Naturalmente, il mondo occidentale tergiversa, accreditando di fatto la posizione già adottata dall’ISIS. Silenzio da parte delle organizzazioni dei diritti umani.
Ḥaftar è cittadino americano, è noto. Non è una questione di cittadinanza, vogliamo smentire le illazioni magari interessate. Fatto sta che le provocazioni arrivano sempre e comunque da chi ha che fare con il “male assoluto”. No, non stiamo parlando dei nazisti. Stiamo parlando di chi da 75 anni ammorba il mondo con teorie di presunta superiorità (spero non genetica), culminate oggi con l’affermazione “America first”, che fa sinistramente il paio con “Deutschland über alles”. Con l’avallo, naturalmente, dei difensori dei diritti umani e corbellerie varie.
Ognuno difende i propri interessi di fare la “fiesta” che i propri armamenti nucleari consentono, naturalmente a discapito di chi risulta ancora perdente dopo 75 anni, fatta eccezione per chi “illuministicamente” ne ha preso atto, ponendosi sotto le bandiere del vincitore. E questo è ancora comprensibile se questo atteggiamento ha portato ai bilanci statali i vantaggi del dollaro americano, a tal punto che i suddetti beneficiari si sono illusi di essere anche loro i padroni del mondo. In una recente intervista con l’agenzia di stampa Bloomberg, Chuck Wald, Generale a 4 stelle in pensione dell’Air Force, assicura che circa 50 testate nucleari statunitensi attualmente alloggiate presso la base aerea turca di Incirlik dovrebbero essere urgentemente ricollocate ad Aviano, in Italia. Basta osservare l’atteggiamento preoccupato e passivo del governo italiano rispetto alla notizia per accorgersi che la “fiesta” ha un prezzo. La propria indipendenza. Dopo 75 anni!
Bene. Torniamo all’auto-proclamato Califfo Ḥaftar e alle sue stragi di civili a Tripoli. I fatti di per sé non sono così gravi dal punto di vista geo-politico. Gli Stati Uniti, governati dai democratici o dai repubblicani, ci hanno abituato a questo. Dall’Iraq all’Afghanistan e via dicendo. Tutto in nome dei diritti umani (ridicoli, a tal proposito, i successi vantati sulla condizione di genere!), ma soprattutto in nome del contrasto al Califfato. Mai più un Califfo, hanno tuonato come monito a Erdoğan e alle sue presunte mire espansionistiche. Ma la leadership plutocratica americana (pretesa élite basata sul capitale, mai sulla sapienza!) non si è accorta (e men che meno se ne possono accorgere i multimiliardari media anche loro beneficiari del capitale) che la proclamazione del jihād da parte dell’americano Ḥaftar corrisponde alla proclamazione di un Califfato. Certo, cosa ne possono sapere i vari corrispondenti di guerra inviati dai suddetti multimiliardari media. Loro si intendono solo di quale potenza abbiano le armi di pace che mietono migliaia di vittime civili. E di chi abbia la maggiore potenza di fuoco.
La spiegazione è chiara. Per comprenderlo bisogna essere élite. Sapere che cosa è il jihād e distinguerlo dalla guerra, l’ḥarb. Il jihād è un dovere sacro e imprescindibile che solo un’autorità callifale legittima può proclamare, l’Amīr al-mu’minīn, Comandante dei Credenti, che per definizione è colui che detiene la potestà di emettere un ordine (amr) che vedrà sicuramente eseguito. Come dire che questo argomento non è mai assimilabile dall’ottusità materialista occidentale.
L’atteggiamento di Ḥaftar, dal punto di vista islamico, è corrispondente ad una usurpazione di potere e sottoposto alle dovute sanzioni penali secondo Shari’a. Chissà cosa ne pensa lo Shaykh Aḥmad Muḥammad Aḥmad aṭ-Ṭayyib, Grand Imām di Al-Azhar. Ah, già, dimenticavo. Forse dovremmo rivolgerci al Presidente egiziano ʿAbd al-Fattāḥ as-Sīsī, che lo controlla attraverso le sue prerogative laiche.
Dal punto di vista “occidentale”, invece, è da sollevarsi un atto di accusa. Contro chi? Contro Ḥaftar? Dopotutto è un cittadino americano, quindi esente da possibili accuse. Altrimenti avremmo dovuto condannare i responsabili dei crimini internazionali costituiti dalle extraordinary renditions, da Guantánamo, dal Cermis e così via fino all’incidente Calipari. A proposito basti ricordare che la Corte Penale Internazionale non è riconosciuta dagli Stati Uniti d’America. E quindi …
No, non sono gli Stati Uniti questa volta sotto accusa. Sotto accusa sono i suoi servitori che, per viltà e per salvaguardare la “fiesta”, si prostrano ai suoi piedi senza neanche la richiesta del padrone. E sotto accusa sono le organizzazioni della cosiddetta “società civile” (anch’essa in parte beneficiaria della “fiesta”), le quali si ammantano di buoni propositi sui diritti umani, si affannano nel condannare gli Stati a loro insindacabile giudizio non democratici, ci ricordano ad ogni occasione la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma, quando effettivamente serve, si mostrano timide, indecise, confuse, richiedono ulteriori riflessioni, emanano appelli alla fratellanza umana, non riescono a districarsi rispetto alle ambigue posizioni politiche assunte ai tempi dell’Unione Sovietica.
No, amici cari. La “fiesta” è finita. Le rendite di posizione assunte 75 anni fa con le varie “resistenze” inventate non reggono più. La responsabilità è nelle mani delle classi dirigenti attuali, chiaramente inadeguate e confuse dopo le comodità offerte dalla Guerra Fredda solo ad una parte minoritaria del mondo. La responsabilità insiste, come sempre nella storia, su quelle élite parassitarie che hanno guadagnato privilegi, di conseguenza perdendo la loro natura sapienziale e trasformandosi in élite economiche motivate da puro interesse personale.
Il 2020 è l’anno in cui effettivamente il mondo entra nel XXI secolo. Gli equilibri sono cambiati rispetto al 1945 e si riannodano i fili, sfidando persino l’iniquo ordine imposto dopo la Prima Guerra Mondiale. Gli Stati Uniti, con buona pace dei liberisti di ogni sorta (povero Adam Smith!), hanno fatto una scelta isolazionista e protezionista; e nuovi stati emergenti premono per trovare un proprio spazio e sfidano gli Americani sul piano tecnologico con gli strumenti “occidentali” del libero mercato. Con questo scenario non si può pensare di vivere ancora attraverso rendite di posizione. È l’ora delle scelte.
La sfida del falso Califfo Khalīfa Belqāsim Ḥaftar (il quale, evidentemente, si è innamorato del suo nome) non è ben compresa dai governi occidentali, perché, in effetti, non è rivolta a loro. È rivolta al mondo islamico, utilizzando le armi della seduzione emotiva. La risposta potrà venire solo dalla consapevolezza storica della Umma. La Turchia, sede dell’ultimo legittimo Califfato e stato membro della NATO, potrà esserne interprete. Ma la NATO esiste ancora?