’è una sorta di inerzia nel riconoscere il patrimonio artistico e i luoghi storici simbolici come strumenti di concordia tra i popoli, proprio all’insegna del potere di affinamento della sensibilità civica e sociale che l’arte reca con sé indipendentemente dalla civiltà che l’ha espressa. Questa è anche una funzione politica! Per questo la protezione del patrimonio artistico e culturale è un dovere civile anche durante i conflitti, in ragione della sua opera di ricostituzione del senso di comunità anche in presenza di sensazione di confusione e sradicamento.
Classificazione dei danni alle cose e delle cause dei conflitti da cui derivano
I danni causati ad un complesso architettonico o ad un sito archeologico sono di natura molto differenziata e possono essere non soltanto fisici o strutturali. In generale si possono classificare secondo il seguente schema: Danni materiali
- distruzione o grave flessione delle caratteristiche strutturali e decorative;
- deterioramento degli spazi urbani, rurali o ambientali (come nel caso di estesi bombardamenti su città o sue significative parti);
- archivi deliberatamente cancellati come parte di una politica di pulizia etnica.
Altri danni (senza peraltro escludere conseguenti danni materiali)
- saccheggi;
- occupazione o operazioni militari all’interno o intorno ad un complesso (specialmente siti archeologici o antiche città);
- rendere inaccessibili zone o edifici;
- costruzione di muri e recinzioni;
- confische.
Danni morali
- imposizione di stili architettonici e ridenominazione di luoghi abitati o siti storici in insediamenti occupati;
- sovrapposizione di una trama spaziale e storica estranea (atto pianificato di sradicamento di una reminiscenza culturale, attraverso re-interpretazione e ri-appropriazione dello spazio, del paesaggio e dei luoghi della memoria).
Ancora, le cause che scatenano i conflitti portatori dei danni suddetti possono essere determinate dai seguenti eventi:
Crisi internazionali:
- guerra tra nazioni o coalizioni (per esempio, Guerre d’Indocina, Guerra Cipro-Turchia, Guerra Iraq-Iran, Guerra Iraq-Kuwait, Operazione Desert Storm, bombardamento NATO della Serbia, Guerra Israele-Gaza);
- guerre d’indipendenza (vedi in Croazia e Bosnia ed Erzegovina)
- occupazione e colonizzazione di territori (vedi in Tibet, Libano, Nagorno-Karabakh, Eritrea, Iraq, Cisgiordania).
Fattori interni:
- implosione di uno Stato (vedi Vietnam, Unione Sovietica, Yugoslavia, Afghanistan, Libia);
- tentativi di secessione (vedi Biafra in Nigeria, Beluchistan in Pakistan, Cirenaica in Libia);
- pulizia etnica e religiosa (vedi villaggi arabi in Israele, monasteri tibetani dopo l’occupazione cinese, moschee e chiese nei Balcani, città abitate da Azeri nella Repubblica del Nagorno-Karabakh, kuffār e popolazione non Islamica nello Stato Islamico);
- insurrezioni e rivolte politiche (vedi guerre civili in Liberia, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Afghanistan e Siria, II Intifāḍa in Palestina, Guerra Esercito-Tālibān nella Valle di Swat in Pakistan);
- espansione immobiliare (vedi sradicamento di antiche tombe a Cirene, in Libia).
Esempi di distruzioni del patrimonio architettonico nel passato antico
Lo sviluppo della tecnologia bellica ha reso oggi molto più facile e perniciosa la capacità di distruzione del patrimonio artistico, cosa che risulta ancora più insopportabile per la sensibilità di esperti del ramo e opinione pubblica, sempre più attenti e reattivi rispetto alla condanna di eventi devastatori. Ma non è che in passato la ridotta portata tecnologica delle armi di distruzione abbia prodotto risultati meno negativi per il patrimonio e per la stessa esistenza degli insediamenti abitativi.
Si ricordano gli annientamenti di alcune gloriose città, mai più ritornate allo splendore della loro potenza nelle vesti di centri di una grande civiltà: per prima la Cartagine punica, che nel 146 a.C. Roma rase al suolo con i suoi templi, il complesso di banchine circolari, i caseggiati multipiano, le mura cittadine, e le cui rovine furono cosparse di sale. E poi l’umiliazione subita dalle città gemelle di Tenōchtitlān e Tlatelolco (foto 3 sopra di Wolfgang Sauber, 09.04.2008, dal murale di Diego Rivera, Città del Messico, Palacio Nacional), che insieme costituivano la capitale dell’Impero Azteco e uno dei più grandi centri urbani del mondo dell’epoca. Il 13 agosto 1521 i Conquistadores la saccheggiarono e subito dopo riempirono i suoi canali e spianarono il suo patrimonio composto da templi, ziggurat e palazzi. Le pietre furono utilizzate per la costruzione dell’attuale Cattedrale cattolica di Santiago Tlatelolco, proprio sul sito di una grande piramide azteca. Con grande senso simbolico e rievocativo, nel 1967 proprio il Trattato di Tlatelolco ha bandito le armi nucleari da tutta l’America Latina. E ugualmente disonorevole per la ferocia delle distruzioni fu la conquista di Dehlī (la Città Vecchia nella foto 4 a lato dell’autore) il 21 settembre 1857 da parte dei Britannici, paragonabile per effetti allo sfacelo che si sarebbe prodotto a Dresda nel 1945 (foto 5 sotto dalla Deutsche Fotothek): le forze di occupazione piazzarono l’artiglieria sulla spianata della Masjid-i-Jahān-Numā, la principale moschea dell’Impero Mughal, distruggendo i dintorni entro il raggio d’azione dei cannoni, compreso un incommensurabile patrimonio architettonico, culturale, artistico, letterario e di oggettistica.
Questi sono alcuni dei più rilevanti episodi di devastazione urbana verificatisi nella storia. Ma, ovviamente, numerosissimi sono gli eventi bellici del passato che hanno cancellato importantissime testimonianze architettoniche, da interi complessi storici a singoli esempi stilistici di culture diverse. Per esempio, nel 647 a.C. Susa, una delle più importanti città del Vicino Oriente antico, fu spianata dal Re assiro Assurbanipal, che si vantò di “essere entrato nei suoi palazzi, avere aperto i loro tesori, dove erano ammassati argento e oro, beni e ricchezze … distrutto la ziggurat … ridotto i templi di Elam nel nulla; ho sparsi ai quattro venti i loro dei e dee. Ho devastato le tombe dei loro re antichi e recenti … ho devastato le province di Elam e sulle loro terre ho sparso sale”.
Basti ancora ricordare le distruzioni del Bet HaMikdash (il Santo Tempio a Gerusalemme): la prima nel 587 a.C. da parte dei Babilonesi, la seconda da parte dei Romani il 9 agosto 70 d.C., quando iniziò la diaspora ebraica; o l’inutile presa della Bastiglia a Parigi la mattina del 14 luglio del 1789, solo perché era un simbolo legato alla Monarchia; o i saccheggi compiuti da Napoleone durante le sue campagne e che contribuirono alle fortune del Louvre; o la devastazione di Manila (foto 6 a lato del maggio 1945) durante la brutale battaglia del febbraio-marzo 1945 tra Stati Uniti e Giappone per la sua conquista: il patrimonio religioso, ma anche un’architettura civile risalente alla fondazione della città, furono distrutti (più tardi, un’architettura in stile americano sostituì un ambiente estetico prodotto della confluenza delle culture spagnola, americana e asiatica); per non parlare dei danni fisici e morali provocati da uno dei più grandi stermini della storia, compiuto a Hiroshima e Nagasaki ad agosto del 1945, con la completa eliminazione di interi quartieri delle due città.
Distruzioni del patrimonio architettonico nei recenti grandi conflitti
Guerre d’Indocina (1945-75)
La trentennale guerra che ha sconvolto il Vietnam si è sviluppata nell’ambito di due diversi conflitti: il primo, combattuto dalla Francia contro i suoi nemici Việt Minh tra la costituzione della Repubblica Democratica del Vietnam nel 1945 e il riconoscimento della divisione temporanea del Paese lungo il 17° parallelo nel 1954; il secondo, che ha coinvolto anche Laos e Cambogia, combattuto da Vietnam del Nord e Vietnam del Sud (sostenuti il primo da Việt Cộng, URSS, Cina ed altri alleati comunisti, e il secondo da USA ed altri alleati anti-comunisti) a partire dal 1956, con l’insurrezione Việt Cộng a bassa intensità nel Vietnam del Sud, fino alla caduta di Sài Gòn il 30 aprile 1975, ad opera delle truppe nord-vietnamite e dei Việt Cộng.
Due città-martiri di queste guerre per i danni subiti, entrambe siti storici e artistici di rilevante importanza, sono Vinh, capoluogo della provincia settentrionale Nghệ An, e Huế, l’antica capitale dell’intero Vietnam tra il 1802 e il 1945.
Vinh era conosciuta per la sua antica cittadella, fino alla sua completa distruzione determinata negli anni ’50 dalla Prima Guerra d’Indocina e dai bombardamenti USA durante la Seconda. Huế (a lato, la Cittadella Imperiale nella foto 7 dell’autore) è stata ridotta in macerie il 31 gennaio 1968 dai bombardamenti americani in risposta alla cattura della città da parte dei comunisti durante l’offensiva del Tết e nell’ambito dell’Operation Rolling Thunder iniziata nel 1965. Ma sono anche da ricordare gli ingenti danni provocati nel 1972 alla capitale Hà Nội e a Hải Phòng, il più grande porto del Vietnam del nord, durante l’Operation Linebacker II.
Guerra Iraq-Iran (1980-88)
Iniziata quando l’Iraq invase la Repubblica Islamica dell’Iran, la guerra ha prodotto danni soprattutto al patrimonio artistico della Provincia iraniana del Khūzestān, considerata la “culla della Nazione”, visto che la sua città Susa fu la capitale elamita, una delle 4 capitali dell’Impero Persiano achemenide e una delle due capitali dell’Impero dei Parti. Molte città sono state quasi completamente distrutte dagli invasori dell’esercito iracheno, come Khorramshahr, il più importante porto iraniano prima della guerra. Alcune altre hanno subito il bombardamento di siti culturali e storici, come Susa (foto 8 a lato) e Ābādān.
Guerra Iraq-Kuwait (1990-91) e Operazione Desert Storm (1991)
L’occupazione e annessione iraqena del Kuwait ha danneggiato il Museo Nazionale di Kuwait City, che è stato depredato della collezione d’arte di islamica forte di 30.000 pezzi. Ma la conseguente Operazione Desert Stormnel gennaio-febbraio del 1991, messa in atto contro l’Iraq da una coalizione di 34 nazioni guidata dagli Stati Uniti, ha provocato danni maggiori al patrimonio storico-artistico iraqeno.
Tell al-Lahm, il moderno sito di Kuara, il porto sumero sul Golfo fondato nel 25° secolo a.C., è stato parzialmente raso al suolo dalle truppe USA per l’installazione di postazioni di tiro.
Il Grande Ziggurat neo-sumero dell’antica città-stato di Ur (foto 9 a lato di Hardnfast, 20 settembre 2005), nei pressi della moderna Nāşirīya, è ben noto. L’enorme edificio, risalente al 21° secolo a.C. e già decaduto 15 secoli più tardi, nel 1991 è stato bersaglio di colpi di piccole armi da fuoco, che hanno danneggiato la sua muratura. Inoltre, un attacco ad una vicina base aerea iraqena ha provocato quattro grandi crateri proprio vicino alla torre dello ziggurat e centinaia di fori in uno dei suoi muri ricostruiti.
Il sito archeologico di Ctesifonte, la capitale degli Imperi dei Parti e Sasanide, ha subito attacchi aerei su un vicino deposito di armi, che ha causato serie fessurazioni al Ṭāq-e Kesrā del 4° secolo d.C. (l’īwān dello Shāhanshāh sasanide Cosroe I, nella foto 10 a lato), la più grande volta del mondo a campata unica in muratura non rinforzata. Il suo restauro è cominciato nel 2013 in collaborazione con l’Università di Chicago.
L’implosione della Iugoslavia: il seguito (1991-2002)
Il progressivo sfaldamento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia iniziò quando Croazia, Slovenia e Macedonia dichiararono l’indipendenza nel 1991, seguite da Bosnia ed Erzegovina nel 1992. I conseguenti conflitti tra Armata Popolare Jugoslava e indipendentisti, che sono generalmente trattati come guerre separate seppure connesse dalle stesse motivazioni, hanno riguardato soprattutto Croazia e Bosnia ed Erzegovina, per cui si distingue tra Guerra di Croazia, combattuta tra il 1991 e il 1995, e Guerra di Bosnia ed Erzegovina tra il 1992 e la sottoscrizione dell’Accordo Generale Quadro per la Pace in Bosnia ed Erzegovina il 14 dicembre 1995. Ma parte dello stesso scenario separatista è anche la Guerra di Kosovo, che è durata 17 mesi tra il 1998 e l’istituzione nel 1999 della Missione di Amministrazione Provvisoria delle Nazioni Unite in Kosovo e fu combattuta dalla Repubblica Federale di Yugoslavia contro l’Esercito di Liberazione del Kosovo (sostenuto dall’Esercito albanese e dalla NATO dal marzo 1999).
In Croazia i siti danneggiati più importanti sono stati i siti Patrimonio dell’Umanità di Dubrovnik, Spalato e Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice nel 1991 e 1992: tra di loro, l’antica città fortificata di Dubrovnik è stata sottoposta a bombardamenti, con il 56% dei suoi edifici civili e religiosi danneggiato in qualche misura e 9 edifici completamente distrutti. Anche la città di Vukovar ha subito ingenti danni del suo patrimonio architettonico (edifici barocchi, il convento francescano, la Eltz Manor del XVIII secolo, la torre idrica) e un serio deterioramento dei suoi spazi urbani.
In Bosnia ed Erzegovina i maggiori danni al patrimonio architettonico hanno riguardato soprattutto gli edifici storici e religiosi, e tra questi circa 1.500 moschee furono abbattute con la dinamite e rase al suolo. Nella Craina bosniaca, Banja Luka, la più grande città dell’autoproclamata (nel 1992) Republika Srpska, tutte le sue 16 moschee sono state distrutte, incluse le cinquecentesche moschee ottomane Ferhat-pašina (attualmente in ricostruzione, come da foto 11 a lato di Zlatno krilo, 2 gennaio 2014), il maggior simbolo per tutti i suoi abitanti, e la vicina Arnaudija.
L’assedio nel 1992-95 della città multi-etnica di Sarajevo, con le sue 80.000 granate esplose, ha colpito duramente la sua ricca mescolanza di culture e architetture, perché ha cercato di minare la secolare pacifica coesistenza di Musulmani, Serbi turchi, Croati ed Ebrei e perché ha severamente danneggiato la sua struttura fisica, specialmente i suoi quartieri più interessanti, come quello antico Orientale e quello in stile viennese Art Nouveau. Assieme ai suoi edifici pubblici e moschee del XV secolo e agli impianti olimpici, vogliamo ricordare due pregevoli istituzioni della Stari Grad (la Città Vecchia) che sono stati presi di mira e quasi completamente distrutti per primi, in ragione del loro valore simbolico per la città: l’Istituto di Studi Orientali, che conteneva la maggior parte dei documenti storici e letterari bosniaci, e l’austro-ungarica eclettica, prevalentemente pseudo-moresca Vijećnica, che ospitava la Biblioteca Nazionale e Universitaria di Bosnia ed Erzegovina ed è oggi monumento nazionale (foto 12 sopra dell’autore).
Un’altra città che, come Sarajevo, ha visto danneggiato l’intero sistema urbano è Mostar, l’insediamento urbano più distrutto durante la guerra e il cui nome deriva dal termine serbo-croato “most” (il ponte). E proprio un suo ponte è rimasto nella memoria di tutti come paradigma di una guerra feroce e insensata: il cinquecentesco ottomano Stari Most in pietra, progettato nel 1566 da Mi’mâr Hajruddin (un allievo dell’architetto imperiale turco Mi’mâr Sinân Âğâ), distrutto il 9 Novembre del 1993 e poi ricostruito nel 2004 (foto 13 a lato di Alistair Young, 27 agosto 2008).
Anche Belgrado è stata bombardata da attacchi aerei della NATO nell’ambito dell’Operazione Noble Anvil, attivata nel 1999 tra marzo e giugno senza alcuna approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: tra i più imbarazzanti obiettivi bombardati, ci fu anche l’Ambasciata cinese. In aprile e maggio Via Kneza Miloša nel suo insieme, un’arteria principale del centro con caratteristiche paesaggistiche e architettoniche, fu bombardata parecchie volte, causando la distruzione di molti edifici istituzionali e il danneggiamento di molti altri di interesse artistico. Infatti, tutti gli edifici di questa strada presentano notevoli qualità architettoniche e stilistiche in ragione degli ornamenti delle loro facciate, le decorazioni dei loro interni e le sculture, i dipinti e gli oggetti d’arte che custodiscono.
II Intifāḍa Palestinese (2000-05) e Guerra Israele-Gaza (2014)
La Seconda Intifāḍa Palestinese e la Guerra Israele-Gazaaffondano le radici nelle conseguenze della costituzione dello Stato Ebraico a Tel Aviv il 14 maggio 1948 (il 5 del mese di Iyyar del 5708 del calendario ebraico) e nei continui conflitti tra Israeliani e Palestinesi che da allora ne sono derivati. Poi, il 15 novembre 1988 la proclamazione dello Stato in fieri di Palestina, con capitale Gerusalemme est, e il 4 maggio 1994 l’insediamento dell’Autorità Nazionale Palestinese come entità istituzionale autonoma.
Conosciuta anche come Intifāḍa di al-Aqṣā, la Seconda Intifāḍa iniziò nel settembre 2000, quando Ariʼēl Sharōn, futuro 11° Primo Ministro di Israele, li sfidò (secondo l’impressione palestinese) visitando il Monte del Tempio. La guerra Israele-Gaza del 2014 è stata un’operazione militare chiamata Operazione Margine di Protezione, lanciata da Israele l’8 di luglio fino al 26 agosto 2014 contro la Striscia di Gaza governata da Ḥamās.
Durante la Seconda Intifāḍa Israele ha distrutto o danneggiato molti siti storici, culturali e religiosi palestinesi nei territori occupati. Ḥebron, la città vecchia di Betlemme e la sua Chiesa della Natività hanno sofferto danni irreparabili. La città vecchia di Nāblus, che vanta tra il suo patrimonio moschee, chiese, mausolei, caravanserragli, bagni pubblici e case storiche, ha avuto la maggior parte dei danni architettonici, in quanto include beni risalenti alle ere romana, bizantina, crociata, mamelucca e ottomana. Tra aprile 2002 e marzo 2003 le forze militari israeliane lanciarono offensive aeree e terrestri contro Nāblus. Molti siti sono stati distrutti, come ad esempio: Masjid al-Khadra, la più antica moschea della città; la Chiesa greco-ortodossa di San Demetrio, del XVII secolo; il Khan al-Wakalat; e anche l’Ḥammām al-Jadīdeh, la scuola preparatoria femminile al-Fāṭimiyeh, le fabbriche di sapone Kanaan an-Nabulsi e i complessi residenziali Shuby e Hosh Freitekh, entrambi costruiti in epoca ottomana.
A partire dal 2001, quando il “Movimento Pubblico per la Barriera di Sicurezza” blandì il governo per la costruzione di una barriera di separazione dei territori palestinesi da Israele (a Gerusalemme est nella foto 14 a lato), la Cisgiordania ha subito un deterioramento degli spazi urbani, come pure l’impatto delle politiche di colonizzazione e di pulizia etnica e religiosa. Così si esprime Sherin Sahouri, Direttore del Dipartimento di Manutenzione e Restauro presso il Dipartimento delle Antichità e dei Beni Culturali a Rāmallāh: “Un’altra grave minaccia per il patrimonio palestinese è il muro di separazione costruito da Israele nel territorio palestinese occupato, compreso quello all’interno e intorno a Gerusalemme. Si tratta di un enorme sistema di muri di cemento, filo spinato, trincee e recinzioni, che taglia la Cisgiordania e Gaza e che separa la gente dalla propria terra e dalla propria storia. I grandi impatti del muro sulla vita quotidiana palestinese non sono solo economici e sociali, ma comportano pure un impatto distruttivo su numerosi importanti resti archeologici, siti del patrimonio e paesaggi culturali”.
Durante la guerra Israele-Gaza del 2014, la terza grande offensiva a Gaza dal 2008, insieme con 7.000 case demolite, 89.000 danneggiate e 60.000 senzatetto come risultato, la Striscia di Gaza ha sofferto danni al suo patrimonio architettonico. Tra tutti, la storica Jāmaʿ al-ʿUmarī al-Kabīr (foto 15 a lato), la Grande Moschea in arenaria situata nella città vecchia di Gaza, è stata bombardata dalle forze israeliane il 2 agosto 2014 e quasi completamente distrutta. Il suo portico e il minareto risalgono al periodo mamelucco.
Guerra d’Iraq (2003-11 e 2014-presente)
La Guerra d’Iraq si distingue in tre fasi: l’invasione dell’Iraq di marzo-aprile 2003 ad opera di una coalizione a guida USA sotto il nome in codice Operation Iraqi Freedom; l’occupazione del Paese condotta dagli Stati Uniti fino a dicembre 2011, che è stata contrastata da un’insurrezione; l’Operazione Inherent Resolve, stabilita ancora una volta da una coalizione a guida USA contro lo Stato Islamico nel settembre 2014 e ancora attiva. Prima dell’invasione, le associazioni professionali e i principali studiosi di archeologia, arte e storia avvertirono le autorità statunitensi circa possibili pericoli per il patrimonio culturale iraqeno in caso di guerra, e, soprattutto, qualora fossero state condotte operazioni militari indiscriminate. Alcuni dei risultati sono elencati di seguito.
Il bombardamento di edifici religiosi, un metodo per infiammare le forze armate in conflitto e scoraggiare la popolazione, cominciò subito. L’11 aprile 2003 il Santuario di Abū Ḥanīfa a Baġdād subì danni alla parte superiore di una torre, colpita da un razzo americano. Nella capitale anche la Madrasa in stile persiano Mustanṣarieh del XIV secolo e la Moschea Saray del XVI secolo furono colpite da incendi o da successivi saccheggi. Il 10 novembre 2004 un bombardamento della coalizione distrusse 65 moschee a Fallūja, tra cui la Moschea Khulafāʾ ar-Rāshid.
La città di Sāmarrā è stata particolarmente sconvolta dai danni subiti da due suoi capolavori dell’architettura religiosa iraqena: il minareto a spirale Malwiyya (foto 16 a lato di Mustafa Al Najjar), in stile arabo del IX secolo; e la Moschea sciita al-‘Askarī conil suo Complesso del Santuario, in stile persiano del X secolo.
Al momento della sua edificazione la torre Malwiyya, alta 52 m, faceva parte della più grande moschea del mondo, poi distrutta nel 1278 dai Mongoli. Il minareto e la moschea furono costruite da al-Mutawakkil (il Califfo abbaside regnante dall’847 all’861) nell’851, quando Sāmarrā era già stata designata nuova capitale dell’Impero Abbaside da 15 anni. Da settembre 2004 a marzo 2005 il minareto fu usato dai militari USA come sito di guardia. Il 1° aprile 2005 la cresta del minareto fu colpita dagli insorti, nel tentativo evidente di fermare i cecchini. L’esterno del minareto è stato restaurato nel 1990. La Moschea al-‘Askarī, invece, è una delle più importanti moschee sciite del mondo (dopo Najaf e Kerbala): accoglie le spoglie di ‘Alī al-Hādī e di suo figlio Ḥasan al-‘Askarī, rispettivamente 10° e 11° Imām Sciita Duodecimano, ed è situata accanto al tempio dell’Imām-Māhdī Abū ‘l-Qāsim Hujjat Muḥammad, il 12° Imām in occultamento. Il 22 febbraio 2006 è stata bombardata e gravemente danneggiata e nel 2009 sono stati ricostruiti i minareti e la sua cupola dorata.
Neanche molti dei 12.000 siti archeologici situati nel Paese sono stati risparmiati dalle conseguenze dei conflitti. Danni permanenti si sono avuti per gli antichi siti di Babilonia, Ur e Kish, a causa dell’occupazione illegale da parte delle forze della coalizione e al posizionamento di grandi accampamenti o allo scavo di trincee vicino a questi siti. A Ur sono visibili crateri provocati da bombe nelle zone circostanti e il già citato Grande Ziggurat neo-sumero è stato colpito di nuovo, dopo essere stato bersaglio nell’operazione Desert Storm del 1991.
Imperdonabili impatti su antichi quartieri di valore storico e artistico si sono avuti durante l’assedio da parte delle forze della coalizione. Tra agosto e settembre 2004 il centro della città santa di Najaf (nella foto 17 a lato il Santuario dell’Imām ‘Alī ibn Abū Ṭālib) è stato distrutto durante la Seconda Insurrezione, quando la coalizione a guida USA contrastò la forza paramilitare Jaysh al Māhdī (l’Esercito del Māhdī) del teologo Sayyed Muqtadā aṣ-Ṣadr. Nel novembre successivo attacchi aerei e di terra della stessa coalizione distrussero antichi edifici Tal ʿAfar, Ramādī e Sāmarrā.
Altri pregevoli esempi di architettura civile hanno subito danni di vario tipo: il Palazzo Abbaside del XII secolo, il Qishla ottomano (complesso di caserme), il Museo dell’Iraq e gli Archivi Nazionali dell’Iraq, tutti situati a Baġdād; il Museo di Mōṣul, saccheggiato dal furto di centinaia di oggetti preziosi, come i manufatti assiri di Balawat, Ninive e Nimrud.
Già prima della sua proclamazione il 29 giugno 2014, il processo di formazione dello Stato Islamico aveva condotto ad alcuni atti esecrabili persino contro obiettivi di devozione islamica anche in Iraq, perché ritenuti eterodossi rispetto alla sua concezione dell’Islam. Proprio dentro e intorno a Mōṣul ha distrutto o danneggiato 30 santuari e 15 moschee e hosseiniyeh (sale per le cerimonie rituali sciite). Tra questi, le tombe di Giona (nella foto 18 a lato) e di Daniele, santuari di due profeti venerati sia dai Cristiani sia dai Musulmani, sono state fatte saltare in aria il 24 luglio 2014 “davanti a un grande raduno di persone”, secondo un testimone oculare.
Resoconto di danni al patrimonio architettonico in altri conflitti
Occupazioni e / o colonizzazioni
A parte le suddette forme di occupazione e colonizzazione (nell’ex Jugoslavia, Israele e Iraq), altre azioni dello stesso tipo devono essere ricordate.
Dopo l’occupazione cinese nel 1950, tra il 1959 e il 1961 il Tibet ha sofferto la distruzione di gran parte dei suoi 6.000 monasteri (nella foto 19 a lato il monastero di Ganden nel 1985). Durante la “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”, che è durata 10 anni a partire dal 1966, è stata lanciata una campagna contro i siti culturali di tutta la Repubblica Popolare Cinese. I monasteri tibetani furono nuovamente colpiti con l’introduzione dell’istruzione secolare e ben pochi sono rimasti integri.
Nel 1974 un colpo di stato finalizzato ad annettere Cipro alla Grecia spinse la Turchia ad occupare la parte settentrionale dell’isola, che nel 1983 dichiarò l’indipendenza come Repubblica Turca di Cipro del Nord. Nel 1984 l’UNESCO dichiarò: “Purtroppo nella zona occupata dall’esercito turco musei e monumenti sono stati saccheggiati o distrutti”. Secondo il Ministero degli Affari Esteri di Cipro (dunque, un rapporto che potrebbe essere prevenuto) l’entità del danno al patrimonio culturale nella parte settentrionale è la seguente: 500 chiese e cappelle greco-ortodosse sono state saccheggiate, vandalizzate o demolite; 133 chiese, cappelle e monasteri sono stati profanati; la sorte di 15.000 quadri è ignota; e 77 chiese sono state trasformate in moschee, 28 sono in uso alle forze militari turche come ospedali o campi e 13 sono utilizzate come granai.
Il 6 giugno 1982 in Libano cominciò la Pace di Galilea, che, al di là del nome rassicurante, indicava l’invasione israeliana del sud del Paese per contrastare le milizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Tra gli effetti negativi, a parte il massacro di settembre dei profughi palestinesi e dei civili sciiti libanesi raccolti nei campi di Sabra e Shatila, nei sobborghi di Beirut, si devono ricordare ingenti danni a Beirut (colpita dall’artiglieria israeliana e bombardata da aerei israeliani per dieci settimane), alle città meridionali di Sidone e Tiro e al sito archeologico di quest’ultima.
Ancora prima del dissolvimento dell’URSS nel 1991, il Movimento Artsakh, operativo da febbraio 1988 nella Provincia Autonoma azerbajdzhana del Nagorno-Karabakh, prevalentemente popolata da Armeni, cercava di collegare la regione all’Armenia sovietica. Il 2 settembre 1991 la Repubblica del Nagorno-Karabakh venne dichiarata con il supporto armeno. Da qui inizia la Guerra del Nagorno-Karabakh, che durò dal 1991 al 1994. L’esercito azero bombardò la capitale Stepanakert dalla storica citta di Şuşa (o Shushi), un’importante roccaforte azera in Karabakh, fino a quando quest’ultima cadde il 9 maggio 1992 e fu saccheggiata e bruciata dagli Armeni. Di conseguenza, il patrimonio azero musulmano di Şuşa cambiò le sue caratteristiche in uno stile iraniano e le case in stile locale presero a modello lo stile armeno, in linea con l’identità originaria della città.
Alla fine della Guerra tra Etiopia ed Eritrea del 1998-2000 per la sovranità di un territorio conteso lungo il loro confine comune, l’Etiopia occupò circa un quarto dell’Eritrea nella sua parte meridionale e occidentale, distruggendo molti luoghi del suo patrimonio culturale (ad esempio, alberi di sicomoro, sacri per la gente come elementi simbolici, cimiteri alcuni patriottici) e alcune delle sue importanti infrastrutture. Tra le molte città e villaggi che hanno subìto danni, la città-mercato di Senafe è stata distrutta sotto occupazione militare. Il vicino sito archeologico di Metera, testimone della civiltà pre-axumita, contiene la stele Hawulti (foto 20 a lato), il più antico esempio dell’antico alfabeto etiopico risalente alla metà del primo millennio a.C., che è stato volutamente abbattuto da esplosivo collocato da truppe etiopi.
Guerre civili in Africa
Sin dal 1960 i Paesi africani hanno sopportato molti disordini politici interni. Se ne ricordano alcuni per I loro effetti nefasti sul patrimonio artistico.
A seguito del processo di decolonizzazione della Nigeria tra il 1960 e il 1963, il popolo Igbo del sud-est, uno dei più grandi gruppi etnici africani, si separò dalla Nigeria, proclamando il 30 maggio 1967 la Repubblica del Biafra, che è esistita fino al 1970. Tra i vari effetti sul settore culturale dell’intera Nigeria, particolarmente gravi sono quelli subiti proprio in Biafra. Un esempio significativo è il saccheggio del Museo Oron, situato vicino a Calabar, oggi nello Stato meridionale di Cross River. Il museo conserva centinaia di Ekpu (figure ancestrali, nella foto 21 a lato) di persone Oron, incise dagli abitanti della zona e probabilmente il più antico e raffinato lavoro d’intaglio in legno esistente in Africa. Alla fine della guerra civile, il bilancio dei danni prodotti mostrò che il museo era stato quasi completamente distrutto e svuotato delle sue principali collezioni, tra cui quasi tutti gli intagli Ekpu. I loro resti sono ora ospitati nello stesso rinnovato museo, assieme ad altri manufatti etnografici provenienti da tutta la Nigeria.
La Guerra civile in Sierra Leone del 1991-2002 ha avuto inizio con un tentativo di colpo di stato da parte di un gruppo di nazionalisti e ha visto l’intervento del Fronte Patriottico Nazionale della Liberia e della forza di terra britannica. Nel 1999 molte moschee e chiese sono state rase al suolo.
Nello stesso anno, visti i risultati insufficienti dell’Accordo di Abuja del 1996 che aveva posto fine alla Prima Guerra civile durata sette anni, in Liberia un gruppo appoggiato dalla Guinea insorse contro il governo di Charles McArthur Taylor, dando inizio alla Seconda Guerra Civile. Nella fase finale del conflitto, terminato nel 2003 con le dimissioni di Taylor, sono stati anche coinvolti una Task Force congiunta a guida USA e la Costa d’Avorio, intervenuta con attacchi dal suo territorio. Nell’ultimo anno di guerra 5,000 manufatti del Museo Nazionale di Monrovia sono stati saccheggiati e ora ne restano un centinaio fra quelli più grandi.
Dopo un processo di disarmo che nel 2007 aveva posto fine alla Prima Guerra civile, uno scontro politico in Costa d’Avorio tra il Presidente in carica Laurent Gbagbo, cristiano cattolico, e il Presidente eletto musulmano Alassane Dramane Ouattara causò la Seconda Guerra civile nel marzo-aprile 2011, fino a quando Gbagbo fu catturato con l’assistenza delle truppe francesi. Durante la battaglia di Abidjan il Museo delle Civilizzazioni fu saccheggiato.
Disordini politici in Asia
Dopo il ritiro dell’Unione Sovietica dall’Afghanistan a seguito degli accordi di Ginevra del 14 aprile 1988 e la caduta del regime comunista di Moḥammad Najibullah il 28 giugno 1992, il tadzhiko filo-occidentale Burhānuddīn Rabbānī, leader ufficiale del Partito Jamiat-e Islami Afghanistan, insediò il nuovo Stato Islamico dell’Afghanistan. L’esito non fu condiviso da Gulbuddin Hekmatyar, leader e fondatore di Ḥizb-e Islami, che diede la stura ad una sanguinosa guerra civile tra le parti vincitrici fino alla conquista di Kabul il 27 settembre 1996 da parte del movimento politico-religioso sunnita dei Tālibān.
Durante quel periodo, quando Kabul, Mazār-i Sharīf e Kandahār sono state teatro dei maggiori scontri bellici, è il Museo Nazionale dell’Afghanistan a Kabul che è considerata la più grande perdita artistica. Nel maggio del 1993 il Museo è stato distrutto da bombardamenti che hanno incenerito il relativo contenuto e subito dopo è iniziato un saccheggio, con conseguente furto di più di quattromila oggetti. La stessa sorte è toccata al vicino Istituto di Archeologia. Ma anche in precedenza, a partire da un anno prima, oltre il 70% delle collezioni del Museo Nazionale e la totalità degli oggetti dell’Istituto Archeologico è stata rubata e esportata in altri Paesi.
Dopo l’istituzione ufficiale dell’Emirato Islamico di Afghanistan nel 1997, con il riconoscimento diplomatico di Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, i Tālibān iniziarono una politica di sradicamento di tutte le immagini del passato pre-islamico. In questo periodo il maggiore atto di distruzione riguardante le opere d’arte colpì le due statue giganti di Buddha di Bamiyan (foto 22 a lato), del VII secolo a.C. e scavate nelle circostanti rocce arenarie della città del centro dell’Afghanistan abitata dagli Hazara. Queste figure trascendentali della tradizione buddhista Mahayana si ipotizza rappresentino le raffigurazioni di Vairocana (o Mahāvairocana), l’aspetto universale di Siddhārtha Gautama, il Buddha della Saggezza (Prajñādhika Buddha) e la sua manifestazione storica quale una delle persone della Trinità Śākyamuni (Saggi del clan Śākya). Il 26 febbraio 2001 il Mullāh ‘Omar, Comandante dei Fedeli e leader supremo dei Tālibān, affermò: “questi idoli sono stati gli dei degli infedeli”; poi, ordinò la loro distruzione.
In questo frangente venne evidenziata la debolezza dell’azione dell’UNESCO quando utilizza i canali istituzionali per raggiungere gli scopi di protezione che si prefigge; perché nel caso in questione l’organizzazione dell’ONU, benché al corrente delle intenzioni distruttive, ebbe difficoltà ad allertare la rete diplomatica proprio a causa del mancato riconoscimento dell’Emirato Islamico di Afghanistan da parte della comunità internazionale. Il risultato fu che l’azione non poté essere tempestiva e quindi non riuscì ad impedire la distruzione dei due capolavori.
Anche nel vicino Pakistan la Valle di Swat, che in precedenza era un centro buddhista Vajrayāna (tantrico) con circa 1.400 monasteri, vanta la presenza di stupa e bassorilievi buddhisti, statue di Buddha modellate nell’argilla e sculture rupestri. A novembre 2007 gruppi talebani deobandi sfidarono le Forze Armate pakistane, causando danni al patrimonio artistico in varie parti della Valle. Tra questi: nei pressi di Mangalore fu attaccata la statua gigante intagliata di Buddha; a Jehanabad fu fatto saltare il volto del Buddha Seduto; furono abbattute stupa e statue di epoca Kushan; la stazione climatica collinare di Maalam Jabba è stata distrutta; il Museo di Swat, che contiene collezioni di sculture Gandhāra, è attualmente occupato dall’Esercito del Pakistan.
Ma il Pakistan fronteggia anche tentativi di secessione dal suo territorio. Per esempio, dal 2000 opera l’Esercito di Liberazione del Beluchistan, che nel 2013 a Ziarat attaccò con razzi (quasi abbattendola) la Residenza in cui Muḥammad ‘Alī Jinnah, Qāʾid-e Aʿẓam (il Grande Leader) e Baba-e-Qaum (Padre della Nazione), trascorse i suoi ultimi giorni. Nel 2014 la casa è stata riaperta dopo la ricostruzione.
Un tema attuale: la Guerra Civile Siriana (2011-presente)
Dal 2013 le proteste contro il governo del Presidente Baššar al-Asad hanno portato agli eccessi della Guerra Civile Siriana, con interventi di forze armate internazionali. I risultati sono gli evidenti danni al patrimonio artistico e culturale del Paese. Ecco alcuni esempi dei maggiori danni.
A Damasco la Grande Moschea degli Omayyadi, parzialmente in stile bizantino, commissionata nel 706 d.C. da al-Walīd I ibn ‘Abd al-Malik e all’epoca uno dei più grandi edifici esistenti, è stata colpita da colpi di mortaio nel suo fronte occidentale.
I due castelli di Qal’aat al-Hosn (più noto come Krak dei Cavalieri, roccaforte e sede dei Cavalieri Ospitalieri) e Qal’aat Ṣalāḥ ad-Dīn, fra i castelli militari ancora conservati più importanti del mondo, sono stati presi di mira da assalti. Il primo è stato bombardato a luglio 2012 dall’Esercito siriano, perché i combattenti dell’Esercito Siriano Libero, un gruppo di ufficiali disertori delle Forze Armate siriane con l’obiettivo di abbattere il sistema, si presume utilizzassero il castello. Quest’azione ha danneggiato le sue mura e la storica cappella interna (foto 23 a lato dell’autore). I raid aerei sono continuati nel 2013 e 2014 finché non è stato catturato a marzo dall’Esercito siriano.
Oltre alle distruzioni menzionate all’inizio di questo studio, l’antico sito di Palmyra ha subito un’occupazione militare e danni significativi al suo ricco patrimonio archeologico: sono state danneggiate le caserme romane del campo di Diocleziano; sopra le antiche mura cittadine è stata costruita una fortificazione; nuove strutture difensive sono state erette accanto al Qal’aat ibn Maan, il Castello druso risalente al XIII secolo che si affaccia sul sito archeologico; nel teatro romano sono stati disposti cecchini e all’interno del sito archeologico lanciarazzi e carri armati; dal 2012 nella zona archeologica ci sono stati saccheggi.
A Homs la Moschea Khālid ibn al-Walīd (foto 24 a lato), costruita in stile Rinascimento Nazionale Turco con influenza mamelucca, è stata completamente distrutta nel 2014, mentre a Hama un incendio ha carbonizzato la parte superiore della grande ruota idraulica Noria-Ga’bariyya, uno dei 17 capolavori utilizzati per attingere acqua dal fiume Oronte. Qal’aat al-Mudiq, una cittadella del XII secolo nella stessa provincia, è stata bombardata, con conseguenti danni alle antiche mura del forte.
Ad Aleppo, una delle più antiche città del mondo costantemente popolate e ora vittima dei più intensi combattimenti della guerra civile, da settembre 2012 le battaglie e un incendio conseguente hanno gravemente danneggiato la sua al-Madina aswāq (gli antichi mercati) del XIV secolo, i più grandi mercati storici coperti del mondo, così come i quattrocenteschi Ḥammām Yalbougha an-Nasry e Khan Qurt Bey, la Moschea Khusruwiye della metà del XVI secolo e l’Hotel Carlton Citadel del XIX secolo (entrambi ormai completamente distrutti), il Gran Serraglio, il muro esterno e le porte medievali di ferro della Cittadella e altri edifici medievali della città antica. Nel 2013 anche al-Jāmiʿ al-Kabīr (foto 25 a lato di Preacher lad), la Grande Moschea cominciata nel 715 dal Califfo omayyade al-Walīd I, ha subito danni alle pareti e al cortile e il suo minareto in pietra dell’XI secolo e di 46 m di altezza è stato ridotto in macerie.
Dall’autunno del 2012 Buşrá ash-Shām e il Governatorato meridionale di Da’ara hanno vissuto cannoneggiamenti e bombardamenti. I danni si limitano alla Moschea al-‘Umarī, mentre il Teatro Romano è stato utilizzato da cecchini che da lì sparavano abitualmente.
Nella città orientale di Deir ez-Zor (nella foto 26 a lato la città dopo la battaglia del 26 ottobre 2014) uno storico ponte pedonale sospeso è stato bombardato nel 2013 e demolito nel 2014, mentre il Memorial del Genocidio Armeno è stato distrutto.
Accordi internazionali che tutelano da attacchi il patrimonio religioso e artistico
Alla luce di quanto descritto sopra, sono evidenti gli abusi commessi dai belligeranti sul patrimonio storico, artistico e architettonico, il che comporta non soltanto una mancanza di sensibilità nei confronti del comune sentimento delle popolazioni colpite e del valore della testimonianza storica, ma anche una violazione del diritto internazionale secondo gli accordi e i trattati che regolano le leggi e i crimini di guerra. Di seguito sono citati i principali strumenti normativi internazionali come punti di riferimento per gestire la questione:
- Convenzioni dell’Aja del 1899 e 1907;
- Trattato sulla Protezione delle Istituzioni Artistiche e Scientifiche e dei Monumenti Storici (o Patto Roerich) del 1935;
- Convenzione di Ginevra per la Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra, del 1949;
- Convenzione dell’Aia perla Protezione dei Beni Culturali in Caso di Conflitto Armato, del 1954;
- Raccomandazione dell’UNESCO sui Principi Internazionali Applicabili agli Scavi Archeologici, del 1956.
Il secondo trattato della Convenzione dell’Aja del 1899 “sulle leggi ed usi della guerra terrestre”, nella Sezione II “Delle ostilità” vieta, tra l’altro, “di distruggere o di sequestrare proprietà nemiche, salvochè tali distruzioni e sequestri fossero imperiosamente richiesti dalle necessità della guerra” (art. 23), “di attaccare o bombardare città, villaggi, abitazioni o fabbricati che non siano difesi” (art. 25). E continua: ” Negli assedi e nei bombardamenti si dovranno prendere tutte le misure necessarie al fine di risparmiare, per quanto è possibile, gli edifici dedicati al culto, alle arti, alle scienze e alla beneficenza, gli ospedali e i luoghi di ricovero dei malati e feriti, a condizione che non siano adoperati in pari tempo a uno scopo militare” (art. 27) e vieta “di abbandonare al saccheggio una città od una località anche se presa d’assalto” (art. 28). Inoltre, nella Sezione III “Del potere militare sul territorio dello Stato nemico”, il trattato dice che “L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata, al pari delle convinzioni religiose e dell’esercizio dei culti, devono essere rispettati. La proprietà privata non può essere confiscata” (art. 46), “Il saccheggio è formalmente proibito” (art. 47), “Nessuna pena collettiva, pecuniaria od altra, può essere inflitta alle popolazioni per atti di singoli individui dei quali esse non possano riguardarsi come solidalmente responsabili” (art. 50).
Il quarto trattato della Convenzione dell’Aja del 1907 sostanzialmente conferma e specifica le disposizioni del trattato precedente in materia.
Il Patto Roerich, dal nome del suo promotore russo Nikolaj Konstantinović Rerikh, è stato firmato a Washington, D.C. Anche se ha avuto scarsa applicazione, è importante per il suo ruolo nello sviluppo del diritto internazionale nel creare un processo pianificato per proteggere i beni culturali durante le guerre. Il suo principio fondamentale (non accolto dalle successive normative internazionali) è un’opzione senza limiti per la conservazione dei valori culturali rispetto alle necessità militari.
Infatti, la Parte III “Status e Trattamento delle Persone Protette” della IV Convenzione di Ginevra afferma: “Qualunque distruzione da parte della Potenza Occupante di immobili o proprietà personali appartenenti individualmente o collettivamente a privati, o allo Stato, o ad altre autorità pubbliche, o ad organizzazioni sociali o cooperative, è vietata, a meno che tale distruzione fosse resa assolutamente necessaria dalle operazioni militari” (art. 53), in qualche modo ribadendo quanto già espresso nell’art. 23 secondo trattato della Convenzione dell’Aja del 1899.
La Convenzione dell’Aja del 1954 fornisce un dettagliato quadro di formulazioni normative per la Protezione dei Beni Culturali in Caso di Conflitto Armato, in particolare definendo qualificazione, protezione, salvaguardia e rispetto per i beni culturali, occupazione di tutto o parte di un territorio, immunità dei beni culturali sotto protezione speciale dal sequestro, dalla cattura e dalla presa. Un secondo protocollo della Convenzione dell’Aja è stato adottato a marzo 1999.
La Raccomandazione UNESCO di Nuova Delhi del 1956 sugli Scavi Archeologici, che non è giuridicamente vincolante, nella sua Sezione VI “Escavazioni nei territori occupati” afferma: “In caso di conflitto armato, qualsiasi Stato membro che occupi il territorio di un altro Stato deve astenersi dall’effettuare scavi archeologici nel territorio occupato. Nel caso di ritrovamenti fortuiti, in particolare durante opere militari, la potenza occupante dovrebbe adottare tutte le misure possibili per proteggere questi reperti, che dovrebbero essere consegnati, alla cessazione delle ostilità, alle competenti autorità del territorio precedentemente occupato, insieme con tutta la documentazione relativa” (art. 32).
Un desiderio di speranza
Certamente trattati internazionali ed accordi non bastano da soli ad evitare lo scempio delle opere architettoniche e dei resti archeologici che è perpetrato in tempo di guerra, sia per ragioni di ordine giuridico (precarietà delle norme, problemi di ratifica da parte delle singole nazioni, difficoltà di recepire le disposizioni normative come obbligatorie), sia per ragioni di ordine culturale, vista l’impreparazione delle autorità civili e militari nell’affrontare il tema, spesso ritenuto non prioritario rispetto alle impellenze belliche. Né si può qui affrontare la spinosa questione dell’individuazione delle responsabilità, del deferimento alla Corte Penale Internazionale e dell’applicazione delle sanzioni da questa comminate.
Il problema è di sensibilità culturale, lo abbiamo detto, e di adesione da parte delle istituzioni sovrane ad un modello di comportamento etico, che esige anche in guerra il rispetto per il nemico e soprattutto per l’eredità storica delle sue incolpevoli popolazioni. Ma purtroppo lo Stato difficilmente è etico!
Chiudo con le parole che Paolo Gentiloni, Ministro italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, ha detto nel contesto dell’iniziativa “Proteggere l’eredità culturale, un imperativo per l’umanità”, che ha presentato a New York alle Nazioni Unite lo scorso 27 settembre: “Il patrimonio culturale è un riflesso della storia umana, della civiltà e della coesistenza di molteplici popoli e dei loro stili di vita. La sua protezione è una responsabilità condivisa della comunità internazionale, nell’interesse delle generazioni future”. E Irina Bokova, Direttore Generale dell’UNESCO, ha aggiunto: “La cultura è sulla prima linea del conflitto – dobbiamo metterla al centro della costruzione della pace”.
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