Gaza – Il fallimento di Netanyahu è insuccesso della diplomazia occidentale

Ḥamās: “Operazione in risposta ai continui crimini israeliani contro il Popolo palestinese e alle violazioni alla Moschea di al-Aqṣā”. Sotto scacco Mossad e Forze di Difesa Israeliane

di Glauco D’Agostino

Farebbe sorridere lo zelo delle Cancellerie occidentali nel richiamare il rispetto del diritto internazionale nel caso dell’operazione militare di Ḥamās in territorio israeliano, se questo non coinvolgesse centinaia di vittime da una parte e dall’altra. E però non si può non richiamare le stesse Cancellerie all’assordante loro silenzio rispetto alle continue violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani impunemente operate per decenni da Tel Aviv in Cisgiordania e a Gaza senza che nessun sussulto di legalità percorresse le nebbiose menti delle istituzioni che governano le diplomazie del Vecchio e del Nuovo mondo.

Moḥammed Deif, Comandante in capo delle Brigate ‘Izz ad-Dīn al-Qassām (l’ala militare del movimento di resistenza Ḥamās), ha spiegato lo scopo dell’operazione “al-Aqṣā Flood”: “Mentre l’occupazione israeliana mantiene l’assedio della Striscia di Gaza e continua i suoi crimini contro il nostro popolo palestinese mostrando il massimo disprezzo per le leggi e le risoluzioni internazionali, tra il sostegno degli Stati Uniti e dell’Occidente e il silenzio internazionale, abbiamo deciso di porre fine a tutto ciò”.

Scontata la solidarietà a Israele dei maggiori leader occidentali. A Joseph Biden, Rishi Sunak, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Volodimir Zelenskij, Giorgia Meloni, Ursula Albrecht e Josep Borrell Fontelles, tutti tra i più proni, vorrei ricordare la Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016, con cui, con l’assenso dell’Ucraina, si riconosce che l’attività di insediamento di Israele oltre i suoi confini costituisce una “flagrante violazione” del diritto internazionale e non ha “alcuna validità legale” e chiede che Israele interrompa tale attività e adempia ai suoi obblighi di potenza occupante ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Dunque, l’aggressore sul piano politico è Israele non solo per la gente di Gaza, non ci sono dubbi. Per loro lo è da almeno 35 anni, ma lo è particolarmente dal 2004, dall’assassinio terroristico dello Shaykh paraplegico Aḥmad Ismā’īl Yāsīn, uno dei fondatori di Ḥamās, abbattuto per decisione dell’allora premier Ariel Sharon. Alla reverenza con cui l’ex banchiere di Rothschild Emmanuel Macron si inchina oggi a Netanyahu, la gente di Gaza, che non dimentica, forse ha il diritto di rispondere: Nous sommes tous Aḥmad. Ma all’epoca del truce “omicidio selettivo” il giovane Emmanuel si stava diplomando all’École Nationale d’Administration. Non se lo ricorda quel martirio.

L’inefficienza della diplomazia internazionale ha agitato presso le opinioni pubbliche accordi che tenevano in conto soprattutto il diritto alla sicurezza di Israele, dimenticando che lo stesso diritto riguarda il popolo palestinese. Nessun accordo può essere valido senza affrontare i nodi più spinosi. A parte la già ricordata questione degli insediamenti illegali, restano almeno i seguenti problemi:

  • la presenza dell’intollerabile “barriera di sicurezza” in Cisgiordania (foto sotto), che i Palestinesi subiscono come “barriera di segregazione razziale”;
  • l’area frammentata assegnata al governo di Rāmallāh;
  • il diritto da parte di Israele di intraprendere operazioni militari a Gaza in caso di necessità, che sembra rispondere all’esigenza di dimostrare la potenza militare e la presunta superiorità nazionale sull’intera area;
  • la ridotta vitalità di Gerusalemme Est, sotto occupazione militare dal 1967, annessa unilateralmente nel 1980 e proclamata illegalmente capitale di Israele dalla Knesset, nonostante la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1947 avesse affidato al-Quds (la Città Santa) a uno speciale regime internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Dal Libano, congratulandosi per “l’eroica operazione su larga scala”, Ḥizb Allāh ha infatti dichiarato che l’operazione dei “cari fratelli” di Ḥamās è “un messaggio a coloro che cercano la normalizzazione con Israele”. Lo stesso Sayyed Ḥasan Naṣrallāh, suo Segretario Generale, ha chiesto “ai popoli della nostra Nazione araba e islamica, e alle persone libere in tutto il mondo, di dichiarare il loro sostegno al Popolo palestinese e ai movimenti di resistenza”. L’Arabia Saudita e Israele stavano lavorando per un accordo mediato dagli Stati Uniti per normalizzare le relazioni con Tel Aviv, dopo che Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Marocco avevano siglato i controversi Accordi di Abramo del 2020.

Riyad Mansour, Osservatore Permanente della Palestina presso le Nazioni Unite, ha detto che “le dichiarazioni sul «diritto all’autodifesa» della comunità internazionale saranno interpretate da Israele come una licenza di uccidere” e ha aggiunto che “questo è il momento di dire a Israele che deve cambiare rotta, che esiste un percorso verso la pace in cui né i Palestinesi né gli Israeliani vengano uccisi”.

L’Organizzazione della Cooperazione Islamica, che ha sede a Jeddah (Arabia Saudita), ha dichiarato di essere “fortemente preoccupata per gli sviluppi sul terreno e per la pericolosa escalation israeliana nei territori palestinesi occupati”. Ha aggiunto che “l’aggressione militare israeliana ha portato alla caduta di centinaia di martiri e feriti tra il popolo palestinese”. Il Consiglio delle Organizzazioni Musulmane degli U.S.A. (USCMO), criticando tutte le nazioni arabe e musulmane che hanno normalizzato le relazioni con Israele, ha poi condannato “i recenti attacchi immotivati e continui da parte di Israele contro paesi, città e campi profughi palestinesi”, così come “l’assedio disumano imposto ai quasi 2 milioni di abitanti di Gaza”.

Numerose le dichiarazioni emesse dalle diplomazie dei Paesi Arabi sunniti. Il Ministero degli Affari Esteri dell’Arabia Saudita in un comunicato sottolinea “l’occupazione in corso e la privazione del popolo palestinese dei suoi diritti legittimi, così come le ripetute deliberate provocazioni contro i suoi luoghi santi”. Da parte sua, l’Egitto, che ha normalizzato i rapporti con Israele nel 1980 con un trattato di pace, ha messo in guardia sulle “gravi conseguenze” di un’escalation delle tensioni tra Israele e Palestinesi. Il Qatar, attraverso la sua massima istituzione diplomatica, ha invitato la comunità internazionale “a costringere Israele a porre fine alle sue palesi violazioni del diritto internazionale, a ritenerlo responsabile del rispetto delle legittime decisioni internazionali e dei diritti storici del popolo palestinese e a impedire che questi eventi siano usati come pretesto per innescare una nuova guerra sproporzionata contro i civili palestinesi a Gaza”. Dello stesso tenore le dichiarazioni del Kuwait, che sollecita la comunità internazionale a “porre fine alle pratiche provocatorie dell’occupazione” e alla “politica di espansione degli insediamenti”.

Anche il mondo sciita ha espresso solidarietà al Popolo palestinese. Dalla Repubblica Islamica dell’Iran, il diplomatico Nasser Kanaani, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, ha affermato che “questa operazione… è il movimento spontaneo dei gruppi di resistenza e del popolo oppresso della Palestina in difesa dei loro diritti inalienabili e la loro naturale reazione alle politiche guerrafondaie e provocatorie dei sionisti”. La Siria ha invece espresso il proprio “sostegno” al popolo palestinese e alle forze “che combattono contro il terrorismo sionista”. Il Movimento sciita zaydita degli Ḥūthi, che è parte del Consiglio Politico Supremo dello Yemen, ha affermato che l’attacco “ha rivelato la debolezza, la fragilità e l’impotenza” di Israele e ha definito l’operazione “una battaglia di dignità, orgoglio e difesa”.

Credo che le parole degli Ḥūthi siano lo specchio di quanto è accaduto e sta accadendo. Sotto scacco non solo Mossad e Forze di Difesa Israeliane, ma anche Netanyahu (non c’è bisogno che sia Haaretz a decretare il suo fallimento). La loro insensata politica autocratica di aggressione è stata varata con l’ipocrita avallo dell’Occidente, sempre pronto a strumentalizzare le situazioni di crisi e a lucrare sulle guerre con la vendita di armi e le ricostruzioni post-belliche. Adesso, con l’assedio a Gaza e la sospensione degli approvvigionamenti di acqua, alimentari, carburante ed elettricità per milioni di abitanti, Tel Aviv perpetua il suo volto di aguzzino delle popolazioni civili palestinesi, in linea con la sua storia di induttore della Nakba dal 1948 in poi.

Ora la palla passa alla diplomazia. Non quella occidentale, naturalmente, candidamente schierata per la sicurezza di una delle parti e fuori dal gioco ormai da anni. Ancora una volta la Turchia democratica, seguendo la prudenza del Presidente Erdoğan e con l’autorevolezza dell’appartenenza alla NATO, potrebbe essere la chiave di volta quanto meno per una rapida mediazione tra le parti e, in prospettiva, per la risoluzione del ben più complesso problema dei rapporti israelo-palestinesi e medio-orientali in generale. “Una pace regionale duratura sarà possibile solo trovando una soluzione finale alla questione israelo-palestinese. A questo proposito, come abbiamo sempre sottolineato, è molto importante preservare la prospettiva della soluzione a due Stati”, dice il Califfo.

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