TĀLIBĀN AFGHANI: UN RADICAMENTO TERRITORIALE E SOCIALE CHE INFASTIDISCE GLI USA
di Glauco D’Agostino
L’annuncio del Presidente Obama sul prolungamento delle operazioni americane in Afghanistan
Il 15 ottobre scorso il Presidente Obama ha annunciato che la presenza USA in Afghanistan sarà prolungata fino al 2017, rivedendo i piani di ritiro militare dalla nazione centro-asiatica e allo stesso tempo manifestando le difficoltà di tener fede alle promesse fatte all’atto del suo insediamento. “Mentre la missione americana di combattimento in Afghanistan potrebbe essere finita, il nostro impegno verso l’Afghanistan e il suo popolo perdura” ha detto. E ha aggiunto: “Io non permetterò che l’Afghanistan sia utilizzato come rifugio sicuro di terroristi per attaccare di nuovo la nostra nazione”. Anche dopo il 2017 “forze americane rimarranno in diverse basi nel Paese per darci la presenza e la portata che le nostre forze richiedono per realizzare la loro missione”.
La decisione è basata dunque su presupposte giustificazioni che riguardano la stabilità dell’Afghanistan, ma anche la sicurezza nazionale americana. Di fatto, la Casa Bianca ha scelto di perpetuare una guerra che dura ormai da 14 anni senza avere ancora raggiunto i suoi scopi e soprattutto dopo che il 28 dicembre scorso aveva annunciato la fine delle missioni belliche americane e della NATO in Afghanistan.
L’annuncio di Obama giunge dopo il deterioramento della situazione afghana degli ultimi mesi. Ne ricordiamo alcuni degli avvenimenti salienti:
- All’inizio di giugno a Oslo esponenti talebani incontrano una folta delegazione di parlamentari donne afghane;
- Il 7 luglio a Murree, vicino a Islāmābād, sono avviati i primi colloqui di pace ufficialmente riconosciuti tra i Tālibān afghani e il governo di Kabul;
- Il 30 luglio una dichiarazione dei Tālibān afghani comunica la morte del loro leader Mullāh ‘Omar, Comandante dei Credenti, mentre altre fonti non ufficiali loro vicine annunciano l’elezione del Mullāh Akhtar Moḥammed Manṣūr come successore, sollevando dubbi sulla sua legittimità soprattutto da parte della famiglia del defunto leader;
- Il 31 agosto sempre una dichiarazione dei Tālibān afghani rivela che la morte del Mullāh ‘Omar è avvenuta il 23 aprile del 2013, ammettendo di aver tenuto nascosta la notizia per oltre due anni;
- A metà settembre i Tālibān afghani annunciano di aver messo da parte le lotte intestine delle ultime settimane e di aver trovato l’accordo per il riconoscimento del Mullāh Manṣūr come successore del Mullāh ‘Omar: “il Mullāh Ya`qūb e il Mullāh ‘Abdel Manan, rispettivamente figlio e fratello del Mullāh ‘Omar, hanno giurato fedeltà al loro nuovo leader in una splendida cerimonia”;
- Il 28 settembre (6 Tala 1394 dell’Egira solare) i Tālibān afghani (secondo alcune fonti soltanto poche centinaia) espugnano il capoluogo provinciale Kunduz, il primo centro urbano conquistato dalla caduta dell’Emirato Islamico di Afghanistan nel 2001, portando sotto il loro controllo gran parte dei distretti viciniori e operando azioni su piccola scala anche nelle Province settentrionali di Baġlān, Taḫār e Badakhshān;
- Il 3 ottobre la coalizione a guida USA inizia a bombardare Kunduz, causando numerose vittime civili e colpendo un ospedale di Medici Senza Frontiere affollato di ammalati: il bilancio di quest’ultima azione è di almeno 22 morti e 37 feriti tra pazienti e personale medico e nessun combattente nemico;
- Il 13 ottobre un comunicato dell’Emirato Islamico di Afghanistan annuncia di aver ordinato l’evacuazione dei propri combattenti dalle principali piazze ed edifici governativi di Kunduz per dislocarli nelle aree rurali e rinforzare le linee di difesa esterne.
La difficile situazione del governo del Presidente Ghani
La presa temporanea di Kunduz, sesta città afghana in termini di popolazione con i suoi 300 mila abitanti, distante soltanto 250 chilometri da Kabul e avamposto strategico verso il Tadzhikistan e l’Asia Centrale, ha rappresentato un duro colpo per il governo di Ashrāf Ghani Aḥmadzai. Il Presidente dal suo insediamento giusto un anno fa ha la piena titolarità e responsabilità della sicurezza nel Paese in forza dell’accordo di giugno 2013 e in quella città aveva schierato almeno 7 mila soldati. Tanto più che Kunduz, come del resto tutto il nord, ha una scarsa popolazione pashtun (l’etnia che in larga maggioranza compone i ranghi talebani) e che, di conseguenza, il dilagare dei Tālibān nel nord colpisce gli equilibri territoriali che si presupponevano consolidati in Afghanistan. Infatti, secondo molte testimonianze anche filo-governative, numerose sono state le manifestazioni di solidarietà con i Tālibān da parte della popolazione locale durante il periodo della preparazione dell’assalto alla città: e, dunque, la caduta di Kunduz sarebbe stata provocata in parte dall’interno e con la complicità della popolazione, il che avallerebbe l’interpretazione dell’insorgenza piuttosto che quella dell’attacco terroristico.
In realtà, la nomina dei nuovi responsabili governativi nella Provincia (il governatore, il capo della polizia e quello dell’intelligence) facevano presagire il pericolo percepito dal Presidente Ghani (nella foto sotto) in ordine ad un attacco talebano e, nello stesso tempo, dopo anni di condotta all’insegna della corruzione, indicavano una maggiore attenzione verso una migliore gestione politica e amministrativa, obiettivo fatalmente non raggiunto. L’assenza del Governatore ‘Omar Safi alla caduta della città, il rifiuto di combattere contro i Tālibān da parte della Polizia Locale e la mancata lealtà al governo da parte di unità militari composte su base etnica (agli ordini piuttosto dei loro precedenti capi locali prima di entrare nell’Esercito) testimoniano il sentimento di disaffezione della città nei confronti del governo e come le nuove misure attuate da Ghani non siano state bene accolte dalla popolazione. Lo stesso Primo Ministro ʿAbdullāh ʿAbdullāh, originario del nord, ammette il fallimento delle azioni intraprese in favore di Kunduz, pur tuttavia smentendo che la popolazione preferisca i Tālibān al governo attuale di Kabul. A questo si aggiungano le discriminazioni subite da molti individui di etnia pashtun, spesso da parte di unità della Polizia Locale, che li accusano ingiustamente di appartenere alle milizie talebane.
L’assetto organizzativo dei Tālibān
Il risultato di questa nuova insorgenza è che la presenza talebana forte di almeno 60 mila Mujāhidīn, così come la loro influenza, secondo le Nazioni Unite è ora dislocata in più aree del Paese che non nel 2001, potendo contare sulle sue impenetrabili roccaforti meridionali e orientali.
Il suo assetto organizzativo, secondo molti analisti, presenta le seguenti caratteristiche:
- I Tālibān avrebbero un comando centralizzato in una struttura denominata la “Shura di Quetta” basata nell’omonima città del Pakistan (ma Islāmābād ne nega l’esistenza) e una galassia di comandanti tattici regionali con poteri di decisione. A Quetta spetterebbe il controllo delle aree meridionali corrispondenti alle Province di Helmand, Kandahār, Zabul e Urōzgān; la rete Ḥaqqānī, ristabilitasi in Afghanistan dal Nord Waziristan pakistano, avrebbe il comando delle zone orientali del Paese, ricevendo assistenza operativa da parte dei servizi pakistani dell’ISI (ma anche questo è ovviamente rifiutato dal governo di Islāmābād); nel nord-est del Paese si registra la presenza del gruppo Ḥizb-e Islami (Partito Islamico) di Gulbuddin Hekmatyar, che determinerebbe le funzioni operative nell’intera area e sosterrebbe la spinta insurrezionale verso nord, nonostante la limitata entità degli aderenti;
- I Tālibān amministrano corti giudiziarie secondo i dettami della Sharī’a nei territori da loro controllati, a fronte, tra l’altro, di ammissioni governative in ordine a situazioni di corruzione e ingiustizie largamente diffuse nel Paese.
Gli ultimi avvenimenti insurrezionali, invece, avrebbero provocato le seguenti conseguenze sul terreno:
- Le missioni di assistenza dell’ONU hanno abbandonato per motivi di sicurezza i loro 13 uffici provinciali, dopo che i responsabili della sicurezza dell’organizzazione avevano già da tempo classificato come “alto” o “estremo” il livello di pericolo nella metà dei distretti amministrativi distribuiti su 27 delle 34 province del Paese;
- Molti distretti, specialmente quelli meridionali, sono solo nominalmente sotto la potestà delle forze governative, che in realtà controllano soltanto pochi edifici del relativo capoluogo: la Provincia di Urōzgān è quella a maggior rischio di finire interamente sotto il potere talebano nel prossimo futuro;
- L’Highway One, l’arteria stradale che collega tra loro le principali città afghane, è sostanzialmente impraticabile perché comunemente sotto l’attacco dei Tālibān e persino nella roccaforte governativa costituita dalla Provincia settentrionale di Baġlān l’autostrada è stata ripetutamente bloccata dagli insorgenti.
Il ruolo delle lobbies americane
Dunque, la decisione di Obama sembra conseguente a questo improvviso surge e determinata dalla sua fermezza nel contrastare l’inaspettata instabilità dell’Afghanistan, soprattutto al nord. “In aree chiave del Paese la situazione della sicurezza è ancora molto fragile e, in alcune zone, c’è il rischio di un deterioramento” ha detto. Ma, in realtà, già dal 2009 diversi funzionari americani avevano avuto sentore del rafforzamento delle posizioni talebane al nord e proprio gli USA avevano iniziato a formare e finanziare milizie reclutate localmente, poi riportate nell’ambito dei ranghi del Ministero dell’Interno afghano, con i risultati sopra descritti. In tutta evidenza, bisognerebbe invece riflettere sull’efficacia di combattenti ingaggiati con motivazioni soltanto di ordine economico, contrapposti a Mujāhidīn che (a torto o a ragione) ritengono di lottare per una giusta causa e non riconoscono come legittimo il governo insediato a Kabul perché considerato espressione degli interessi occidentali.
Viceversa, da tempo negli alti vertici degli Stati Uniti si era innescato un dibattito che vedeva sia il Congresso sia le lobbies militari favorevoli a considerare urgente il rinnovo di una “protezione” più efficace dell’Afghanistan (leggi, riprendere il business delle forniture militari a rischio); e tutto questo ben prima dell’episodio di Kunduz. Il casus belli di Kunduz sembra per questo rispondere ad una cercata delegittimazione dell’operato del Presidente Ghani dopo il ritiro della coalizione internazionale e a ritenere insufficiente l’impegno dei 350 mila uomini in forza all’Esercito afghano; il che porta per conseguenza ad un intervento sussidiario da parte USA e NATO.
La forza militare americana conta oggi poco meno di 10 mila soldati e, contrariamente alla pianificazione effettuata in precedenza, rimarrà allo stesso livello durante tutto il 2016. Poi forse potrà scendere a 5.500 uomini invece che ai 1.000 previsti dallo stesso Obama prima dell’annuncio di metà ottobre. Resta da approfondire con gli alleati NATO e della Resolute Support Mission quale sia la portata dell’impiego dei 12 mila uomini e donne ufficialmente impegnati soltanto nell’addestramento, consiglio e assistenza delle forze armate afghane (ed eventualmente nel contrasto a quel che resta di al-Qā’ida), visto che poco è stato chiarito sulla presunta autorizzazione fornita dalla Casa Bianca all’estensione delle missioni americane contro i Tālibān. Sarebbe quest’ultima eventualità a frenare l’accostamento delle forze talebane al processo di pace (peraltro già ufficialmente iniziato, come detto), che è da loro ritenuto sleale e non bilanciato in presenza di forze armate straniere con intendimenti bellici e propositi di annientamento nei loro confronti. Tanto più che i frequenti attacchi sferrati dagli USA con l’utilizzo di droni hanno negli ultimi anni comportato la perdita della vita per centinaia di civili inermi e ritenuti coinvolti nei combattimenti: a questo proposito si possono citare le recenti rivelazioni diffuse da The Intercept, una pubblicazione online dedicata alla sicurezza nazionale americana, e le ammissioni fatte nel 2009 dal generale americano Stanley McChrystal, allora Comandante dell’ISAF.
Washington, lo Stato Islamico e il rapporto con i Tālibān pakistani
Risulterebbe molto strana l’autorizzazione ad un impegno militare diretto contro i Tālibān afghani e non contro le milizie dello Stato Islamico di Ḥāfiz Saīd Khān, considerato che queste ultime stanno ingaggiando furiose battaglie contro l’Emirato Islamico di Afghanistan, in particolare nella provincia nord-orientale di Nangarhār, lungo il confine con il Pakistan. Né sembra conquistare spazio la parola d’ordine che lo Stato Islamico in Khorāsān (come si fa chiamare il gruppo operante in Afghanistan) non abbia legami operativi con il governo di Raqqa, perché è evidente che questo servirebbe a coprire una certa acquiescenza di Washington verso l’espansione dello Stato Islamico ai danni dei Tālibān afghani. Se aggiungiamo il fatto che molti leader dello Stato Islamico in Khorāsān sono fuorusciti dai Tālibān pakistani, operanti nelle zone tribali e ormai sconfinati in Afghanistan dopo le recenti operazioni di Islāmābād contro di loro, allora la situazione rischia di coinvolgere il vicino Pakistan e di tracimare in ulteriori complicazioni diplomatiche, visto il delicato triangolo di rapporti che interessa Pakistan, Afghanistan e India (quest’ultima considerata una protettrice di Kabul, oltre che sua benefattrice).
Kabul, infatti, accusa Islāmābād di proteggere i Tālibān afghani e il clan Ḥaqqānī. Il governo pakistano di Nawaz Sharif, nel frattempo, ha i suoi problemi con i Tālibān pakistani (che sono di derivazione diversa rispetto agli omonimi afghani) e, mentre da una parte ha lanciato offensive contro di loro, dall’altra ritiene di dovere instaurare un processo di dialogo, considerato una priorità del suo mandato. Viceversa, gli Stati Uniti preferiscono i metodi sbrigativi di sempre e dal 2012 hanno assassinato mediante attacchi con droni alcuni dei maggiori esponenti dei Tālibān pakistani: Badruddīn, Comandante operativo del gruppo Ḥaqqānī, il Mullāh Nazir Wazir, Hakimullāh Mehsud e Wali ur-Rehman, rispettivamente Capo e Vice Comandante del movimento deobandi Tehrik-i-Tālibān Pakistan (Movimento dei Talebani Pakistani). Nāṣiruddīn, finanziatore del gruppo Ḥaqqānī e fratello di Badruddīn, invece, è stato ucciso presumibilmente in una sparatoria nella città di Rawalpindi, vicino a Islāmābād.
In questo scenario, sono molti coloro che credono che un Afghanistan stabile non si possa costruire senza avviare trattative di pace con i Tālibān. I tentativi in passato ci sono stati e anche tuttora sarebbero formalmente in piedi; e ancora bisogna riconoscere che non è mancata la buona volontà dei governi afghani e pakistani che si sono succeduti nel tempo. Ma, stranamente, ogni qualvolta ci si avvicina soltanto ad intavolare negoziati, un tragico, provocatorio evento giunge a rompere il già difficile clima di fiducia reciproca faticosamente costruito. In tempi recenti sono salienti i seguenti episodi:
- L’assassinio nel 2011 dell’ex Presidente Burhānuddīn Rabbānī (professore di Sharī’a e seguace della teoria teo-democratica di Mawdūdī attraverso il suo partito Jamā‘at-e-Islami Afghanistan), che pure era Capo dell’Alto Consiglio per la Pace, incarico ricevuto l’anno prima dal governo di Kabul per negoziare con i Tālibān afghani;
- L’assassinio nel 2013 del già citato Hakimullāh Mehsud (a sinistra nella foto sotto), perpetrato il giorno dopo che il Primo Ministro Nawaz Sharif aveva dichiarato ai media che il processo di dialogo con i Tālibān pakistani era cominciato;
- Ancora, l’uccisione dieci giorni dopo di Nāṣiruddīn Ḥaqqānī, che a giugno di quell’anno aveva rappresentato la rete Ḥaqqānī nel tentativo di istituire un Ufficio Politico dell’Emirato Islamico di Afghanistan a Dōḥa, in Qatar, finalizzato a colloqui di pace con gli Stati Uniti (nella foto in basso, la cerimonia di inaugurazione);
- Adesso l’inversione di marcia di Obama riguardo alla presenza americana e alle operazioni militari in Afghanistan, meno di tre mesi dopo che erano stati avviati i primi colloqui di pace ufficialmente riconosciuti tra i Tālibān afghani e il governo di Kabul.
Il codice di esclusione
Questa opposizione di principio al coinvolgimento talebano nei processi di pace mette da anni a rischio la stabilità dell’Afghanistan, specialmente dopo che l’affievolimento dell’impegno di al-Qā’ida nel Paese aveva fatto sperare in una nuova stagione di pacificazione; e specialmente dopo che dal 2013 i Tālibān collaborano con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il Rapporto del Segretario Generale sulla protezione dei civili nei conflitti armati. Ma forse è il radicamento territoriale e sociale che i Tālibān dimostrano in Afghanistan e nel Waziristan pakistano a infastidire gli Stati Uniti. D’altra parte, Washington non può ignorare che già nel 1996 i Tālibān erano stati accolti con favore non solo a Kandahār, ma inizialmente da gran parte degli Afghani, stanchi della guerra civile, dell’anarchia imperante e della dominazione dei signori della guerra e, soprattutto, che erano in linea con la loro condotta contro la corruzione dilagante dopo la caduta del regime comunista. Così come quasi venti anni dopo sono state diffuse le manifestazioni di solidarietà della popolazione durante la presa di Kunduz. Certamente il ricordo che l’Emirato Islamico di Afghanistan avesse ridotto la produzione mondiale di oppio di due terzi già quattro anni dopo la sua istituzione non può ricevere il favore di molte delle lobbies occidentali che su questo commercio lucrano abbondantemente.
Comunque, va ricordato che il nuovo Afghanistan è stato costruito sul codice di esclusione verso una sua importante componente ancora oggi particolarmente attiva, perché già a dicembre del 2001 i Tālibān furono lasciati fuori dalla Conferenza Internazionale di Bonn che scelse Hāmid Karzai come Capo dell’Amministrazione provvisoria sotto occupazione americana; di conseguenza, nel giugno 2002 non poterono inviare delegati alla loya jirga che elesse il Governo di transizione e non parteciparono alla ratifica della Costituzione a dicembre 2003.