IWA MONTHLY FOCUS

LOSANNA: PRESUPPOSTO PER UN NUOVO MEDIO ORIENTE?

Primo atto di un percorso verso una nuova stabilità. Cade il veto ideologico verso la Repubblica Islamica dell’Iran, con effetti che potrebbero anche cambiare gli equilibri medio-orientali

di Glauco D’Agostino

Leon Belly, Pilgrims Going to Mecca, 1861 (Musée d’Orsay, Parigi)

Il senso costruttivo dell’Intesa

Losanna ritorna nella Storia come simbolo di accordo e di ridefinizione dei rapporti tra Stati. Così come nel 1923 proprio nella città svizzera la Turchia definiva i suoi confini, contestando alle Potenze Alleate vincitrici le risultanze dell’iniquo Trattato di Sèvres del 1920 (vedi cartina sotto), e così come nella stessa località nel 1932 Gran Bretagna e Francia consentivano alla Germania di sospendere i pagamenti per i danni di guerra imposti dall’altrettanto iniquo Trattato di Versailles del 1919, così a Losanna l’accordo “quadro” raggiunto all’inizio dello scorso aprile tra Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Germania, Unione Europea e Iran regola le modalità con cui viene consentito alla Repubblica Islamica di sviluppare un proprio programma nucleare, con la conseguente cancellazione delle sanzioni stabilite nel 2006 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Le tre conferenze internazionali citate hanno in comune la volontà di raggiungere un compromesso per riparare a ingiusti gravami imposti sulla sovranità o sull’agibilità internazionale di altrettanti Stati. La più rilevante differenza, però, sta nel fatto che dopo la Prima Guerra Mondiale i belligeranti trionfatori avevano infierito su due Imperi usciti sconfitti dal conflitto e su cui era stato posto il tallone della rivalsa; mentre, nel caso dell’Iran, l’accanimento nei suoi confronti non aveva alcuna giustificazione, se non l’opposizione ad assetti interni non graditi alle super-potenze o, dopo la caduta dell’URSS, alla super-potenza mondiale: una sorta di scomunica per aver rappresentato l’unica realtà refrattaria all’”obbligo” di allinearsi ad uno degli schieramenti della Guerra Fredda.

Certo, l’accordo di aprile 2015 è soltanto di contesto e non sono pochi gli ostacoli che i governi (specie quelli americano e iraniano) dovranno superare nelle rispettive Assemblee legislative prima che l’accordo trovi una sua effettiva formulazione in un articolato condiviso.

Tuttavia, al di là del merito sulla contesa attorno al nucleare, la firma dell’accordo con l’Iran assume una valenza ben maggiore per quanto riguarda i rapporti tra gli Stati del Medio Oriente e le potenze internazionali e per quelli, certo complessi, tra i maggiori attori regionali dell’area.

Intanto, l’Iran consegue due importanti risultati:

         a)      Gli viene riconosciuto il ruolo di interlocutore diretto (e non per delega) nelle questioni internazionali di rilevanza regionale e non solo;

         b)      Cade per la Repubblica Islamica il veto ideologico che l’aveva tenuta ai margini degli avvenimenti e del dibattito politico per la risoluzione dei contrasti territoriali, etnici e religiosi così frequenti nell’area.

Ma l’inclusione dell’Iran in questo contesto, proprio perché genera la presa d’atto dell’importanza del suo contributo ad una costruzione dei rapporti regionali che sia solida e credibile, produce effetti che potrebbero anche cambiare gli equilibri medio-orientali:

         1.      Potrebbe avviare la discussione per un riassetto della strutturazione territoriale e ridefinire dipendenze, alleanze e solidarietà politiche;

         2.      Potrebbe contribuire a ricomporre i rapporti di convivenza tra gruppi sociali, etnici e religiosi, oggi compromessi da spinte interessate allo scontro e all’enfatizzazione delle loro divisioni;

         3.      Potrebbe attenuare pressioni nazionalistiche, ingiustificate alla luce della recente formazione di molte delle entità statuali attualmente in essere.

In sostanza, mai come adesso si avverte la necessità di pervenire ad un nuovo assetto del Medio Oriente che concretamente tenga conto degli interessi e dei rapporti di forza presenti sul terreno. E Losanna potrebbe rappresentare il primo atto di un percorso in questa direzione, il primo evento diplomatico volto ad un più ampio accordo che stabilizzi la regione su basi realistiche e attuali e non su presupposte assegnazioni di potestà vecchie ormai di un secolo.

Forse per il Medio Oriente serve un nuovo Congresso di Vienna, il corrispettivo di quello che consentì all’Europa di strutturarsi stabilmente dopo le pericolose e demagogiche avventure scaturite dalla Rivoluzione Francese. E questo lo si può fare se saranno coinvolti tutti i soggetti portatori di istanze territoriali, ideali e sociali, senza esclusioni aprioristiche e chiusure di principio.

L’antagonismo turco-iraniano e l’asse Tehrān-Damasco

Ovviamente, la strada è lastricata di insidie, che sono riconducibili alle rivalità presenti in loco. Senza infingimenti di natura diplomatica, è patente l’antagonismo fra le tre principali potenze regionali: l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita, impegnate in una contesa per il controllo delle zone d’influenza cui ognuna di loro aspira. Ma non sono da sottovalutare le spinte provocate da soggetti politici e religiosi non istituzionali, che giocano un ruolo non secondario negli equilibri regionali e che richiedono ascolto in quanto interpreti di pressanti sollecitazioni popolari.

Dopo Losanna, subito sono insorti i primi problemi. Le preoccupazioni di Ankara sono emerse pubblicamente, facendo elevare i toni del confronto con Tehrān, allo stesso tempo condotti senza giungere al punto da far temere un’irreparabile rottura. Durante gli incontri del Presidente turco Erdoğan con il Presidente iraniano Ruhani (nella foto sopra) e la Guida Suprema Āyatollāh Khāmene’i il 7 aprile scorso a Tehrān, sono apparsi chiari i contrasti sulle rispettive posizioni in tema di Siria e Yemen, le due più spinose questioni nel Medio Oriente attuale. E pur tuttavia, sono prevalse le considerazioni sulle priorità del buon vicinato tra due Paesi che da secoli si rispettano, consapevoli delle responsabilità assunte nei confronti di comunità ben più ampie di quelle presenti entro i loro confini nazionali, per oneri di natura storica e religiosa. “I due Paesi condividono una frontiera, che è il confine più pacifico in Medio Oriente dal XVII secolo, e hanno notevole energia e legami economici” dice Fadi Hakura, esperto di Turchia presso l’Istituto Reale di Affari Internazionali Chatham House. Un giudizio che aiuta a comprendere la sostanziale accettazione turca dell’attuale ruolo dell’Iran.

Sul tavolo, tuttavia, resta ineludibile soprattutto la considerazione del patto ferreo tra Iran e Siria, che dura ormai da 35 anni con il disappunto di Ankara. E da quasi un anno deve confrontarsi con l’inedita situazione della formazione di una nuova entità istituzionale sopra-nazionale, lo Stato Islamico, il quale è in grado di controllare le frontiere, far rispettare le decisioni del suo governo, sfruttare risorse energetiche, esigere tributi. Di certo il legame tra gli Āyatollāh e gli Asad (nella foto sopra, Baššar al-Asad con il Rahbar Khāmene’i) fonda la sua robustezza su almeno tre elementi di base che formano sinergia:

        a)      Il comune interesse storico al controllo su aree limitrofe ai due Paesi, specificamente il Libano per la Siria e l’Iraq per l’Iran;

        b)      I diversi target della loro azione politica, essendo la Siria storicamente dedita alla realizzazione di una unità pan-araba e l’Iran volto alla costruzione di un universalismo islamico;

        c)      La volontà di superare il settarismo possibilmente derivante dalle rispettive posizioni ideali (il Ba’athismo per la Siria, lo Sciismo rivoluzionario per l’Iran), con il fine di conseguire reciproci vantaggi non concorrenziali.

Questa lettura potrebbe effettivamente spiegare la solidità di questa alleanza, fugando le preoccupazioni di quanti, tra i Sunniti, concepiscono l’intesa Tehrān-Damasco fondata sui presupposti del comune culto sciita, perché, come è noto, il regime siriano ha carattere laico e tra gli Sciiti Duodecimani (l’osservanza religiosa degli Iraniani) c’è chi addirittura non considera musulmani gli `Alawīti (l’osservanza religiosa degli Asad al potere, minoritaria in Siria). Si tratterebbe, invece, di un patto strategico a carattere politico ed economico, facilitato anche dalla crescente popolarità dell’Iran presso le masse arabe, a prescindere dalla consonanza rispetto al dogma o alla pratica devozionale sciita.

L’alleanza Siria-Iran ha sostanzialmente delle ragioni storiche che danno conto del suo carattere difensivo: e precisamente l’aggressione dell’Iraq di Ṣaddām Ḥusayn contro la neo-Repubblica Islamica dell’Iran nel 1980; e quella di Israele contro il Libano nel 1982. L’antefatto è ovviamente la Rivoluzione Islamica in Iran nel 1979. Siamo nel pieno periodo della Guerra Fredda e le super-potenze giocano alla guerra per delega in tutto il mondo, confidando nella fedeltà dei loro alleati. In Medio Oriente l’URSS aveva forti rapporti con la Siria, soprattutto di sostegno militare, mentre gli Stati Uniti puntavano sul ruolo di Israele, Turchia, Arabia Saudita e Iran. La caduta dello Shāh e l’insorgere di un terzo incomodo, l’Iran di Khomeini, che si rifiuta di chinarsi di fronte alle lealtà pretese dalle super-potenze, mette in crisi le strategie in fondo concordanti di USA e URSS, quelle che dal 1945 non consentivano eccezioni a questo schema inossidabile. Altro che Guerra Fredda! L’evidenza di questo assunto è proprio il fatto che USA e URSS si ritrovano alleate nel sostenere l’Iraq di Ṣaddām Ḥusayn (sì, proprio il raʾīs liquidato malamente nel 2004) nella guerra contro l’Iran; e che entrambi guardano con sospetto e ostilità il nascente asse Tehrān-Damasco. Di fatto, non tanto paradossalmente vista la sua progressiva situazione interna fallimentare, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 l’URSS si allineerà alla politica internazionale americana anche in Medio Oriente.

La rottura del paradigma della Guerra Fredda

In questo senso, molti analisti concordano nel ritenere la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran come l’atto politico che ha provocato la rottura del paradigma condiviso del dominio alternativo ma esclusivo (eufemisticamente la Guerra Fredda, appunto), prima di causare la fine dell’Unione Sovietica; di fatto, la fine dell’URSS  è stata indotta dall’esiziale guerra d’invasione di Afghanistan, iniziata proprio per controbattere ai mutamenti politici a Tehrān. E il ruolo dell’Iran uscirà ancor più rafforzato qualche decennio dopo, quando i suoi alleati del movimento di resistenza Ḥizb Allāh (questi sì leali a Tehrān per motivi di osservanza religiosa) otterranno 14 seggi al Parlamento libanese nel 2005, entreranno nella compagine governativa di Fu’ād as-Sanyūrah, si opporranno con valore un anno dopo alla reazione militare israeliana e nel 2008, con gli Accordi di Dōḥa mediati dall’Emiro del Qatar Shaykh Ḥamad bin Khalīfa ath-Thānī, conquisteranno per loro e gli alleati prima all’opposizione ben 11 ministeri, un numero tale da risultare determinante nelle decisioni governative.

Stessa evoluzione in direzione del rafforzamento degli interessi iraniani avranno gli eventi che coinvolgono il Golfo. Nel 1981 la nascita del Consiglio di Cooperazione degli Stati Arabi del Golfo (composto da Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman: i loro Sovrani nella foto sopra) fa muro contro possibili tentativi di controllo economico e politico del Golfo da parte del nuovo Stato iraniano, ignorando la minaccia costituita da Ṣaddām Ḥusayn. Dopo aver respinto l’attacco iraqeno sostenuto per otto anni da USA e URSS, con la Seconda Guerra del Golfo l’Iran vede definitivamente neutralizzato il pericolo proveniente dalle sue frontiere occidentali; per contro, gli Stati della Penisola Arabica considerano preoccupante l’inevitabile crescita di influenza che Tehrān esercita sulla popolazione iraqena, in maggioranza sciita. Così, non consentono il coinvolgimento iraniano nelle trattative per l’assetto politico dell’area, che invece conducono con Washington. L’allora Presidente USA Bush senior si rende conto che un accordo che escluda l’Iran, ormai collaudata potenza regionale, lascerà sempre un’incognita nell’effettività di un sistema di intese, che in quel momento riguarda anche i delicati processi di pacificazione delle situazioni in Palestina (per l’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese) e Yemen (dopo l’unificazione dei due Stati), fino a coinvolgere gli assestamenti istituzionali dei nuovi Stati post-sovietici in Transcaucasia e Asia Centrale, tutti contesti che riguardano comunque l’Iran.

L’attualità di queste argomentazioni è evidente, essendo tutte queste realtà tuttora interessate da fibrillazioni e conflitti, conseguenza di mancati accordi sia globali sia regionali.

L’odierna situazione di incertezza e tensioni in Medio Oriente ha dunque radici storiche. Il fatto è che il bi-polarismo internazionale vincolava gli alleati alle rispettive cordate ideologiche, rendendo più “affidabili” i comportamenti degli alleati minori, perché richiedeva loro di applicare un modello (alternativamente capitalistico o comunista) ciascuno ritenuto universalistico.

Né portò a risultati apprezzabili la costituzione del Movimento dei Non-Allineati, formalizzata nel 1961 a Brioni, in Jugoslavia, soprattutto per volontà di leader come quello indiano Nehru, indonesiano Soekarno, egiziano Nasser, ghanese Nkrumah e jugoslavo Tito; perché, a parte la preponderanza di esponenti provenienti da ideologie socialiste e comuniste (Boumédiène, Fidel Castro e Mugabe tra gli altri sono stati Segretari Generali del Movimento), fino alla fine della Guerra Fredda le nazioni aderenti si sono molto spesso divise durante le crisi internazionali, seguendo le disposizioni impartite da uno dei due blocchi. In più, una serie di dottrine sulla sicurezza, applicate unilateralmente (ma speculari l’una all’altra), consentiva pressioni militari, politiche, economiche e culturali tali da rendere improbabile lo sviluppo di concezioni o iniziative autonome per ogni singolo Stato alleato.

Così, nel secondo dopoguerra gli Stati Uniti avevano elaborato la Dottrina Kennan del contenimento, applicata subito da Truman in Medio Oriente a Iran e Turchia, e i successivi Presidenti avrebbero avuto lo stesso atteggiamento di protezione della sicurezza dal pericolo sovietico. Per contro, l’Unione Sovietica aveva cominciato ad applicare al mondo arabo la teoria di correlazione delle forze, la quale, strettamente derivata dall’ideologia marxista-leninista, contemplava una strategia di collegamento tra soggetti sociali, economici, politici e militari, stati e sistemi inter-statali, finalizzata alla conquista del potere in funzione rivoluzionaria e anti-capitalista.

Sulla scorta di questo assunto, assieme dottrinale e pragmatico, l’URSS aveva prima cavalcato l’onda nazionalista e anti-coloniale degli anni ’40 e ’50 e poi, dopo la crisi di Suez del 1956, aveva provocato o appoggiato l’ascesa di regimi militari nazionalisti in Egitto, Sudan, Iraq, Algeria, Nord Yemen, Siria e, più tardi, Sud Yemen e Libia. A dire il vero, nonostante la presenza di forti partiti comunisti (specialmente in Sudan fino alle repressioni da parte di Jaʿfar Muḥammad an-Numayrī nel 1971 e in Iraq fino a quelle da parte di Ṣaddām Ḥusayn nel 1979), non ci sono stati moti rivoluzionari pro-sovietici e soltanto nello Yemen del Sud un regime ad aperto orientamento marxista-leninista ha retto il Paese tra forti dissensi dal 1978, fino alla dissoluzione dello Stato nel 1990 per convergere nello Yemen unificato.

L’altro Paese dell’area vittima del comunismo è stato l’Afghanistan già prima dell’occupazione sovietica, quando il Partito Democratico Popolare, di ispirazione comunista, aveva assunto il potere nel 1978, gestendolo anche dopo la liberazione fino al 1992, con la caduta di Moḥammad Najibullah Ahmadzai. Per tutti gli altri Paesi non alleati con gli Stati Uniti la capacità diplomatica sovietica impose (anche nel lessico internazionale) l’utilizzo di termini qualificativi eufemistici come “non-capitalisti”, “nazional-democratici”, “orientati al socialismo”. Lo stesso non poté proprio fare per la Repubblica Islamica dell’Iran, nonostante i tentativi operati all’interno del movimento rivoluzionario per volgere in senso social-comunista l’esito della Rivoluzione contro lo Shāh: uno schiaffo per l’appeal anti-capitalista di Mosca, ma anche una debacle per la pretesa esclusiva di Washington nella lotta al comunismo.

Le fonti originarie della destabilizzazione

uk-promis-arabs-1915Ma l’analisi, per quanto imbarazzante per le cancellerie e le rispettive opinioni pubbliche, non può fermarsi ad addossare le conseguenze patite dal Medio Oriente ai legati compromissori della Guerra Fredda. Bisognerebbe spingersi per lo meno alle fonti della destabilizzazione: le logiche delle concezioni colonialiste del divide et impera, per cui non fu consentita l’unità araba dopo la dissoluzione del Califfato Ottomano (vedi cartina a lato); e per cui alla Conferenza di Tehrān del 1943 gli Alleati imposero all’Iran, ufficialmente neutrale durante le due guerre mondiali, il mantenimento all’interno dei suoi confini delle truppe anglo-sovietiche, presenti nel Paese sin dal 1941. A sua volta, quest’azione aveva come precedenti l’Intesa di S. Pietroburgo del 1907, che aveva diviso la Persia in sfere d’influenza britannica e russa (trattandola dal punto di vista strategico-militare come due entità rispondenti a logiche esogene differenziate e pur concorrenti), e all’invasione anglo-russa del Paese nel 1914.

Malgrado questi trascorsi, l’Iran è l’unica nazione del Medio Oriente attuale che possa vantare una continuità statale e territoriale che risale, se non alla formazione dell’Impero Safavide del 1501, almeno alla nascita dell’Impero Persiano degli Zand nel 1760. La stessa Turchia, all’epoca cinicamente in balia degli eserciti vittoriosi, si costituì nel 1923 e stentò anni per ricostituire una parvenza di Stato, sebbene ormai sganciato dai fondamenti tradizionali costitutivi del proprio diritto e della propria storia. Nessuno degli altri 13 attuali Stati medio-orientali eredi della potestà del disgregato Sultanato Ottomano ha più di un secolo di vita nelle vesti di entità indipendente, escludendo il Sultanato dell’Oman della dinastia as-Saʿīd, risalente al 1741 e peraltro mai incluso nel dominio ottomano, ma con una larvata influenza britannica. Tutti gli altri sono espressione della fertile fantasia delle diplomazie franco-britanniche e dei conseguenti aggiustamenti prodotti dalla successiva sostituzione d’influenza operata dagli Stati Uniti, tramite la decolonizzazione seguita agli equilibri della Seconda Guerra Mondiale. In particolare:

         1.      dalla fine dei mandati internazionali britannici o dei suoi protettorati derivano le indipendenze di:

  • Arabia Saudita e Iraq (1932), Transgiordania (poi Giordania) (1946), Stato Ebraico (1948), Kuwait (1961), Bahrein, Qatar e Emirati Arabi Uniti (1971);

         2.      dalla decolonizzazione francese derivano le indipendenze di:

  • Siria (1944) e Libano (1946);

         3.      dall’autonoma convergenza di due Stati indipendenti deriva l’attuale Repubblica dello Yemen, stabilita nel 1990 dall’unificazione di Repubblica Araba dello Yemen (il nord) e la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (il sud). A loro volta, la prima aveva dichiarato l’indipendenza dagli Ottomani nel 1918 e la seconda nel 1967 dai Britannici;

         4.      dal riconoscimento internazionale deriva lo Stato di Palestina, ammesso nel 2012 dall’Assemblea Generale dell’ONU come “Stato osservatore permanente non membro”, dopo gli Accordi di Oslo del 1993 e l’adozione delle Risoluzioni ONU 242 del Consiglio di Sicurezza nel 1967 e 181 della sua Assemblea Generale nel 1947.

La speranza di un Medio Oriente rinnovato

Tutte le suddette considerazioni non riguardano un’arida conoscenza della Storia come testimonianza pietrificata a disposizione dei cultori della materia, ma richiamano alla consapevolezza circa alcune realtà su cui, forse, oggi è necessario interrogarsi e che è doveroso affrontare con spirito di libertà e giustizia:

  • che una fase della Storia stessa si è conclusa con l’esaurimento delle speciose giustificazioni ideologiche che hanno caratterizzato il secolo scorso;
  • che l’esplicitazione dei reali obiettivi cui lecitamente ogni Paese e le rispettive popolazioni ambiscono è un dovere per tutta la comunità internazionale;
  • che un mondo ormai multi-polare non può consentire anti-storici diktat conseguenti a conflitti globali risalenti a 70 o 100 anni fa;
  • che non è più sostenibile una gestione delle tensioni nelle aree sensibili dal punto di vista geo-politico condotta nelle modalità partigiane dell’ultimo secolo, cioè sempre a vantaggio di alcuni e mortificando le aspirazioni di altri, quasi fosse una maledizione biblica;
  • che non sono più ragionevoli (semmai lo fossero state in passato) forme di isolamento e apartheid ideologico nei confronti di teorie, movimenti di pensiero, organizzazioni politiche e religiose, addirittura nei confronti di interi popoli e Stati, in nome di logiche interpretate unilateralmente e ritenute universaliste.

Quadro utopistico? Forse. È difficile immaginare come sarà il futuro del Medio Oriente. A questo fine serve buona volontà e perseveranza nel dialogo.

Oggi gli Stati Uniti, probabilmente ancora una volta perseguendo interessi pragmatici e interpretando il ruolo che sicuramente compete loro, sembrano voler aprire alla comprensione e al dialogo. Certamente, dovranno anche dimostrare che è ormai esaurito “il divino destino” loro riservato “di stabilire sulla terra la dignità morale e la salvezza dell’uomo”, di cui alle parole di John Louis O’Sullivan del 1839 e interpretate qualche anno dopo dalle espressioni rivolte ai Libanesi dal missionario americano William Goodell: “Siamo venuti per sollevare la … popolazione da quello stato di ignoranza, degrado e morte in cui siete precipitati, per fare tutto il bene in nostro potere”. Purtroppo alcune azioni condotte in Medio Oriente nel primo decennio di questo secolo testimoniavano ancora questo sciagurato fondamentalismo messianico. Ma vogliamo credere che questa sia una storia del passato!

Alle classi dirigenti medio-orientali, per contro, resta l’incombenza di riprendere in mano i destini dei propri popoli, di ricostituire la base di comuni intenti, se non politici, finalizzati almeno alla convivenza e alla riscoperta dei valori comuni; di dimostrare, infine, la capacità di rappresentare non solo le proprie funzioni distintive, ma anche e soprattutto le esigenze materiali, spirituali e tradizionali dei propri popoli.

Per un Medio Oriente rinnovato!

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