Alla Palestina serve una perestrojka?
di Glauco D’Agostino
Il difficile cammino verso la riconciliazione
L’insediamento in Cisgiordania del nuovo Primo Ministro palestinese Rāmī Ḥamdallāh segnala che gli intenti per porre fine alle divisioni interne non hanno ancora prodotto i frutti sperati. Ḥamās ritiene illegale il nuovo esecutivo e costringe il Presidente Maḥmud ‘Abbās ad ammettere che ”questo doveva essere un governo di unità nazionale, ma non ci siamo riusciti”. Il cammino verso la costruzione del nuovo Stato di Palestina sulle solide basi di obiettivi e percorsi condivisi subisce una battuta d’arresto, ma potrebbe anche rafforzarsi nei prossimi mesi sotto la guida “transitoria” di Ḥamdallāh: dipenderà dalla capacità di ascolto e di apertura che il neo-premier offrirà al Paese per concretizzare le intese raggiunte nei colloqui del Cairo.
L’accordo di riconciliazione tra Ḥamās e al-Fataḥ, siglato in Egitto il 14 maggio scorso, aveva segnato un ulteriore passo di riavvicinamento tra le due formazioni palestinesi. Dopo anni di contrapposizioni, la distensione era incominciata alla fine del 2012, quando il governo di Rāmallāh aveva per due volte autorizzato manifestazioni di Ḥamās nella West Bank, territorio controllato da Fataḥ. Ed era continuata il 4 gennaio seguente a Gaza, dominio incontrastato di Ḥamās, in occasione delle celebrazioni per il 48° anniversario della fondazione di al-Fataḥ, quando le due organizzazioni erano confluite nella relativa manifestazione congiunta, all’insegna della riconferma dell’impegno comune a favore della causa nazionale palestinese.
Questi eventi erano stati tutti effetti dovuti quanto meno a due vicende cruciali, che avevano avuto la forza di ricompattare le schiere dei due movimenti antagonisti:
- le incaute dimostrazioni di forza israeliane contro Gaza del novembre scorso, con l’offensiva ʿAmúd ʿAnán (Colonna di fumo) e l’assassinio di Aḥmad al-Jaʿbarī, Vice Comandante delle Brigate ‘Izz ad-Dīn al-Qassām, ala militare di Ḥamās;
- lo storico voto del 29 novembre 2012 all’Assemblea Generale dell’ONU (138 voti favorevoli, 9 contrari, 41 astenuti) per il riconoscimento della Palestina come “Stato osservatore permanente non membro”, che consentirà al martoriato Stato mediorientale di aderire eventualmente alle varie agenzie delle Nazioni Unite, a suoi organi, come il Consiglio per i Diritti Umani e la Corte Internazionale di Giustizia, e ad organismi collegati, come la Corte Penale Internazionale: la citazione di questi ultimi è riferita chiaramente alla possibilità teorica di adire le rispettive giurisdizioni in merito a ipotetici crimini di guerra commessi da Israele o singoli esponenti dello Stato ebraico.
Dopo il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina, restano da costruire i reali supporti territoriali e giuridici del funzionamento di un’entità statuale oggi sofferente per l’estrema frammentarietà del territorio controllato e per la tutela soffocante dell’ingombrante vicino israeliano. Ma occorre, anche, agire per la ricostituzione di un’identità storica, culturale e politica che possa motivare in termini di accettazione regionale l’esistenza di un soggetto “nazionale” individuale e individuabile. Ovviamente, bisognerà riflettere sul termine “nazionale”, ove si consideri che lo “Stato-nazione” è un concetto d’importazione europea, generalmente estraneo al mondo arabo e introdotto dopo la caduta del Califfato, con la concitata stagione delle indipendenze dagli imperialismi stranieri.
Oggi, con le aperture degli Stati alle aggregazioni d’integrazione regionale (vedi p. es. Unione Europea, Unione Africana, Lega degli Stati Arabi, Consiglio di Cooperazione del Golfo, Unione di Russia e Bielorussia), anche la Palestina dovrà decidere di rafforzare i legami con i suoi referenti in un campo di cooperazione più ampia, senza i quali la propria fragile conformazione strutturale rischia di cedere sotto i colpi di chi è interessato ad impedire il suo radicamento nell’area mediorientale.
Dunque, potrebbe giovare all’attuale e futura leadership palestinese creare una fitta rete di relazioni con i partners naturali e più storicamente compatibili (ad esempio Lega degli Stati Arabi e Organizzazione della Cooperazione Islamica), rifuggendo dal considerare la questione palestinese come problema esclusivo dei Palestinesi e, nel contempo, sottolineando l’appartenenza a comunità più vaste, come quella araba e islamica.
La via intrapresa dal Presidente palestinese ‘Abbās sembra in questo momento ricercare affannosamente la riconciliazione interna (nonostante non riesca a soddisfare le esigenze politiche di Ḥamās) e il dialogo con Israele (in continuità con l’impostazione degli Accordi di Oslo del 1993). Per il raggiungimento di questi obiettivi dovrà, nel contempo, affrontare problemi che investono tre aspetti sostanziali:
- la riconsiderazione delle relazioni con lo Stato di Israele;
- il rafforzamento dei legami interni di solidarietà popolare;
- il riallineamento dei rapporti reciproci tra le parti politiche.
Per il primo punto, occorre un atteggiamento bilanciato nei confronti di Israele, che tenga conto, da un lato, dell’impervio ma fattivo percorso intrapreso verso una coesistenza problematica e indirizzata verso la costruzione di una pace possibile; dall’altra, venendo incontro alla sensibilità dei movimenti di resistenza, che esprimono i sentimenti popolari di insofferenza verso la mancanza di reale indipendenza politica e di libertà di movimento individuale e collettivo.
A tal proposito, il Presidente ‘Abbās, a margine del Forum Economico Mondiale sul Medio Oriente e il Nord-Africa, ha detto il 25 maggio scorso che “la pace con Israele è ancora possibile”, che “vogliamo una pace giusta e globale” e che “vogliamo avere due Stati fianco a fianco, che vivono in conformità con le risoluzioni internazionali, la Road Map e l’Iniziativa di pace araba”. Anche Khālid Masha’l, Capo dell’Ufficio Politico di Ḥamās, ha detto che “le controversie con il movimento Fataḥ sulle modalità disponibili per combattere contro Israele si stanno riducendo sempre di più” e ha aggiunto che “Ḥamās è in linea di principio aperto a negoziati con Israele”. Tuttavia, affermando di essere favorevole ai metodi pacifici adottati dal Presidente Maḥmud ‘Abbās, ha anche dichiarato che “la resistenza armata è parte integrante dei principi del Movimento”. Dunque, disponibilità sì, ma condizionata alla risoluzione di problemi che per lo Stato palestinese, lo ricordiamo, ancora si chiamano:
– presenza dell’intollerabile “barriera di sicurezza” nella West Bank, che i Palestinesi vivono come “barriera di segregazione razziale”;
– sussistenza e incremento di insediamenti coloniali ebraici illegali;
– frammentarietà del territorio affidato al governo di Rāmallāh;
– isolamento di Gaza, dovuto al controllo oppressivo della mobilità attraverso i suoi valichi esterni;
– agibilità di Gerusalemme Est, occupata militarmente nel 1967, annessa unilateralmente nel 1980 e proclamata illegalmente dalla Knesset capitale di Israele, nonostante la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947 avesse affidato al-Quds (la Città Santa) ad un regime speciale internazionale amministrato dall’ONU.
Riguardo al secondo punto, serve varare misure di valorizzazione di quelle componenti della società civile (p. es. le Organizzazioni Non-Governative e di beneficienza) che si sono distinte sul campo nell’opera di sostegno alle comunità sofferenti per le conseguenze della diuturna repressione (arresti, rastrellamenti, abbattimento di edifici di abitazione), nell’offerta di servizi sociali gratuiti come assistenza medica, scolastica e religiosa e nell’azione di contrasto non violento all’espansione dell’occupazione straniera attuata tramite la politica degli insediamenti arbitrari.
Riguardo alla costruzione di nuovi rapporti politici volti alla coesione e alla lealtà inter-istituzionali, si è già ricordato l’instabile patto di solidarietà tra Ḥamās e Fataḥ come asse fondante del nuovo Stato di Palestina. Ma si devono ancora sottolineare i passi compiuti in tal senso dal Movimento per il jihād islamico in Palestina (Harakat al-Jihād al-Islāmī fī Filasṭīn) di Ramaḍān Shallāḥ, che, malgrado avesse boicottato le elezioni legislative del 2007 e contrastato il potere di Ḥamās a Gaza, l’anno scorso ha annunciato la partecipazione alle elezioni del Consiglio Nazionale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e nel febbraio scorso per la prima volta ha incoraggiato i suoi aderenti a registrarsi pure nelle liste elettorali per le elezioni municipali. Certo, innumerevoli sono gli ostacoli che ancora separano questa organizzazione jihādista dalla piena accettazione del ruolo dell’OLP come guida del processo partecipativo politico-istituzionale, per lo meno fin tanto che – sottolinea il movimento – i governi saranno la conseguenza degli Accordi di Oslo; tuttavia, è significativo il suo riconoscimento delle altre fazioni della galassia politica palestinese come fratelli nella battaglia per la libertà dal giogo dell’occupazione.
La strada per acquisire una piena legittimità istituzionale interna da parte dello Stato palestinese è lunga, il Presidente ‘Abbās lo sa. E sa anche che deve chiamare al tavolo dell’edificazione nazionale tutti gli attori che concorrono alla sua formazione. “Il Presidente invita tutte le forze e le fazioni del Paese a lavorare insieme per accelerare il lavoro, in modo che sia in grado di emettere due decreti: uno per formare un governo di unità nazionale di tecnocrati indipendenti, l’altro per fissare una data per le elezioni (presidenziali e legislative)” avevano riportato fonti di stampa il 27 aprile scorso. Due settimane prima il Presidente aveva accettato le dimissioni di Salām Fayyāḍ, il quale era stato nominato Primo Ministro il 14 giugno 2007 senza ottenere l’approvazione del Consiglio Legislativo Palestinese. Per questo era contestato nel ruolo da Ismā’īl Haniyeh, autorevole membro moderato di Ḥamās, il quale, invece, era stato legittimamente nominato Primo Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese il 16 febbraio 2006 e poi defenestrato in spregio al voto popolare democraticamente acquisito, non confutato neanche dagli sconfitti e senza contestazioni internazionali.
Le dimissioni di Fayyāḍ potevano essere considerate un gesto di distensione e di apertura del Presidente ‘Abbās, non c’e dubbio. E la provvisorietà che gli osservatori attribuiscono all’amministrazione Ḥamdallāh potrebbe essere interpretata nella stessa direzione. Ma è auspicabile che questo preluda all’inizio di una riflessione, non soltanto sugli equilibri politici tra poteri che concorrono alla gestione degli apparati statali, ma anche sulla molteplicità delle concezioni ideali che animano le componenti politiche, da cui non possono essere escluse quelle portatrici di istanze religiose che sono parte integrante dell’identità palestinese. In altri termini, mutuare dalle ideologie secolariste occidentali i modelli istituzionali del nuovo Stato di Palestina conduce, come nel recente passato è già successo, al tentativo di delegittimazione di processi democratici che invece vanno difesi nella loro struttura. La mancata accettazione del ruolo di guida politica e sociale di movimenti ispirati a concezioni religiose e investiti proprio dalla volontà popolare, contraddice alla radice le stesse basi giuridiche su cui si fonda la democrazia.
Vero è che la stessa idea di democrazia è insita nel pensiero islamico, sebbene con motivazioni e sviluppi divergenti da quelli ispirati dall’Illuminismo laico europeo e dalle successive derivazioni. Tuttavia, non può essere ignorato tutto il dibattito sviluppatosi attorno alle nozioni di Shura e Shuracratīyya, alcune interpretazioni delle quali non differiscono molto dai contenuti della democrazia occidentale, in termini di diritto alla vita, eguaglianza di fronte alla legge, giustizia sociale, libertà di pensiero e di coscienza.
La stessa logica vale per la conduzione delle relazioni internazionali, laddove lo spirito del tempo rifiutasse i fenomeni religiosi come fattori determinanti delle ignizioni e dei consolidamenti sociali, scoraggiato dalla difficoltà di misurare quantitativamente peso ed effetti di comportamenti collettivi eticamente motivati; di certo risultano più prevedibili azioni basate su interessi materiali (p.es. l’acquisizione e il controllo delle risorse energetiche, la rivendicazione di spazi geo-politici o la richiesta di prestazioni economico-finanziarie). Rispetto a questo, le discipline internazionali dimostrano un grave ritardo, in presenza di un risveglio politico-religioso a livello popolare, che risulta ampiamente incompreso e sottovalutato dai cosiddetti “esperti” del settore.
Alla luce di queste considerazioni, sarebbe auspicabile una perestrojka palestinese all’insegna dell’unità nella diversità, per un’autonoma responsabilità politica e non eterodiretta da interessi spesso corruttivi e devianti dal compito storico assunto dalla Palestina.