Gli Iraniani potrebbero rivolgersi ad un “Presidente militare” se l’accordo nucleare crollasse
Elaborazione da fonti: Julian Pecquet and
, in Al-Monitor, May 9, 2018Fin dalla vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del 2016, gli intransigenti iraniani hanno esultato per le sue promesse di sopprimere l’accordo nucleare – risultato della firma del Presidente moderato Ḥasan Ruhani. Ora Trump ha finalmente consegnato un prezioso dono ai suoi nemici a Tehrān. L’8 maggio, dopo mesi di minacce, Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Piano d’Azione Congiunto Globale (JCPOA). Aveva avvertito i suoi alleati europei che, se non “avessero sistemato” l’accordo, lo “avrebbe rigettato”.
Il Presidente Donald Trump potrebbe presto affrontare il primo test pubblico della sua manovra sul nucleare, mentre l’Iran valuta un reclamo formale contro gli Stati Uniti per aver violato l’accordo.
Il Ministro degli Esteri Moḥammad Javad Zarif aveva indicato il mese scorso che l’Iran avrebbe potuto chiedere un risarcimento alla Commissione congiunta del Piano d’Azione Congiunto Globale se gli Stati Uniti si fossero ritirati dall’accordo. La Commissione non ha autorità sulla politica di sanzioni degli Stati Uniti, ma potrebbe avvicinare l’Iran e le parti rimanenti e isolare gli Stati Uniti.
“Mi aspetto che facciano qualcosa all’interno della struttura della Commissione congiunta”, ha detto ad Al-Monitor Jarrett Blanc, che ha coordinato la supervisione dell’accordo per il Dipartimento di Stato del Presidente Barack Obama. “L’Iran percepisce qui sia il rischio sia l’opportunità. L’opportunità è che per la prima volta da decenni gli Stati Uniti non hanno l’iniziativa. E l’Iran può provare – sarà difficile – ma può provare a cementare il cuneo che gli Stati Uniti hanno inserito tra noi e i nostri più stretti alleati”.
Zarif ha impostato la vertenza per un reclamo JCPOA in un’intervista del mese scorso con Robin Wright del New Yorker. L’Iran, le aveva detto, avrebbe potuto rispondere a un ritiro degli Stati Uniti riprendendo l’arricchimento dell’uranio o persino uscendo dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare, oppure avrebbe potuto presentare un reclamo alla Commissione JCPOA, il suo 12° da quando l’accordo è entrato in vigore. “L’obiettivo del processo è quello di portare gli Stati Uniti in conformità”, aveva detto Zarif allora. “Se vogliono uccidere l’accordo, hanno questa opzione, ma devono affrontare le conseguenze. È pericoloso essere arroganti, molto pericoloso”.
Passando attraverso il JCPOA, aveva detto Blanc, Zarif e il Presidente Ḥasan Ruhani avrebbero creato un’apertura sul piano nazionale per cercare di consolidare i benefici dell’accordo con le rimanenti parti.
La strategia di Zarif e Ruhani di impegnarsi con l’Occidente è in forte difficoltà, con gli estremisti che hanno bruciato una copia dell’accordo nucleare sul pavimento del Parlamento cantando “Morte all’America”. “Se Ruhani e Zarif vogliono provarci, allora hanno bisogno di prendere tempo”, aveva detto Blanc. “E penso che un modo sarebbe quello di dire: «Guarda, l’accordo ha un meccanismo e stiamo lavorando attraverso quel meccanismo». Dà loro il tempo di condurre una trattativa”. “Molto di questo ha a che fare con la legittimità e l’illegittimità”, aveva aggiunto. “E quindi la sensazione che gli Stati Uniti siano isolati qui quando normalmente è l’Iran che si sente isolato, penso che potenzialmente potrebbe essere d’aiuto [per Ruhani]”.
Nonostante la pressione interna per uscire dall’accordo ora paralizzato, il Presidente iraniano si schiera per l’accordo mentre si impegna in una diplomazia di emergenza con le restanti parti. “Ho ordinato al Ministero degli Esteri di negoziare con i Paesi europei, la Cina e la Russia nelle prossime settimane”, ha detto lunedì Ruhani. “Se alla fine di questo breve periodo concluderemo che possiamo beneficiare pienamente del JCPOA con la cooperazione di tutti i Paesi, l’accordo rimarrebbe”.
Gli Europei fino ad ora sono stati ricettivi a dialogare con Tehrān anche dopo il ritiro degli Stati Uniti. “I nostri governi rimangono impegnati a garantire che l’accordo sia rispettato e collaboreranno con tutte le parti rimanenti nell’accordo per garantire che prosegua, anche garantendo i continui benefici economici per il popolo iraniano legati all’accordo”, hanno dichiarato in una dichiarazione congiunta martedì i leader di Francia, Germania e Gran Bretagna. “Esortiamo gli Stati Uniti a garantire che le strutture del JCPOA possano rimanere intatte e ad evitare azioni che ostacolino la sua piena attuazione da parte di tutte le altre parti dell’accordo”.
I negoziatori statunitensi, nel frattempo, sembrano essere stati colti alla sprovvista dalla brusca decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo quattro giorni prima della scadenza auto-imposta del 12 maggio. Mentre il Segretario di Stato Mike Pompeo si dirigeva verso la Corea del Nord per i colloqui sul nucleare, martedì i diplomatici di livello inferiore sono stati costretti a respingere freneticamente i giornalisti, scettici sul fatto che l’Amministrazione abbia qualche idea su cosa fare dopo che i colloqui con gli Europei non sono riusciti a raggiungere un risultato che abbia soddisfatto Trump. “Non abbiamo parlato di un piano B nelle nostre discussioni perché concentrati sulla negoziazione di un accordo supplementare”, ha ammesso un funzionario del Dipartimento di Stato in uno spigoloso briefing con i giornalisti. “Quindi no, non abbiamo parlato del piano B”.
Ciò ha lasciato un varco all’Iran per cercare di trarre concessioni dagli Europei attraverso il JCPOA.
Mentre gli Stati Uniti fanno pochissimi affari con l’Iran, il Paese è particolarmente vulnerabile alle cosiddette sanzioni secondarie americane nei confronti di terzi. Ottenendo che le parti rimanenti del JCPOA si impegnino formalmente nell’accordo, l’Iran potrebbe contribuire a solidificare una resistenza emergente contro le sanzioni statunitensi verso i Paesi che scelgono di confermare l’accordo. “Se gli Europei avessero intenzione di respingere le sanzioni secondarie statunitensi, avrebbero bisogno di adottare un mix di misure economiche e finanziarie politiche e pratiche”, ha affermato Blanc. “Dire qualcosa nella Commissione congiunta, lo rende più significativo per il settore privato? No. Avrebbero ancora bisogno di capire quali cose tecniche effettive devono fare. Ma è parte del mix. La politica ne è parte”.
E quando arriverà il momento critico, predice che l’Europa si schiererebbe con l’Iran. “Non penso ci sia alcun dubbio che tutte le parti del JCPOA si schiererebbero con loro sul fatto che gli Stati Uniti sono in violazione”, ha detto, “se gli Stati Uniti ammettessero di essere in violazione”.
Nel 2013 gli Iraniani erano stanchi dei due mandati presidenziali dell’intransigente Maḥmūd Aḥmadinejād, sotto il quale il dossier nucleare si era trasformato in una crisi. In queste condizioni, la tardiva designazione dell’Āyatollāh ‘Alī-Akbar Hāshemī Rafsanjānī alle elezioni presidenziali di quell’anno era stata gradita da molti, poiché era noto sia agli amici sia ai nemici come colui che avrebbe potuto migliorare l’aspra relazione tra Iran e Occidente. Visto che Rafsanjānī fu escluso dalla corsa dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione, rapidamente diede il suo completo appoggio al suo protetto Ruhani, che si impegnò con gli elettori a risolvere la crisi nucleare. Durante i negoziati tra l’Iran e il P5+1 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania), i Repubblicani nel Congresso degli Stati Uniti e gli intransigenti del Parlamento iraniano cercarono quasi costantemente di silurare i colloqui.
Dopo la firma dell’accordo, i comuni cittadini iraniani aspettavano di vedere i dividendi economici che i funzionari avevano detto loro avrebbero migliorato le loro vite. Le cose stavano gradualmente migliorando nei mesi successivi al lancio del JCPOA nel gennaio 2016. Ma poi entrò in politica Trump. Anche se questi aveva promesso di sopprimere l’accordo, la maggior parte degli Iraniani era ancora fiduciosa, rieleggendo nel maggio 2017 lo “Sceicco Diplomatico” – un appellativo comune per Ruhani – e optando per un impegno costruttivo con il mondo per deviare le pressioni USA.
All’indomani del ritiro degli Stati Uniti e tra continue incertezze sul futuro dell’accordo nucleare, l’esperienza del JCPOA sta già avendo conseguenze potenzialmente profonde per la politica iraniana. Innanzi tutto, i sentimenti e gli ambienti intransigenti sotto la guida dell’Āyatollāh Moḥammad Taqi Mesbah-Yazdi – un tempo un mentore di Aḥmadinejād – sono di nuovo in auge, con molti subito inclini a considerare che l’apertura e l’interazione dell’Iran con l’Occidente non riesca a portare prosperità all’Iran. Queste forze dal 2013 erano state seriamente danneggiate dalle consecutive sconfitte elettorali.
Come risultato del risorgere di approcci intransigenti, le condizioni di coloro che favoriscono l’impegno con l’Occidente diventeranno sempre più difficili. Anzi, probabilmente condurrà anche l’Amministrazione moderata di Ruhani ad adottare una posizione più dura per attenuare le crescenti pressioni degli intransigenti. Forse ancora più importante, Ruhani e la sua squadra non hanno né la motivazione né l’autorità per mostrare “flessibilità eroica” – il termine usato per far passare l’impegno con gli Stati Uniti durante i colloqui sul nucleare – nel momento in cui saranno impegnati nelle prossime settimane con i Paesi europei per valutare se rimanere nel JCPOA. In questo contesto, si dovrebbe inoltre notare che il pieno collasso del JCPOA rischierebbe di far perdere agli Iraniani la speranza nel riformismo e persino nella moderazione. Sebbene questo possa essere accolto con favore da alcuni a Washington, anche gli intransigenti a Tehrān apprezzano l’apatia politica, dato che l’alta affluenza alle urne tende a favorire i loro avversari.
In queste condizioni, vi è la prospettiva di un sogno di lunga data che gli intransigenti iraniani nutrono – vale a dire l’ascesa di un Presidente militare. Con le ripetute minacce di Trump, gli intransigenti hanno iniziato a portare avanti quest’idea per testare le reazioni nella società iraniana. In tale ottica, il 18 marzo Moḥammad-‘Alī Pour-Mokhtar, intransigente membro del Parlamento, ha detto in particolare: “Alcuni media dicono che i militari non dovrebbero diventare Presidenti. Credo che se venisse eletto un Presidente militare, potrebbe sicuramente risolvere i problemi della gente”. Con i raid in tutta la regione del Gen. di Brigata Qāsim Sulaimānī, Comandante della Brigata Gerusalemme del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, alcuni potrebbero essere persuasi che uno stratega militare sarebbe più adatto a guidare l’Iran. Secondo un sondaggio condotto dall’Università del Maryland la scorsa estate, il 61% degli Iraniani ha un’opinione favorevole di Sulaimānī. Il popolare Ministro degli Esteri Moḥammad Javad Zarif [con John Kerry nella foto sotto del Dipartimento di Stato USA], che ha guidato i negoziati sul nucleare, è arrivato secondo, ottenendo opinioni “favorevoli” dal 43% degli intervistati.
Anche se non è probabile che Sulaimānī partecipi alle prossime elezioni presidenziali iraniane, le sue vittorie sul campo di battaglia molto pubblicizzate hanno preparato l’opinione pubblica per un Presidente militare. Questo dovrebbe essere visto nel contesto di un clima in cui gli elettori iraniani nei decenni passati hanno reagito in generale negativamente ai candidati in uniforme. Il Vice Ammiraglio ‘Alī Shamkhani, attuale Segretario del Supremo Consiglio per la Sicurezza Nazionale dell’Iran, l’ex Maggiore Generale Mohsen Reżāʾī Mīrghāʾed, attuale Segretario del Consiglio del Discernimento dell’Interesse Superiore del Sistema e già Comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, e l’ex Gen. di Brigata Moḥammad Bagher Qalibaf, già Capo della Polizia nazionale e sindaco di Tehrān fino all’anno scorso, sono tra gli ex addetti alla sicurezza che non hanno vinto nessuna delle ultime cinque elezioni presidenziali in Iran.
In mezzo a tutto questo, la politica iraniana potrebbe essere sull’orlo di un cambiamento, dato che molti non si identificano più tra le vecchie fila partigiane. Un recente sondaggio ha affermato che oltre il 74% degli Iraniani non si considera riformista o conservatore. Una lettura di questo è che le persone vogliono semplicemente un leader efficace in grado di superare i problemi del Paese. In questo senso, c’è l’eventualità che gli elettori possano concludere che l’impegno costruttivo favorito da un Presidente diplomatico come Ruhani abbia raggiunto un punto morto. Stimolati dalle vittorie sul campo di battaglia di Sulaimānī, potrebbero preferire un leader forte e deciso di fronte a un’escalation di minacce e ostilità esterne.
Mentre gli Iraniani sono pienamente consapevoli del fatto che Ruhani non è responsabile del collasso del JCPOA, c’è una forte polemica sul fatto che il suo approccio sia fallito e che quindi sia giunto il momento di una strategia più dura e rigida. In uno scenario del genere, anche i conservatori pragmatici come il parlamentare ‘Alī Larijani, Presidente del Parlamento e consigliere di lungo corso della Guida Suprema Āyatollāh ‘Alī Khāmene’i, non hanno alcuna possibilità di essere eletti, per non parlare di un riformista come il Primo Vice Presidente uscente Eshaq Jahangiri.
Sta diventando evidente che l’unica parte in grado di mantenere l’accordo – cioè l’Europa – può svolgere un ruolo unico nel contribuire a determinare i venti politici in Iran. Se Gran Bretagna, Francia e Germania resteranno saldamente dietro l’accordo nucleare e sosterranno i loro impegni piuttosto che continuare a cercare di placare Trump sollevando questioni non connesse, potrebbe alla fine arrivare un ulteriore governo iraniano nelle mani del campo riformista.