LA CINA “STRIZZA L’OCCHIO” ALL’ASIA CENTRALE TRA CONNIVENZE, INCERTEZZE E RIFIUTI
La public diplomacy di Pechino verso l’antagonismo delle grandi potenze, la diffidenza delle popolazioni e l’accondiscendenza delle élites politiche
di Glauco D’Agostino
Sommario
La Cina apre all’Asia Centrale e lo fa lanciando la sua public diplomacy fondata sul suo potenziale economico e su un soft power dal volto amichevole. La Belt and Road Initiative rappresenta oggi un pilastro della politica estera cinese, giudicata vincente da molti analisti. La Cina vorrebbe sviluppare una Zona di libero scambio con l’Asia Centrale, ma Mosca vi si oppone, temendo il dominio geo-economico cinese. Gli esperti e i circoli accademici locali sottolineano che l’influenza cinese è percepita dall’opinione pubblica in maniera duplice: positivamente dal punto di vista geopolitico, per essere il baluardo all’ascendente russo e alla crescente suggestione occidentale; negativamente dal punto di vista identitario. L’Occidente, da parte sua, tenta la carta dell’inserimento culturale e dei propri valori, ricevendo un precario consenso da parte della società civile.
La Cina incontra notevoli problemi in Asia Centrale, con la presenza della struttura islamica di gran parte della società, dell’influenza dell’archetipo pan-Turco, dell’orientamento russofilo delle componenti politiche, delle lusinghe nazionalistiche e dell’espansione dei modelli di comportamento occidentali. Resta sullo sfondo la questione geo-politica dell’influenza esercitata sui Paesi centro-asiatici non solo dalle grandi potenze, ma anche dagli attori regionali di un certo peso. La Cina si pone come elemento di mediazione tra le spinte politiche provenienti da Turchia, Iran, Pakistan e India, senza sottovalutare la non risolta questione afghana sotto l’egida degli Stati Uniti.
Parole-chiave: Cina, Asia Centrale, public diplomacy, neighbourhood diplomacy, Silk Road Economic Belt, Xīnjiāng.
I pilastri della politica estera cinese
Il 19° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese del 18-24 ottobre 2017 ha inserito nello Statuto del Partito il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi. Nel suo report del primo giorno, il Presidente Xi ha rivendicato l’avvio della “Belt and Road Initiative, della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture,[1] del Silk Road Fund”[2] e l’organizzazione del “First Belt and Road Forum for International Cooperation”, aggiungendo “Dovremmo perseguire la Belt and Road Initiative come priorità”[3] e sottolineando l’adesione della Cina a una politica di sviluppo dalle porte aperte.[4]
La Belt and Road Initiative (BRI), rivelata nel 2013 e comprendente le direttrici terrestri della “Zona Economica della Via della Seta” (SREB) e la “Via della Seta Marittima del XXI secolo”, rappresenta oggi un pilastro della politica estera cinese, giudicata vincente da molti analisti. Qui l’attenzione è focalizzata sulla SREB[5] come principale strumento (pur mancando essa stessa di struttura istituzionale) dell’influenza che Pechino intende esercitare sull’Asia Centrale, con le implicazioni geo-politiche che investono prima di tutto l’area più prossima in termini territoriali (Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan confinano con la Cina attraverso la sua Regione Autonoma Uyghura dello Xīnjiāng). Non è un caso che la SREB, dopo una prima formulazione dell’allora Presidente cinese Lĭ Péng in Kazakhstan nel 1994, sia stata annunciata a settembre del 2013 durante una visita di Xi Jinping ad Astana, sempre in Kazakhstan, dove aveva sottolineato che la Cina non ha intenzione di interferire negli affari interni delle nazioni dell’Asia Centrale.[6] In effetti, la principale strategia che dà corpo alla sua politica di non-interferenza è che, contrariamente al comportamento degli Stati cosiddetti “occidentali”, Pechino non subordina gli investimenti a riforme politiche di sorta,[7] mentre i governi centro-asiatici ne raccolgono un effetto economico positivo senza rischi per la stabilità del sistema politico. Fino a marzo 2017 la Cina aveva investito 50 miliardi di dollari e siglato contratti per 305 miliardi per progetti lungo la BRI e nel 2017 il “Belt and Road Forum for International Cooperation” ha annunciato il finanziamento di progetti per ulteriori 80 miliardi.
Dunque, la Cina apre all’Asia Centrale e lo fa lanciando la sua public diplomacy fondata sul suo potenziale economico e su un soft power dal volto amichevole, la “neighbourhood diplomacy”.
Le altre strategie che Pechino ha scelto di perseguire sono le seguenti:
- contrasto all’influenza delle grandi potenze esterne;
- cooperazione economica bilaterale e regionale;
- risoluzione delle controversie sui confini;
- lotta al terrorismo, all’estremismo religioso e all’indipendenza uyghura;
- contributo allo sviluppo delle economie locali;
- accordi multilaterali di sicurezza.
L’EAEU, la diplomazia energetica cinese e lo Xīnjiāng
Pechino deve fare i conti con Mosca, che, per lo meno dalla prima elezione di Putin nel 1999, è tornata a considerare le ex repubbliche centro-asiatiche dell’URSS come il proprio “giardino di casa”.[8]
Putin e Xi Jinping si erano incontrati a Mosca a maggio del 2015 per coordinare uno spazio comune di coesistenza tra la SREB e l’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) patrocinata dalla Russia;[9] e a dicembre successivo i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai avevano firmato una dichiarazione congiunta in tal senso.[10] A luglio del 2017 il Presidente Xi, in visita in Russia, annunciava l’intenzione di varare una cooperazione economica con l’EAEU: subito dopo, il fondo sovrano Russia Direct Investment Fund comunicava una partnership con la banca pubblica China Development Bank per la realizzazione di progetti congiunti.[11] Resta, tuttavia, un diverso approccio tra SREB e EAEU ciascuna nei confronti dei propri partner centro-asiatici: mentre la prima privilegia accordi bilaterali per facilitare gli investimenti cinesi (soprattutto nei settori energetico, infrastrutturale, commerciale e delle comunicazioni), la seconda ha più il carattere di una unione doganale difensiva ed è strutturata come cooperazione concordata con tutti i suoi membri.[12] Questo vuol dire che, mentre Pechino non richiede il concerto delle decisioni tra i Paesi partner per gli investimenti in Asia Centrale, Mosca ha bisogno di decisioni condivise che evidenzino la sua leadership, sollevando quindi barriere protezionistiche, comprese quelle che ostacolano gli “invadenti” investimenti cinesi.
L’approccio centripeta del Cremlino sembra non funzionare, se è vero che negli ultimi anni gli scambi reciproci tra i membri EAEU sono in caduta libera.[13] Ma soprattutto sembra non soddisfare i Paesi divenuti autonomi dal punto di vista energetico. Il Turkmenistan (che non aderisce all’EAEU) e il Kazakhstan[14] hanno ripreso il controllo delle loro produzioni energetiche e delle relative reti di trasporto e dimostrano di privilegiare il bilateralismo tra Stati nella proprietà e nella gestione, aprendo largamente agli investimenti cinesi e facendo della Cina il loro principale partner commerciale.[15] È l’ennesima dimostrazione di come funzioni il “soft power” di Pechino basato sulla cooperazione regionale. La joint-venture tra la China National Petroleum Corporation (CNPC) e la kazaka KazMunayGas ha dato vita all’oleodotto Kazakhstan-Cina di oltre 2.200 km, che dal 2005 congiunge le rive del Mar Caspio con lo Xīnjiāng. E il campo petrolifero offshore di Kashagan nel Mar Caspio, che dall’inizio della produzione nel 2013 è la principale fonte di approvvigionamento dell’oleodotto, ha una partecipazione cinese dell’8,4%, per quanto non sia la maggiore tra gli azionisti. La partnership degli stessi soggetti allargata a Türkmengaz e Uzbekneftegaz ha reso possibile il gasdotto Turkmenistan-Cina di 1.800 km, che dal 2009 congiunge la riva destra dell’Amu Darya, in Turkmenistan, con lo Xīnjiāng attraverso Uzbekistan e Kazakhstan.[16]
Al centro della strategia, dal punto di vista territoriale sta sempre lo Xīnjiāng, che è ricco di risorse energetiche e minerali e dispone di una struttura economico-industriale strategica e ben organizzata per l’intermodalità. Ed è proprio lo Xīnjiāng che è funzionale al disegno complessivo cinese di un’apertura verso l’esterno: per esempio, il Corridoio Economico Sino-Pakistano (CPEC)[17] di 3.000 km, del valore di oltre 50 miliardi di dollari e varato nel 2015, vale a dire l’insieme degli investimenti infrastrutturali da 62 miliardi di dollari attuali destinati all’integrazione delle reti fisiche e di scambio tra i due Paesi, collegherà lo Xīnjiāng al porto meridionale di Gwadar, sul Mar Arabico del Beluchistan.[18] Secondo le stime, oltre 30.000 Pakistani stanno lavorando per il progetto del corridoio. Lungo il percorso CPEC la Cina sta finanziando e realizzando diversi progetti di mega-infrastrutture, comprese reti stradali e ferroviarie e centrali elettriche.[19] Dallo Xīnjiāng partiranno altre linee di comunicazione verso l’Asia Centrale già programmate, tra cui, ad esempio, la ferrovia Kashgar-Kyrgyzstan-Valle uzbeka di Ferghana di 500 km attraverso una catena montuosa alta fino a 2.000-3.500 m s.l.m. e che richiede la costruzione di circa 50 gallerie e oltre 90 ponti.[20] Questo progetto dovrà collegarsi al collegamento ferroviario Valle di Ferghana-Taškent di 1,6 miliardi di dollari, già attivo dal 2016 e finanziato in parte dalla Export-Import Bank of China (Exim Bank) di proprietà statale,[21] ma la cui realizzazione è in fase di stallo per le angosce politiche del governo uzbeko, che paventa di entrare nell’area d’influenza cinese.
I rapporti russo-cinesi in Asia Centrale e la SCO
Dal 2001 i rapporti tra Pechino e Mosca sono sviluppati anche entro il quadro di tre importanti direttrici di politica estera:
- il Trattato di Buon Vicinato e Cooperazione Amichevole tra la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa (FCT), strumento strategico ventennale di fiducia diplomatica e geopolitica;[22]
- l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), conseguente aggregazione regionale di carattere politico, economico e di sicurezza (ma non un’alleanza militare), sostitutiva del Trattato sulla Fiducia Militare nelle Regioni Frontaliere (Gruppo di Shanghai) siglato nel 1996 da Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tajikistan;[23]
- L’accordo siglato nel 2007 a Dushanbe, capitale del Tajikistan, tra SCO e CSTO a guida russa per ampliare la cooperazione in materia di sicurezza, criminalità e traffico di droga.[24]
Oggi la SCO è allargata a Uzbekistan, Pakistan e India e colloquia con altri Stati osservatori e Partner di dialogo; ma la sua struttura di organizzazione paritaria non militare ne limita la capacità decisionale e impositiva. Pechino la considera come strumento di un multilateralismo che pur ricerca in quanto elemento di stabilità (specie per evitare le spinte centrifughe degli Uyghuri dello Xīnjiāng), ma difficilmente utilizzabile per la sua politica di autorevolezza verso i Paesi centro-asiatici. D’altra parte, esclude anche la via della militarizzazione (la sua presenza è veramente limitata), non solo in ossequio alla riconosciuta storica prevalenza militare della Russia nell’area, ma come espressione della volontà politica di non-interferenza impiegata nella politica internazionale anche altrove nel mondo.
Tutti i Paesi dell’Asia Centrale non hanno sbocchi al mare e di conseguenza presentano difficoltà di relazioni commerciali. I loro scambi economici con la Cina, tollerati dal Cremlino sin dal dopo-Brezhnev e ufficialmente riconosciuti con l’inizio della perestrojka, hanno sempre risentito dei rapporti tra Mosca e Pechino. Inoltre, quest’ultima rivendicava un vasto territorio appartenente al Kazakhstan, l’intero Kyrgyzstan, e buona parte del Pamir in Tajikistan.[25] Gran parte delle dispute con le repubbliche centro-asiatiche confinanti sono state definite da trattati siglati tra il 1994 e il 2002, sebbene nessuno di loro sia stato pubblicato dando adito a possibili clausole di segretezza (Peyrouse, 2016). Oggi la Cina vorrebbe sviluppare una Zona di libero scambio con l’Asia Centrale, ma Mosca vi si oppone, temendo il dominio geo-economico cinese tra i membri della SCO. Le reazioni dei Paesi centro-asiatici sono varie: il governo uzbeko vi si oppone nettamente; Kyrgyzstan and Tajikistan sono frenati, perché le rimesse dei milioni di lavoratori emigrati in Russia li legano a Mosca anche nella politica estera. Ciò non impedisce l’apertura degli imprenditori kirghisi che considerano una Zona di libero scambio come complementare all’EAEU,[26] mentre lo stesso Tajikistan ha aperto non solo agli investimenti provenienti dalla Cina, ma anche dall’Iran e dagli Stati Arabi del Golfo.
Complessivamente, i Paesi dell’Asia Centrale, storicamente sotto influenza russa (ma oggi senza i privilegi di un’economia assistita da sussidi federali come ai tempi dell’URSS) (Dwivedi, 2006), giocano un ruolo di equilibrio tra Cina e Russia, aprendo le porte agli aiuti e agli investimenti esteri, specialmente quelli cinesi, pur consapevoli dei potenziali rischi di condizionamento culturale e demografico da parte del vicino gigante. Gli esperti e i circoli accademici locali sottolineano che l’influenza cinese (in prima posizione nelle classifiche commerciali, ma seconda dopo la Russia in quelle culturali) è percepita dall’opinione pubblica in maniera duplice: positivamente dal punto di vista geopolitico, per essere il baluardo alla crescente suggestione occidentale e all’ascendente russo (specialmente Kazakhstan e Turkmenistan, in quanto Stati affacciati sul Caspio e produttori rispettivamente di petrolio e gas); negativamente dal punto di vista identitario.[27]
Comunque la Cina, archiviata buona parte del dossier sulle dispute territoriali con i confinanti, utilizza le nuove aperture offerte dalla SREB, concepito come una rete di accordi bilaterali con mutui vantaggi. Questo apre la possibilità di costituire un corridoio euro-asiatico imperniato sull’Asia Centrale e di interconnessione tra le economie dei Paesi dell’area. L’idea non è nuova e già dal 1992 il Progetto di Sviluppo delle Infrastrutture per il Trasporto Terrestre Asiatico (ALTID) aveva messo insieme 32 Paesi asiatici per consentire la realizzazione delle Autostrade Asiatiche (AH), della Ferrovia Transasiatica (TAR) e dei sottoprogetti di agevolazione del trasporto terrestre, nell’ambito del Commissione Economica e Sociale per l’Asia e il Pacifico dell’ONU (UNESCAP).[28] Ma l’approccio innovativo della SREB sta proprio nella bilateralità degli accordi che la Cina ha promosso.
I problemi cinesi in Asia Centrale e la questione uyghura
La Cina incontra notevoli problemi in Asia Centrale, con la presenza della struttura islamica di gran parte della società, dell’influenza dell’archetipo pan-Turco, dell’orientamento russofilo delle componenti politiche, delle forti lusinghe nazionalistiche e dell’espansione dei modelli di comportamento occidentali. Senza tralasciare, tra l’altro, una crescente sino-fobia, che si manifesta fino al punto da invocare talora la poligamia come argine identitario agli effetti dell’immigrazione cinese (Peyrouse, 2016). Dunque, anche nei Paesi centro-asiatici si utilizza largamente una public diplomacy volta ad orientare l’atteggiamento nei confronti della Cina. Lo stereotipo dell’invasione cinese è utilizzato sempre di più sulla stampa kazakha, kyrgyza e tajika, su cui monta la critica verso l’immigrazione Hàn ai confini occidentali dello Xīnjiāng, facendo gridare all’assimilazione culturale e attribuendo l’intento di interrompere la continuità territoriale tra Uyghuri e comunità di etnia turca dell’Asia Centrale.
Gli Uyghuri, etnicamente vicini agli Uzbeki e ad altre popolazioni dell’Asia Centrale, sono turcofoni Musulmani, in maggioranza Sunniti di scuola giuridico-teologica ḥanafita dal IX-X secolo. Oggi gli Uyghuri stabiliti nella regione dello Xīnjiāng sono 10-15 milioni sui 23 milioni di abitanti residenti nella Provincia Autonoma e sui 30 milioni di Musulmani residenti in Cina; fuori dalla Cina ne sono presenti circa 500 mila, soprattutto in Kazakhstan Kyrgyzstan e Uzbekistan, dove molte associazioni rappresentative sono state sciolte dalle autorità. Il territorio che abitano, similmente a quanto occorso in Tibet, cadde nel XVIII secolo sotto la sovranità cinese della dinastia Qing e poi ereditato dalla Repubblica di Cina nel 1912. Soprattutto a seguito della Rivoluzione dei Tre Distretti (Ili, Tarbagatay, Altaj) che aveva minacciato l’unità cinese dal 1944, con l’avvento della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 quel territorio subì un più stretto controllo. Il regime comunista fu durissimo a causa delle persecuzioni dei credenti, l’ateismo di Stato e l’educazione anti-religiosa.[29] Dopo l’indipendenza raggiunta dagli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale, gli Uyghuri di tutta la regione hanno intravisto la possibilità della creazione di un “Turkestan Orientale” come entità nazionale utile per ricongiungere tutte le popolazioni di etnia e lingua di origine turca. Sia come sia, è proprio nello Xīnjiāng che negli ultimi venti anni il governo ha favorito l’immigrazione degli Hàn, sinofoni indigeni seguaci di religioni tradizionali cinesi o atei, che hanno usufruito delle opportunità offerte in zona nel campo dell’industria energetica o delle costruzioni.[30] La risposta politica di alcune componenti della società uyghura è stata la creazione di movimenti, come:
- i Movimenti per l’Indipendenza del Turkestan Orientale, una galassia di organizzazioni indipendentiste che, in realtà, perseguono fini differenti, da quelli che focalizzano l’attenzione sull’identità etnica uyghura, a quelli che si rifanno ad una più ampia identità religiosa all’interno della Umma islamica e negano persino l’esistenza di una etnia uyghura;
- il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, organizzazione pan-islamista presente in Cina sin dal 1997 e che avrebbe la sua base organizzativa nel Nord Waziristan, in Pakistan, e stretti legami con il Movimento Islamico dell’Asia Centrale (basato in Afghanistan) and Jund al-Khilāfa (Soldati del Califfato);
- il Congresso Mondiale degli Uyghuri, una ONG internazionale con sede a Monaco di Baviera formato da gruppi esiliati che agiscono all’interno e all’esterno dello Xīnjiāng.
Tuttavia, è da riconoscere alla Cina di contribuire allo sviluppo delle economie locali. Dopo il boom degli investimenti energetici, la Cina sta puntando adesso sul settore delle infrastrutture e dei trasporti, mobilitando ingenti risorse finanziate da una poderosa rete bancaria e messe in atto dalle imprese di Stato cinesi. Ma la sua azione si estende ad altri rami dell’economia, intervenendo con le seguenti operazioni:
- nel settore del credito, finanziando progetti di larga scala altrimenti insostenibili per la limitata portata degli istituti bancari locali;
- procurando un impulso per la transizione da un’economia agricola e di industria pesante verso un’economia terziaria, con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro in settori prima inesistenti o sottoutilizzati;
- rifornendo i mercati di prodotti di consumo a basso prezzo (secondo il potere d’acquisto della maggior parte dei consumatori) e di prodotti tecnologici (sempre più richiesti) destinati alle classi medie e alte.[31]
Questa capacità cinese di aggredire i mercati irrita molte sensibilità: quelle dei Paesi occidentali, che dalla stagione delle indipendenze hanno intravisto la possibilità di fare loro quei mercati; quelle della Russia, intesa a mantenere anche adesso la dipendenza da Mosca, come avveniva nel sistema centralizzato sovietico; e quelle dei concorrenti regionali esterni, in primis Turchia e Iran, convinti di poter penetrare quei mercati per affinità etniche o culturali. Certo, oltre ai Paesi esterni infastiditi, ci sono le associazioni uyghure e i produttori locali, che, dopo la privatizzazione dell’economia, con molte difficoltà si sono affacciati sul mercato e subiscono la concorrenza da competitori più forti e meglio organizzati. Questo si ripercuote spesso nella contestazione verso le imprese cinesi presenti sul territorio, accusate di scarsa trasparenza nelle attività, di accaparrarsi l’acquisto dei migliori terreni (soprattutto nel settore agricolo), di discriminare nelle assunzioni i lavoratori locali a favore di quelli cinesi immigrati o anche di preferire coloro che abbiano temporaneamente studiato in Cina.[32]
La new public diplomacy di Pechino
In questo quadro, è evidente la presenza, accanto alla diplomazia classica, di una new public diplomacy in supporto alle politiche geo-economiche perseguite da ciascuno. I target sono quasi sempre i decisori e l’opinione pubblica dei Paesi più promettenti. Gli attori sono spesso i soggetti non-statali espressione degli interessi degli Stati leader o della finanza globalizzata, tra cui:
- nel caso della Cina, specialmente le public companies del settore energetico, capeggiate da PetroChina (della China National Petroleum Corporation) e China Petroleum and Chemical Corporation – SINOPEC (della China Petrochemical Corporation), tutte, se non formalmente di proprietà statale, controllate comunque dallo Stato; ma anche le istituzioni culturali come l’Istituto Confucio e i mass media di stato come l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, il quotidiano Renmin Ribao, quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese, e la China Central Television(CCTV), l’emittente televisiva predominante;
- nel caso degli attori esterni all’area, la Banca Mondiale, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) (dal 2016 partecipata anche dalla Cina) e l’Asian Development Bank (ADB), che in Asia Centrale finanziano numerosi programmi e progetti, alcuni con l’intervento della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB) a trazione cinese;
- ma qualche volta anche i locali protagonisti dei mezzi di comunicazione di massa.
Nella strategia “soft” di Pechino tutto sembra seguire la teoria di “un mondo armonioso[33] attraverso ‘la sottomissione volontaria [degli altri] piuttosto che la forza’ semplicemente attraverso la sua moralità superiore e il suo comportamento esemplare”.[34] Indubbiamente, la Cina segue una propria strada originale di impostazione dei rapporti, quella che Brian Hocking, Professore di Relazioni Internazionali presso la Loughborough University (GB), chiama “modello di diplomazia statalista e gerarchico”.[35] Lo scopo è di invertire la tendenza alla denigrazione della Cina, diffusa soprattutto nel mondo occidentale, ma non solo. Ingrid d’Hooghe, Ricercatrice senior presso l’Istituto olandese di Relazioni Internazionali Clingendael dell’Aja, dice che “la Cina si sente giudicata male dalla comunità internazionale e travisata o addirittura demonizzata dai media stranieri”. E continua: “Per questi motivi, la public diplomacy è diventata una parte essenziale della politica estera e della diplomazia cinese e il Paese ha investito molto tempo ed energie nello sviluppo di strumenti e attività di public diplomacy”.[36]
Xi Jinping, proprio nello stesso discorso del 2013 in cui annunciava la SREB, sottolineava la necessità di puntare sulla cultura, sull’istruzione e sugli interscambi scientifici come strumenti a servizio della politica estera cinese, ben consapevole dell’insufficiente penetrazione cinese in Asia Centrale in termini d’immagine. E ancora raccomandava l’utilizzo di “comunicazioni interpersonali e scambi non governativi, preparando solide opinioni pubbliche e basi sociali per lo sviluppo della SCO”. Uno degli organi che ha beneficiato di questa indicazione proveniente dal massimo livello istituzionale è stato l’Istituto Confucio, per sua natura indirizzato ad aggregare gli interessi culturali attorno alla Cina attraverso l’insegnamento del Mandarino e della letteratura cinese, l’organizzazione di mostre d’arte e concerti, la produzione di programmi televisivi e la promozione di scambi studenteschi. Nell’Asia Centrale i maggiori fruitori di queste strutture sono in Kazakhstan e Kyrgyzstan, ma in generale i costi per accedere a queste opportunità e servizi sono un impedimento non secondario. Per contro, sembra più efficace la strategia attuata negli stessi Paesi dalle emissioni della CCTV in lingua cinese o locale.[37]
A fronte di questo sforzo organizzativo come modalità di public diplomacy, la promozione linguistica e culturale cinese in Asia Centrale non ha dato i suoi frutti migliori presso le opinioni pubbliche locali, soprattutto perché la politica culturale è stata assunta in primo luogo nei confronti della classe dirigente, la più propensa e interessata ad usufruire dei vantaggi apportati dall’influenza economico-culturale cinese e dai conseguenti investimenti. Quest’ultima constatazione potrebbe avallare la tesi di chi attribuisce al “mondo armonioso” cinese un carattere gerarchico, per cui “ ‘armonia’ diventa così ‘armonia dell’élite’ ”.[38] È il riflesso di una concezione che, pur distinguendo tra Stati-target e gruppi-target, privilegia tra i primi quelli che più interessano dal punto di vista della promozione economica e tra i gruppi quelli che in ogni caso influiscono maggiormente sulle decisioni, in particolare nei Paesi dove il potere è fortemente centralizzato come in Asia Centrale. Ed è un retaggio dei metodi di propaganda del regime rivoluzionario da cui quella concezione deriva, anche se, obiettivamente, l’allontanamento da quel modello isolazionista è riscontrabile nell’odierna maggiore apertura ai media internazionali, al dialogo per lo sviluppo, a rendere conto dei successi e dei fallimenti ottenuti.[39] Ma se gli interlocutori di questo processo sono le organizzazioni e i trust imprenditoriali internazionali, poca rilevanza è ancora accordata alle opinioni pubbliche all’interno e all’estero. Anche così si spiegherebbe l’opposizione delle opinioni pubbliche kazakhe, kyrgyse e tajike, non coinvolte nella strategia culturale di Pechino e maggiormente sensibili alle rispettive sirene nazionalistiche.
Viceversa, la Cina (assieme alla Russia) ha sempre discretamente appoggiato i governi locali autoritari e anche le loro repressioni contro le proteste popolari, come quella operata nel 2005 ad Andijon, nella Valle di Ferghana, un’area densamente popolata ed etnicamente composita a cavallo tra Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tajikistan (Dwivedi, 2006). La Valle, storicamente focolaio della ribellione pan-turanica dei Basmači contro i Bolsceviki nel 1918-34, è ancora oggi il motore di molti movimenti islamisti, soprattutto di quelli operanti in Uzbekistan.[40] Tuttavia, mentre le responsabilità islamiche delle proteste di Andijon sarebbero state escluse in seguito, il regime dell’allora Presidente Islom Abdug’anievič Karimov approfittò sul momento per evidenziare il pericolo della militanza islamista nel Paese al fine di giustificare il massacro anche a livello internazionale. La SCO, da parte sua, liquidava le proteste come un complotto terroristico.[41] Un chiaro segnale per Taškent, che infatti da allora rivide le sue posizioni di indipendenza in politica estera rivendicata nei sette anni precedenti. Così come non si contano le pressioni esercitate sui governi locali, per esempio quando nazionalisti russi in Kazakhstan hanno invocato l’intervento militare del Cremlino nel 2016 per controbattere alle contestazioni popolari e alla sfida terroristica che il governo non sarebbe stato in grado di controllare (International Crisis Group, 2017).
L’approccio multilaterale
L’approccio dell’appeasement basato sugli accordi bilaterali non significa che Pechino non curi i grandi quadri internazionali per rafforzare il proprio ruolo leader come punto di riferimento per i Paesi asiatici in via di sviluppo tramite l’interconnessione tra varie istituzioni di cooperazione regionale. Abbiamo già accennato alla SCO come aggregazione regionale per regolare i rapporti con Mosca. Ma la Cina partecipa a vario titolo anche alle attività delle seguenti organizzazioni o iniziative:
- la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB), fondata nel 2015 e finanziata per 1/3 dalla Cina;[42]
- la Conferenza sull’Interazione e le Misure di Rafforzamento della Fiducia in Asia (CICA), un forum multinazionale fondato nel 1992 per rafforzare la cooperazione per promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità in Asia e che ha tenuto il suo primo vertice nel 2002.[43] Ha concluso memorandum d’Intesa con SCO e ASEAN;
- il Programma di Cooperazione Economica Regionale dell’Asia Centrale (CAREC), istituito nel 1997 [nella foto sotto, l’inaugurazione dell’Istituto CAREC a Ürümqi a settembre 2017];[44]
- l’East Asia Summit (EAS);[45]
- il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU (ECOSOC), istituito per coordinare il lavoro economico e sociale delle 15 agenzie specializzate dell’ONU. La Cina è stata eletta nell’ECOSOC dall’Assemblea Generale dell’ONU per il periodo 2017-19.[46]
Contemporaneamente, la Cina sta ricercando accordi con organizzazioni simili spesso in concorrenza:
- l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza militare guidata dalla Russia dal 1992 e che oggi include, tra gli altri, il Kazakhstan, il Kyrgyzstan e il Tajikistan;[47]
- l’Organizzazione di Cooperazione Economica (ECO), fondata nel 1985 a Tehrān per migliorare lo sviluppo e promuovere il commercio e le opportunità di investimento;[48]
- l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN)[49] attraverso l’ASEAN Plus Three (APT),[50] un forum che ha avuto inizio nel 1997 per coordinare la cooperazione tra ASEAN e Cina, Giappone e Corea del Sud.
In tutto questo l’Occidente, conscio della propria debolezza economica e politica nell’area, tenta la carta dell’inserimento culturale e dei propri valori, ricevendo un precario consenso da parte della società civile per le evidenti resistenze ad abbandonare una spiritualità tradizionale e a cambiare rapidamente un modo di vivere delle popolazioni sedimentato attraverso i secoli.[51] Ma anche scontentando le élite locali, che vedono negli appelli alla democratizzazione della società un attacco alle loro leadership e nell’enfatizzazione del pericolo terrorista un pretesto per la militarizzazione dell’area. Insomma, tutto il contrario della politica di non-interferenza cara a Pechino. Inoltre, il ruolo rilevante delle multinazionali e delle organizzazioni internazionali, che esercitano le proprie public diplomacies, limita le interpretazioni di chi evoca un “Nuovo Grande Gioco” in atto in Asia Centrale. Anche perché la competizione per le risorse in Asia Centrale coinvolge altri nuovi poteri regionali che non le grandi potenze globali, quali, ad esempio, quelli agenti per conto di India, Giappone e Corea del Sud (Smith Stegen & Kusznir, 2015).
La questione geo-politica
Resta sullo sfondo la questione geo-politica dell’influenza esercitata sui Paesi centro-asiatici non solo dalle grandi potenze, ma anche dagli attori regionali di un certo peso.
La Russia, oltre ai già considerati interessi strategici sulle risorse energetiche centro-asiatiche, ha anche il problema politico della stabilità regionale e della protezione delle minoranze russe insediate in Asia Centrale. Per questo, sotto l’ombrello della CSTO, la Federazione Russa opera tuttora in Tajikistan la 201a Base Militare di Dushanbe e in Kyrgyzstan la Kant Air Base, un centro per la comunicazione navale a 20 km dalla capitale Bishkek e confermata nel 2013 dietro riduzione del debito kyrgyso di 500 milioni di dollari USA. Inoltre, Mosca fornisce ad Astana tutte le componenti di un sistema difensivo (tra cui quello aereo) che inevitabilmente la lega agli interessi russi.
Gli Stati Uniti dal 2011 hanno una propria versione di New Silk Road, incentrata sull’Asia Centrale e sull’Afghanistan e soprattutto sui progetti in attuazione del gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI), lungo 1.735 km, e del progetto Asia Centrale-Asia Meridionale (CASA-1000) per l’esportazione del surplus di energia idroelettrica da Tajikistan e Kyrgyzstan verso Pakistan e Afghanistan.[52] Mentre è ormai scontato un disimpegno militare dai Paesi dell’Asia Centrale,[53] è più che evidente un crescente interesse USA, oltre che verso il consolidamento dell’Afghanistan (che occupa militarmente), anche verso l’apertura all’India, che dal punto di vista economico è il secondo Paese importatore di energia dall’Asia Centrale dopo la Cina[54] e dal punto di vista politico sostiene l’Afghanistan in funzione anti-pakistana.[55] È il tentativo di strappare l’India alla storica influenza russa per creare un asse filo-americano Kabul-Delhi da contrapporre a quello sempre più stretto tra Pechino e Islamabad, un alleato USA sempre più in bilico.[56] Intanto, sia l’India sia il Pakistan sono membri della SCO, su cui si regge l’accordo tra Pechino e Mosca, ma il Corridoio Economico Sino-Pakistano comprende interventi nella parte di Kashmir gestito di fatto dal Pakistan e che l’India reclama come suo territorio.[57] E certo la presenza della base aerea indiana a Farkhor, in Tajikistan, non facilita la distensione, vista l’apprensione pakistana per la vicinanza al suo confine in termini di minuti di volo.
Nella questione geo-politica non è da sottovalutare il ruolo che la Turchia esercita sui Paesi centro-asiatici. Il Consiglio di Cooperazione dei Paesi Turcofoni (CCTS),[58] nato nel 2009 nella Repubblica Autonoma azera del Naxçıvan, accoglie, oltre alla Turchia, anche Azerbaijan, Kazakhstan e Kyrgyzstan come “prima alleanza volontaria degli Stati turcofoni nella storia”, secondo le parole del suo primo Segretario Generale.[59] Tra i suoi scopi, spicca per ambizione quello di sviluppare posizioni comuni in ambito multilaterale tra gli Stati turcofoni. Ora, per quanto riguarda i due Paesi membri centro-asiatici, Kazakhstan e Kyrgyzstan aderiscono alla SCO, ma soprattutto alla CSTO e all’EAEU a guida russa. Gli altri due Paesi turcofoni, il Turkmenistan e l’Uzbekistan, non aderiscono all’organizzazione in virtù della loro posizione di neutralità, ma non è in discussione l’influenza culturale di cui sono oggetto da parte di Ankara o meglio, in termini storici, da parte di Istanbul. Tutti, in ogni caso, sono oggetto anche della politica di “soft power” cinese, quanto meno sulla scorta della realizzazione in corso dei progetti SREB. La cooperazione tra i Paesi CCTS riguarda economia, cultura, istruzione, trasporti, dogane e diaspora. Ancora un altro elemento di contrasto potrebbe essere proprio la questione della diaspora, perché inevitabilmente investe la questione uyghura. Gli Uyghuri esuli dallo Xīnjiāng, lo abbiamo visto, vivono principalmente in Kazakhstan, Kyrgyzstan e Uzbekistan. Un eventuale patrocinio turco sulla diaspora uyghura sfiderebbe certamente la posizione cinese di intransigenza mantenuta nei rapporti con i partner centro-asiatici in ordine ad un presunto pericolo terroristico. Ma non è ipotizzabile uno scontro aperto Pechino-Ankara su questi temi, proprio perché il “soft power” cinese ha coinvolto la Turchia nel New Eurasian Land Bridge come parte fondamentale del suo progetto di orientamento geo-strategico ad ovest.
La stessa logica può essere applicata nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran, visto l’accordo da 2,2 miliardi di dollari raggiunto a maggio 2017 per il finanziamento del progetto della linea ferroviaria Tehrān-Mashhad, di cui è responsabile la China National Machinery Import and Export Corporation (CMC).[60] Due terzi del contratto sono finanziati dal governo cinese e il resto è coperto dall’assicuratore cinese China Export & Credit Insurance Corporation Sinosure. Il percorso creerebbe una condizione favorevole per il trasporto di merci ed energia tra l’Iran e la Cina, che hanno fissato un obiettivo commerciale bilaterale a lungo termine di 600 miliardi di dollari l’anno.[61]
Così, la Cina si pone come elemento di mediazione tra le spinte politiche provenienti da Turchia, Iran, Pakistan e India, senza sottovalutare la non risolta questione afghana sotto l’egida degli Stati Uniti. Anche su questo argomento la Cina ha bisogno di una public diplomacy che la proponga alle opinioni pubbliche nazionali come “elemento diverso” rispetto alle cattive gestioni finora attuate in Asia Centrale tanto delle crisi quanto dei normali meccanismi di governo delle economie e dello sviluppo.
[1] Si tratta di una banca multilaterale di sviluppo entrata in esercizio nel gennaio 2016 con la missione di migliorare i risultati sociali ed economici in Asia e non solo. Vedi AIIB, Asian Infrastructure Investment Bank (s.d.). https://www.aiib.org/en/about-aiib/index.html.
[2] Nato nel 2014 con un finanziamento cinese di 40 miliardi di dollari e incrementato di 15 miliardi nel 2017, il Fondo “fornisce supporto finanziario e di investimento per la cooperazione commerciale e economica e la connettività nel quadro della Zona Economica della Via della Seta e dell’iniziativa Via della Seta Marittima del XXI secolo”. Vedi Silk Road Fund (s.d.), Purpose and Objectives, http://www.silkroadfund.com.cn/enweb/23775/23767/index.html#homezd.
[3] Full text of Xi Jinping’s report at 19th CPC National Congress (04-11-2017). Vedi http://www.chinadaily.com.cn/china/19thcpcnationalcongress/2017-11/04/content_34115212.htm, I The Past Five Years: Our Work and Historic Change e 6. Making new ground in pursuing opening up on all fronts.
[4] “La Cina promuoverà attivamente la cooperazione internazionale attraverso la Belt and Road Initiative. In tal modo, speriamo di raggiungere la connettività politica, infrastrutturale, commerciale, finanziaria e interpersonale e creare così una nuova piattaforma per la cooperazione internazionale per creare nuovi stimoli di sviluppo condiviso”. Ibid., XII Following a Path of Peaceful Development and Working to Build a Community with a Shared Future for Mankind.
[5] In particolare, sul New Eurasian Land Bridge che è il ramo meridionale SREB. Si tratta di un lungo corridoio da Xī’ān (Provincia cinese di Shaanxi) a Lánzhōu (Provincia di Gānsu), Ürümqi e Qorğas (Xīnjiāng) verso Kazakhstan, Iran, Iraq, Siria, Turchia, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Germania e Olanda. L’altro ramo è quello collegato alla storica ferrovia settentrionale Transiberiana.
[6] Michelle Witte (11 settembre 2013). Xi Jinping Calls For Regional Cooperation Via New Silk Road. Vedi https://astanatimes.com/2013/09/xi-jinping-calls-for-regional-cooperation-via-new-silk-road/
[7] Karen Smith Stegen & Julia Kusznir (2 aprile 2015). Outcomes and strategies in the ‘New Great Game’: China and the Caspian states emerge as winners. Hanyang University, Asia-Pacific Research Center, Journal of Eurasian Studies 6 (2015), pagg. 100-102.
[8] Arif Bağbaşlıoğlu (2014). Beyond Afghanistan NATO’s partnership with Central Asia and South Caucasus: A tangled partnership?. Hanyang University, Asia-Pacific Research Center, Journal of Eurasian Studies 5 (2014), pag. 96.
[9] Nata nel 2014 e operativa dall’anno successivo, vi appartengono, oltre alla Russia, anche Armenia, Bielorussia, Kazakhstan e Kyrgyzstan. Vedi EAEU, Eurasian Economic Union (s.d.), http://www.eaeunion.org/?lang=en#about.
[10] Li Xin (Novembre 2016). Chinese Perspective on the Creation of a Eurasian Economic Space. Valdai Discussion Club Report, Moscow, pag. 9.
[11] Max Seddon (4 luglio 2017). Russia, China form $10bn investment fund. Vedi Financial Times, https://www.ft.com/content/e863b62f-1bb2-3a91-869b-e2f11984e0df.
[12] Il Presidente Putin ha prospettato l’idea di un’unione sovranazionale tra tutti Paesi ex-sovietici (esclusi i Paesi Baltici). Per quanto riguarda gli Stati centro-asiatici, il Kazakhstan (che aderisce all’EAEU) ha escluso l’evoluzione verso un’integrazione politica, il Tajikistan ha finora manifestato solo un generico interesse e l’Uzbekistan oppone dubbi all’integrazione entro una tale prospettiva. Il Turkmenistan, seguendo una propria linea costituzionale di permanente neutralità riconosciuta dall’ONU, non aderisce a nessuna delle organizzazioni regionali.
[13] International Crisis Group (27 luglio 2017). Central Asia’s Silk Road Rivalries, in Europe and Central Asia Report N°245, Brussels, Belgium, Executive Summary.
[14] Sin dal 2007 il Kazakhstan aveva rafforzato il pacchetto azionario esercitato dalla società di stato KazMunayGas (KMG) ai danni degli investitori occidentali e cinesi del settore.
[15] Kazakhstan e Cina hanno firmato oltre venti accordi energetici per un valore di 30 miliardi di dollari USA. Proprio in merito a questo primato cinese, molti analisti kazakhi sollevano dubbi sulla correttezza degli appalti, sulla loro rimuneratività sul lungo periodo e sui rischi di carattere ambientale non adeguatamente valutati. A sua volta, il Turkmenistan esporta verso la Cina la metà della sua produzione, dopo aver sospeso le vendite verso la Russia e l’Iran.
[16] K. Smith Stegen & J. Kusznir (2015). Outcomes and strategies in the ‘New Great Game’, cit., pagg. 101-102.
[17] Parte del 13° piano quinquennale cinese 2016-2020.
[18] Glauco D’Agostino (30 agosto 2016). Cina: il Comunismo delle repressioni anti-musulmane e dello… sviluppo iper-capitalista. Vedi Islamic World Analyzes, https://www.islamicworld.it/wp/iwa-monthly-focus-24/
[19] Tra queste, l’Autostrada Cina-Pakistan del Karakorum, la strada internazionale asfaltata più alta del mondo (fino a 4.693 metri di altitudine).
[20] Kamila Aliyeva (27 dicembre 2017). China, Kyrgyzstan, Uzbekistan to mull railway construction. Vedi https://www.azernews.az/region/124688.html.
[21] P. K. Balachandran (7 ottobre 2017). China and Russia struggle to gain control over Central Asia. Vedi http://www.ft.lk/columns/China-and-Russia-struggle-to-gain-control-over-Central-Asia/4-641055.
[22] Ramakant Dwivedi (Novembre 2006). China’s Central Asia Policy in Recent Times. Central Asia-Caucasus Institute & Silk Road Studies Program, China and Eurasia Forum Quarterly, Volume 4, No. 4 (2006), pag. 145.
[23] Sébastien Peyrouse (2016). Discussing China: Sinophilia and sinophobia in Central Asia. Hanyang University, Asia-Pacific Research Center, Journal of Eurasian Studies 7 (2016), pag. 16.
[24] Valerie A. Pacer (2016). Russian Foreign Policy under Dmitry Medvedev, 2008-2012. Routledge, New York, NY, pag. 23.
[25] A luglio del 1986 Mikhail Gorbačëv, allora Segretario Generale del PCUS, aprì con la Vladivostok Initiative alla possibilità di definire amichevolmente le dispute territoriali tra URSS e Repubblica Popolare Cinese, risalenti a presunte annessioni dell’Impero Russo degli Tsar. Vedi R. Dwivedi (2006), China’s Central Asia Policy in Recent Times, cit., pag. 140.
[26] International Crisis Group (2017). Central Asia’s Silk Road Rivalries, cit., pag. 22.
[27] S. Peyrouse (2016). Discussing China, cit., pag. 19.
[28] Nicola P. Contessi (2016). Central Asia in Asia: Charting growing trans-regional linkages. Hanyang University, Asia-Pacific Research Center, Journal of Eurasian Studies 7 (2016), pag. 5.
[29] G. D’Agostino (2016). Cina: il Comunismo delle repressioni anti-musulmane e dello … sviluppo iper-capitalista, cit.
[30] Molti analisti pensano (ed è la stessa percezione degli Uyghuri) che questa immigrazione indotta sia stata programmata per edulcorare l’identità etnica e religiosa nella Provincia Autonoma, specialmente nei maggiori centri urbani.
[31] S. Peyrouse (2016). Discussing China, cit., pag. 17.
[32] International Crisis Group (2017). Central Asia’s Silk Road Rivalries, cit., pag. 12.
[33] Il concetto si riferisce a quello espresso nel 2005 dall’allora Presidente cinese Hu Jintao al Vertice del 60° anniversario dell’ONU. Vedi R. E. Poole (2014), China’s ‘Harmonious World’ in the Era of the Rising East, in Inquiries Journal / Student Pulse, Vol. 6 No. 10.
[34] Astrid Nordin (Maggio 2014). Radical Exoticism: Baudrillard and Others’ Wars, in The International Journal of Baudrillard Studies, Special Issue Baudrillard and War, Vol. 11, No. 2.
[35] Brian Hocking (2005). Rethinking the ‘New’ Public Diplomacy, in Jan Melissen, The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, Palgrave Macmillan, New York, N.Y., Part I The New Environment, pag. 29.
[36] Madariaga College of Europe Foundation (13 gennaio 2015). The rapid development of China’s public diplomacy: What does it mean for Europe? Madariaga Report, Brussels, Belgium, pag. 2.
[37] Diana Gurbanmyradova (2015). The Sources of China’s Soft Power in Central Asia: Cultural Diplomacy. Central European University, Department of International Relations and European Studies, Budapest, Hungary, pagg. 25-37.
[38] R. E. Poole (2014), China’s ‘Harmonious World’ in the Era of the Rising East, cit.
[39] Ingrid d’Hooghe (2005). Public Diplomacy in the People’s Republic of China, in Jan Melissen, The New Public Diplomacy, cit., Part II Shifting Perspectives, pagg. 88-105.
[40] Glauco D’Agostino (3 novembre 2013). Il revival islamico in Asia Centrale. Vedi Islamic World Analyzes, https://www.islamicworld.it/wp/iwa-monthly-focus-6/
[41] Questa non fu l’unica strage compiuta dai governi locali, perché almeno altre due se ne possono annoverare negli anni recenti, seppure con diverse origini: quella nel 2011 a Zhanaezen, città petrolifera del Kazakhstan vicino al Mar Caspio; e quella nel 2012 del Gorno-Badakhshan, Provincia semi-autonoma del Tajikistan.
[42] All’attualità, i membri sono 61 (Membri Regionali: 40, Membri Non-Regionali: 21) e altri 23 Paesi sono stati approvati come Membri Potenziali. Vedi AIIB, Asian Infrastructure Investment Bank (s.d.), cit.
[43] Vi appartengono nella qualità di membri, oltre a Cina e Russia, quasi tutti i Paesi dell’Asia centro-meridionale (meno Turkmenistan, Nepal, Sri Lanka, Myanmar e Malaysia), dell’Indocina (meno il Laos), molti Paesi del Medio-Oriente, la Mongolia e la Corea del Sud. Vedi CICA, Secretariat of the Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia (s.d.), About CICA, http://www.s-cica.org/page.php?page_id=7&lang=1.
[44] Vi appartengono, oltre alla Cina, i cinque Stati centro-asiatici, Afghanistan, Pakistan, Azerbaijan, Georgia e Mongolia. Vedi CAREC (s.d.), CAREC Countries, http://www.carecprogram.org/index.php?page=carec-countries.
[45] Vi appartengono, oltre alla Cina, tutti i Paesi ASEAN, l’Australia, l’India, il Giappone, la Nuova Zelanda, la Corea del Sud e, dal 2011, Russia e Stati Uniti. Vedi ADB, Asian Development Bank, Asia Regional Integration Center (s.d.), East Asia Summit (EAS), https://aric.adb.org/initiative/east-asia-summit-(eas).
[46] ECOSOC 70, United Nations Economic and Social Council (s.d.). Members. Vedi https://www.un.org/ecosoc/en/content/members.
[47] L’Alleanza, cui aderiscono anche Armenia e Bielorussia, ha accolto l’Uzbekistan tra i membri a pieno titolo nei periodi 1994-99 e, dopo la strage di Andijon, 2006-12. Vedi Организация Договора о коллективной безопасности (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) (s.d.), Basic facts, http://www.odkb.gov.ru/start/index_aengl.htm.
[48] Vi appartengono, oltre a Iran, Pakistan e Turchia quali Paesi fondatori, tutte le Repubbliche centro-asiatiche, Afghanistan e Azerbaijan. Vedi Economic Cooperation Organization (s.d.), Member States, http://eco.int/index.php?module=cdk&func=loadmodule&system=cdk&sismodule=user/content_view.php&sisOp=view&ctp_id=23&cnt_id=85059&id=3403.
[49] Nata nel 1967 all’insegna del Pan-Asianismo, comprende Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Cambogia, Laos, Myanmar e Vietnam. Vedi Association of Southeast Asian Nations (s.d.), ASEAN Member States, http://asean.org/asean/asean-member-states/
[50] Association of Southeast Asian Nations (s.d.). ASEAN Plus Three. Vedi http://asean.org/asean/external-relations/asean-3/
[51] China minister warns against seduction of values by Western nations (17 novembre 2017). Vedi https://www.reuters.com/article/us-china-politics-culture/china-minister-warns-against-seduction-of-values-by-western-nations-idUSKBN1DH0AU.
[52] Jeffrey Mankoff (Gennaio 2013). The United States and Central Asia after 2014. CSIS, Center for Strategies and International Studies, Washington, DC, pag. 5.
[53] Gli Stati Uniti hanno abbandonato la base aerea uzbeka di Karshi-Khanabad nel 2005 (dopo il massacro di Andijon) e quella kyrgysa di Manas (ad appena 200 km dal confine cinese) nel 2014 per volere dell’allora Presidente Almazbek Atambaev. Quanto alle altre basi di Paesi NATO in Asia Centrale, quella francese a Dushanbe, in Tajikistan, è stata evacuata nel 2013 e quella tedesca di Termez, in Uzbekistan, è stata lasciata nel 2015.
[54] Ambrish Dhaka (2014). Factoring Central Asia into China’s Afghanistan policy. Hanyang University, Asia-Pacific Research Center, Journal of Eurasian Studies 5 (2014), pag. 101.
[55] Bisogna ricordare che l’India ha favorito l’entrata dell’Afghanistan nell’Associazione Sud-Asiatica per la Cooperazione Regionale (SAARC), una specie di organizzazione geopolitica comprendente anche Pakistan, Bangladesh, Nepal, Bhutan, Maldive e Sri Lanka. Inoltre, “L’India è impegnata in diversi importanti progetti di costruzione in Afghanistan. Ha costruito l’autostrada strategica Zaranj-Delaram, che collega l’Afghanistan con il porto iraniano di Chabahar, riducendo così la dipendenza dell’Afghanistan dal porto di Karachi.” Vedi Shazad Ali (27 marzo 2014), India: jostling for geopolitical control in Afghanistan, https://www.opendemocracy.net/opensecurity/shazad-ali/india-jostling-for-geopolitical-control-in-afghanistan.
[56] Asif Aziz (29 ottobre 2017). Afghanistan Challenge: Washington-Kabul-New Delhi Axis is Unlikely to Succeed. Vedi https://astutenews.com/2017/10/29/afghanistan-challenge-washington-kabul-new-delhi-axis-is-unlikely-to-succeed/
[57] Ivan Lidarev (4 gennaio 2018). 2017: A Tough Year for China-India Relations. Vedi The Diplomat, https://thediplomat.com/2018/01/2017-a-tough-year-for-china-india-relations/
[58] Republic of Turkey, Minister of Foreign Affairs (s.d.). The Cooperation Council of Turkic Speaking States. Vedi http://www.mfa.gov.tr/turk-konseyi-en.en.mfa.
[59] Rusif Huseynov (23.07.2017). Azerbaijan – Kazakhstan relations: current situation and prospects. Vedi Przegląd Politologiczny, Poltitical Science Review, http://pressto.amu.edu.pl/index.php/pp/article/view/10648/10236.
[60] Come società controllata dal China General Technology Group, CMC è un’appaltatrice internazionale di ingegneria in infrastrutture di trasporto, impianti industriali e centrali elettriche. Nel 2014 la società ha costruito la ferrovia ad alta velocità Ankara-Istanbul, assieme alla China Railway Construction Corporation e a società turche.
[61] Saeed Jalili (14 giugno 2017). Iran, China Team Up on New Silk Road Project. Vedi https://financialtribune.com/articles/domestic-economy/66450/iran-china-team-up-on-new-silk-road-project.
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