ARABIA SAUDITA VERSUS IRAN:
RELIGIONE, IDENTITÀ, LEGITTIMITÀ NEL CONFRONTO GEO-POLITICO
di Glauco D’Agostino
Questo articolo è stato per primo pubblicato da “Geopolitica. Revistă de Geografie Politică, Geopolitică şi GeoStrategie”, Anul XII, nr. 54-55 (1/ 2014) “Lumea în mişcare” (A World in Motion), Editura “Top Form”, Asociaţia de Geopolitica “Ion Conea”, Bucureşti, 2014. Scritto alla fine del mese di marzo, quando ancora la situazione iraqena non presentava le problematicità attuali, presenta una chiave di lettura stimolante anche per la comprensione degli eventi in atto.
La rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein del 5 marzo scorso infrange la solidarietà politica degli Stati Arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, attiva dal 25 maggio 1981 con il trattato di Abu Dhabi. Ufficialmente si contesta a Dōḥa la mancata realizzazione di impegni per la sicurezza comune e la protezione verso organizzazioni ostili alla politica del CCG. Sullo sfondo l’avversione saudita ai Fratelli Musulmani (e dunque le vicende egiziane che hanno condotto all’estromissione del Presidente Morsi), ma soprattutto la diversità di posizioni (ancorché leggibile nelle sfumature) rispetto al confronto geo-politico che oppone, e non da oggi, l’Arabia Saudita all’Iran.
Il discorso, apparentemente esauribile in un contrasto economico e politico tra due potenze regionali che si contendono uno spazio di interesse comune e alternativo, ha in realtà risvolti complessi che investono aspetti come quelli religiosi, identitari e di legittimità del potere, che sono spesso sacrificati dagli analisti ad una logica di osservazione esclusivamente rivolta agli interessi inter-statali, valutando come ininfluenti le dinamiche che si sviluppano nella società civile in termini di aggregazioni, lealtà, valori condivisi, opportunità di confronto.
In pratica, la complessità storica e sociale del Medio Oriente suggerisce quell’approfondimento necessario alla valutazione degli eventi, che possa integrare una visione geo-politica solamente condotta secondo criteri di influenza territoriale e relativi vantaggi nazionali (cioè funzionali alla sopravvivenza dello Stato-Nazione).
Nel caso del confronto in atto, mai diretto, tra Arabia Saudita e Iran, pur sottolineando l’evidente interesse a mantenere ed estendere il controllo territoriale sulle enormi risorse petrolifere, bisogna considerare almeno questi altri fattori che ne condizionano il comportamento:
a) la diversa confessione religiosa (Sunnita e Sciita), pur all’interno del dogma musulmano, che determina un conflitto per la guida religiosa di centinaia di milioni di fedeli;[1]
b) la molteplice composizione etnica, anche all’interno delle rispettive sfere di influenza;
c) la variegata propensione verso forme di partecipazione all’esercizio del potere interno, il che consiglia di introdurre nella valutazione geo-politica anche elementi di conoscenza rispetto alla formazione del consenso (leggi legittimità riconosciuta dalle popolazioni).
L’argomento qui proposto è allora quello di tentare di comprendere quanto questi fattori influiscano sui mutamenti geo-politici strategici e se siano in grado di completare un quadro di comprensione troppo spesso frettolosamente derivato da alleanze politico-militari (tra l’altro non scontate) con le superpotenze mondiali.
Intanto, l’appartenenza confessionale non determina necessariamente lo schieramento acritico a favore di un contendente.[2] Ḥamās, espressione dei Fratelli Musulmani in Palestina, aveva la sua sede ed era protetta in Siria (alleata dell’Iran) prima dello scoppio della crisi siriana; poi, durante la presidenza Morsi, al Cairo, dove ora è illegale; e molti segnali accreditano un nuovo possibile riavvicinamento a Tehrān. Viceversa, l’Arabia Saudita, sponsor di al-Fataḥ e a lungo impropriamente ritenuta finanziatrice anche di Ḥamās, si rende complice del colpo di stato in Egitto e oggi naviga indisturbata sulle stesse posizioni di Israele,[3] nuovo alleato per lo meno nella contestazione al suo mentore di sempre, gli Stati Uniti: tutto questo è ovviamente una reazione all’inedito credito fornito da Obama all’Iran di Ruhani sulla spinosa controversia del nucleare e all’ammorbidimento di posizioni sull’estromissione del Presidente siriano Asad come condizione per il componimento della sanguinosa guerra civile in corso in Siria. Per di più, l’appoggio americano al premier iraqeno sciita al-Mālikī, fin dall’inizio interpretato da Riyāḍ come un avallo al ruolo iraniano di potenza regionale,[4] ha provocato l’estensione dell’influenza iraniana anche a Siria, Libano ed eventualmente allo Stato di Palestina. Da tutto questo i Sauditi si considerano estromessi come interlocutori strategici, a favore del ruolo della Turchia, storico contraltare sunnita al potere iraniano, membro della Nato e non certo sulle stesse posizioni geo-politiche di Riyāḍ, in specie sui dossier riguardanti i Fratelli Musulmani e l’appoggio alle diverse fazioni sunnite insorgenti contro il potere `alawīta in Siria.[5]
In sostanza, divenendo più sfumato l’asse anti-Ayatollah (basato strumentalmente sulla potenzialità nucleare dell’Iran), si rompe la presunta solidarietà sunnita nella sua forma anti-sciita concepita nelle stanze dei poteri nazionali dominanti. Ma a tutto questo sono estranee le opinioni pubbliche musulmane medio-orientali, le quali, per quanto riguarda le questioni internazionali, si schierano compatte al di là del loro credo di appartenenza soltanto quando è in pericolo l’identità musulmana di una popolazione aggredita, come già avvenuto in Afghanistan contro l’Unione Sovietica e ancor più nella lotta di resistenza contro l’occupazione israeliana. Naturalmente è diverso l’atteggiamento dei governi, più attenti agli interessi nazionali o anche alla conservazione del loro potere politico. Meno perdonabile l’attitudine di molti analisti a far coincidere le posizioni ufficiali dei governi con la percezione dei loro popoli o dei movimenti politici che variamente li rappresentano. Per esempio, quando Israele aggredì il Libano nel 2006 e gli sciiti di Ḥizb Allāh sorsero a sua difesa, la piena solidarietà nei loro confronti scattò da parte dei sunniti Fratelli Musulmani, tra le esitazioni dei governi di Riyāḍ, il Cairo e Amman, mentre qualche autorità religiosa saudita addirittura vietava l’appoggio o la preghiera per i combattenti di Ḥizb Allāh.[6]
Non è che la diffidenza tra Sciiti e Sunniti sia un’invenzione, ma è senz’altro esagerata da motivazioni di ordine politico quando esigenze di carattere internazionale siano interessate a dividere i due campi: in altre circostanze la convivenza pacifica tra i fedeli dei due credi è stata considerata una risorsa per la dialogica musulmana, anche politica, dando vita a forme di collaborazione contro i pericoli comunemente percepiti, come l’imperialismo e il secolarismo occidentale. Solo recentemente, con la decennale guerra Iraq-Iran e il cambio di leadership a Baġdād susseguente all’invasione americana del 2003, i rapporti si sono drasticamente incrinati.[7] Ma, nonostante sollecitazioni contrarie, non sono mancati gli appelli ad una maggiore unità d’intenti, come dimostrano gli sforzi compiuti dall’Ayatollah ‘Alī Sistāni e da Muqtadā aṣ-Ṣadr nel ricercare una ricomposizione dei rapporti sociali all’interno del rinato stato iraqeno.
L’Arabia Saudita ha spesso giocato e gioca tuttora la carta etnica del pan-Arabismo, richiedendo solidarietà su questo terreno in funzione anti-persiana o anche anti-turca quando se ne presenti l’occasione. Certamente la questione delle minoranze religiose presenti nella Penisola Arabica scuote il mondo arabo musulmano, specialmente laddove i gruppi sciiti sono sospettati di offrire la propria lealtà al richiamo religioso, piuttosto che all’appartenenza etnica o nazionale. Anche questa argomentazione sembra, tuttavia, un espediente rispondente più a pretesti geo-politici che a veri pericoli correnti per la stabilità della regione. Molto spesso le inquietudini che attraversano queste minoranze sono legate a rivendicazioni sociali interne piuttosto che a contestazioni del potere nazionale in termini religiosi. Anche perché il frazionamento dottrinario sciita (per esempio in Bahrein gli Sciiti sono in maggioranza Duodecimani Akhbārī, cioè tradizionalisti opposti ai Duodecimani Usūlī degli Ayatollah iraniani; in Yemen prevalgono gli Zayditi) impedisce quella coesione necessaria a rispondere in modo compatto ad una unificante autorità religiosa.
In ogni caso, gli analisti sono ben consapevoli che il nazionalismo arabo, montato in passato soprattutto dal socialismo laicista di stampo nasseriano, non ha più l’appeal necessario a mobilitare le masse arabe, per lo meno a partire dalla disastrosa sconfitta militare subita nella guerra contro Israele nel 1967.[8] Per contro, a fronte dell’indebolimento delle identità nazionali, altre identità che superano i confini degli Stati-Nazione è possibile che si affermino come soggetti di riferimento per i popoli e con cui prima o poi anche la geo-politica dovrà fare i conti. Tra questi, le aggregazioni religiose e i gruppi di solidarietà etnica e tribale.[9]
L’indebolimento delle identità nazionali in Medio Oriente e Nord-Africa affonda pienamente le proprie radici in una questione di legittimità,[10] in parte per le stesse origini storiche da cui quelle pseudo-identità derivano, in parte per le modalità artificiali con cui sono state costituite. In pratica, dopo lo smembramento del Sultanato Ottomano e la caduta del Califfato, le risultanti entità statuali sono state costruite sulla base di aree di influenza delle potenze europee vincitrici e sulla base di poteri governativi più o meno legittimi. Con l’avvento degli anni ’50 e ’60, si è affermato un modello di Stato nazionale autoritario, accentratore, poco disponibile al dissenso e fortemente repressivo, quasi sempre giustificato da motivi di sicurezza nazionale:[11] è la stagione dei colpi di stato repubblicani di ispirazione laico-socialista (Egitto, Siria, Tunisia, Iraq, Yemen, Algeria, Libia), che hanno inaugurato quell’instabilità interna e internazionale che tuttora perdura. A loro fianco, le Monarchie in cui il potere è assegnato per valori di discendenza profetica (Giordania e Arabia Saudita) o per forza dinastica (futuri Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo) hanno assicurato e assicurano ancora stabilità interna e internazionale.[12] L’Iran, anch’esso precedentemente retto da una dinastia regnante, ma giunta al potere con un colpo di stato militare, ha invece rivoluzionato i paradigmi istituzionali islamici e il panorama internazionale medio-orientale e sud-asiatico, dando vita ad una Repubblica Islamica sciita attraverso una sollevazione popolare.
Si presenta qui il problema saudita nei confronti dell’Iran: la possibile contaminazione da parte di un modello islamico rivoluzionario, cioè con originaria legittimazione popolare e in netta contrapposizione ideale con il modello di governo top-down offerto dal sistema saudita.[13] Da qui la reazione, non tanto secondo i canoni classici di eresia religiosa (poco incisiva in termini geo-politici), ma con accuse di imperialismo, di diffusione dello Sciismo come espediente politico per espandere l’influenza iraniana nella regione anche con la presunta arma nucleare in costruzione, di rappresentare istanze “radicali” antitetiche al “moderatismo” filo-occidentale, ancorché wahhābita. Nasce così la narrazione del mostro estremista, il pericolo degli Ayatollah, lo spauracchio anti-ebraico, per la verità accompagnato e alimentato dalle potenze occidentali (Stati Uniti, Europa, Israele) per ovvi motivi di controllo economico e militare della regione, a tal punto da aver fornito appoggio a Ṣaddām Ḥusayn durante la guerra contro l’Iran. Con questi precedenti, è allora comprensibile l’odierna amara delusione dei Sauditi di fronte alle aperture americane al confronto con Ruhani, che potrebbero mettere in pericolo la loro egemonia nell’area.
Lo stesso problema di legittimazione islamica posto dall’Iran rivoluzionario, si ripresenta all’Arabia Saudita con i successi dei Fratelli Musulmani durante la stagione della cosiddetta Primavera Araba. A cavallo tra il 2011 e il 2012, nel giro di tre mesi partiti affiliati alla Fratellanza o a loro vicini vincono elezioni parlamentari in Tunisia, Marocco e Egitto. Ancora quattro mesi dopo Moḥamed Morsi conquista addirittura la Presidenza dell’Egitto, ponendo il sigillo sulla legittimità del processo democratico come strumento per il raggiungimento del potere da parte dell’Islam politico.[14] Per la verità, già dal 2002-2003 prima Abdullah Gül e poi Recep Tayyip Erdoğan in Turchia avevano raggiunto la premiership democraticamente e poi il primo era diventato anche Presidente della Repubblica nel 2007. E anche Ḥamās nel 2006 aveva vinto le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese, insediando un suo Primo Ministro in Palestina. Ma mentre nel primo caso l’evento era fuori della portata d’intervento da parte dell’Arabia Saudita, nel secondo caso Riyāḍ aveva armato la mano di al-Fataḥ e dei gruppi jiahdisti per confinare il legittimo governo di Ḥamās soltanto alla striscia di Gaza.
Dunque, per i Sauditi ancora una volta difficoltà in ordine all’origine della legittimità del potere, liquidata in breve in Egitto attraverso i petro-dollari offerti in aiuto al colpo di stato militare. La questione posta dai Fratelli Musulmani era e rimane tuttora la compatibilità tra l’applicazione dei principi giuridici della Sharī’a e la formazione del consenso nell’ordinamento istituzionale come complemento dell’azione spontanea scaturente dalla società civile. L’enfasi è allora sulla società civile e sul processo di partecipazione.[15] E la scelta è comprensibile, avendo origine da uno stato centralista (come la maggior parte degli Stati Arabi), dove la partecipazione è stata limitata alle formazioni politiche emanazioni del potere dominante, escludendo ogni possibilità di dissenso, specialmente islamista. E proprio i Fratelli Musulmani nei molti Paesi in cui erano presenti ne hanno pagato lo scotto per 60 anni, durante i quali la richiesta di essere riconosciuti come soggetto politico elettorale è stata sempre fermamente respinta. Eppure, per lo meno a partire dai primi anni ’70, i Fratelli Musulmani hanno rigettato le sole opzioni offerte all’epoca al dibattito islamista per poter contenere l’attacco lanciato alle tradizioni del mondo musulmano:[16] l’opzione dell’azione militare contro il nemico esterno (p.es. Israele, i Cristiani) o piuttosto prioritariamente l’arma degli attentati diretti contro la stabilità interna dei regimi.[17] E da allora hanno iniziato a rielaborare, sistematizzare e mettere in atto quanto già al-Bannā’ aveva lasciato loro in eredità come patrimonio culturale e politico. Ne è nata una precisa dottrina politica basata sulla partecipazione popolare e sulla giustizia sociale, che non poteva e non può trovare il consenso né da parte dei regimi autoritari (i vecchi autocrati laici, l’Egitto dei militari, i Sauditi), né da parte dei network della finanza globalizzata, in genere diretta espressione della concezione materialista occidentale.[18]
In breve, i punti del programma dei Fratelli Musulmani che più mettono in crisi il modello politico tipico e ricorrente dei governi del mondo arabo, sono i seguenti:
- democrazia pluralista;[19]
- partecipazione[20] e Shura (l’Assemblea della Consultazione);
- forte intervento statale in economia, ma ruolo limitato dello Stato in politica;[21]
- rafforzamento della società civile;[22]
- accettazione della modernità, ma non nella sua versione occidentale;[23]
- introduzione della finanza islamica accanto al tradizionale sistema bancario commerciale, come contributo alla risoluzione della crisi globale.[24]
Insomma, la Fratellanza Musulmana, riconosciuta ben prima del 2012 come “uno dei movimenti sociali e politici più di successo della storia araba” e anche “la principale corrente islamista (che) rappresenta la schiacciante maggioranza nello spettro politico islamista”,[25] definisce scopi che possono forse riflettersi nelle parole di Rein Taagepera, quando dice “One may well desire the fruits of democracy but not be willing to pay the price in terms of cultural change”.[26]
Sembra evidente, a questo punto, che nessun confronto geo-politico in Medio Oriente possa prescindere da questioni come religione, identità, legittimità. La sfida in atto tra Arabia Saudita e Iran, da cui siamo partiti, si iscrive in un contesto più ampio che non è solo territoriale, economico e militare. Anzi, considerarlo tale vuol dire quanto meno ignorare intenzionalmente che “Islam is not territorial in its character”, parafrasando il poeta e filosofo Muḥammad Iqbāl.[27] Significa, anche, accettare che le trasformazioni nella società, non sempre determinate dalla volontà dei governi nazionali, sono capaci di influire sulla geo-politica e non viceversa e che per misurarle occorre attendere l’onda lunga della Storia. Altrimenti non avremmo potuto assistere alla rivoluzione islamica iraniana e alla lenta, ma inesorabile ascesa dell’Islam politico partecipativo.
Le sollevazioni contro i regimi nord-africani del 2011 e la loro caduta hanno dimostrato che le masse popolari possono mobilitarsi non soltanto sospinte da interessi geo-strategici esterni o materiali, ma anche sollecitate da motivazioni di ordine interno, etico e spirituale. E che queste possono contribuire a modificare le basi dei rapporti politici e sociali non soltanto all’interno dei confini nazionali.
L’Arabia Saudita, pur conservando intatte le sue istituzioni, può prenderne atto e almeno concedere che queste trasformazioni consentano alle popolazioni musulmane viciniori di identificarsi in un modello partecipativo islamico, che tanto infondatamente teme. Perché, come sempre nella Storia, anche il mondo islamico del Medio Oriente dimostra quell’adattamento spaziale e temporale che la Sharī’a consente nella sua dichiarata flessibilità. E perché, mai come oggi, il Mondo è in movimento.
[1] Mari Luomi: Sectarian Identities or Geopolitics? The Regional Shia-Sunni divide in the Middle East, The Finnish Institute of International Affairs, Working Paper 56, 2008, pag. 5. Dice Luomi: The main reasons for the Sunni states to reinforce their sectarian (state) identity are, first of all, the state elites’ fears about Iran’s regional power ambitions and, secondly, anxiety about possible increased calls for influence for their Shia populations. In the long term, this power game can possibly lead to a regional system divided into two spheres: the Shia and the Sunni – led by Iran and Saudi Arabia respectively.
[2] Ibid., pagg. 39-40.
[3] Alcuni analisti hanno sostenuto l’esistenza di una convergenza di interessi già da molto tempo. Per esempio Luomi nel 2008 dice: Sunni-led Arab states are also discovering that their security interests increasingly converge with those of Israel (Mari Luomi: Sectarian Identities or Geopolitics?, cit., pag. 4). E ancora: Saudi Arabia and other Sunni-led states have begun a subtle rapprochement towards Israel and have been engaged in incorporating sectarian rhetoric in their foreign policy discourse. (ibid., pag. 5).
[4] F. Gregory Gause III: U.S. Trying to Soften Saudi Hard Line toward Maliki Government, interview for Council on Foreign Relations, 6 August 2007.
[5] Una percezione diversa avevano Merlini e Roy nel 2012: The crisis of the Assad regime and the protracted and bloody civil conflict in that unfortunate country have the potential to strengthen the Sunni camp, diminish Iranian influence in the Arab Middle East, and isolate Hezbollah (Cesare Merlini and Olivier Roy: Arab Society in Revolt. The West’s Mediterranean Challenge, Brookings Institution Press, Washington, D.C., U.S.A., 2012, pag. 10).
[6] Mari Luomi: Sectarian Identities or Geopolitics?, cit., pag. 20.
[7] Vali Nasr: The Shia Revival: How Conflicts within Islam Will Shape the Future, W. W. Norton & Company, 2007.
[8] James W. Robert: Political Violence and Terrorism in Islamdom, in William J. Crotty: Democratic Development & Political Terrorism: the Global Perspective, Northeastern University Press, U.S.A., 2005, pag. 107.
[9] Mari Luomi: Sectarian Identities or Geopolitics?, cit., pag. 48.
[10] Ibid., pagg. 5-6.
[11] Per una valutazione sull’Egitto di Nasser in questo senso, vedi Amr Hamzawy and Nathan J. Brown: The Egyptian Muslim Brotherhood: Islamist Participation in a Closing Political Environment, Carnegie Papers, Number 19, Carnegie Endowment for International Peace, Carnegie Middle East Center, Washington, D.C., March 2010, pagg. 4-5.
[12] F. Gregory Gause III: Kings for All Seasons: How the Middle East’s Monarchies Survived the Arab Spring, Brookings Doha Center Analysis Paper n. 8, September 2013, Executive Summary, pag. 1.
[13] Andrew McKillop: Geopolitics And Islam in the MENA, in The Market Oracle website, Sep 02, 2013.
[14] Cesare Merlini and Olivier Roy: Arab Society in Revolt, cit., pag. 8.
[15] Denis J. Sullivan and Sana Abed-Kotob: Islam in Contemporary Egypt. Civil Society vs. the State, Lynne Rienner Publishers, Boulder, Colorado (USA), 1999, pag. 13.
[16] Fawaz A. Gerges: The Far Enemy. Why Jihad Went Global (Second Edition), Cambridge University Press, New York, N.Y., 2009, pagg. 2-3.
[17] Barry Rubin: Conflict and Insurgency in the Contemporary Middle East, Routledge Middle Eastern Military Studies, New York, N.Y. (U.S.A.), 2009, pag. 4.
[18] Dice Dijkink: American post-war foreign politics (Iran, Vietnam) suffer from the silent assumption that other nations have the same materialistic view as “we” do. (Gertjan Dijkink: When Geopolitics and Religion Fuse: A Historical Perspectives, Routledge, Taylor & Francis Group, 2006, pag. 193).
[19] Gudrun Krämer afferma: The debate about Islam and democracy is by no means new. Since the 1980’s, it has witnessed some fresh thinking and considerable movement on the ground. A growing number of Muslims, including a good many Islamist activists, have called for plural democracy, or at least for some of its basic elements: the rule of law and the protection of human rights, political participation, government control, and accountability. (Gudrun Krämer: Islamist Notions of Democracy, in Joel Beinin and Joe Stork: Political Islam. Essays from Middle East Report, Middle East Research and Information Project, Washington, D.C., 1997, pag. 71).
[20] secondo lo slogan del movimento “partecipazione, non dominio”, che ha caratterizzato la gestione della sua Guida Generale Muḥammad Badi‘ (Amr Hamzawy and Nathan J. Brown: The Egyptian Muslim Brotherhood, cit., pag. 2).
[21] Amr Hamzawy and Nathan J. Brown: The Egyptian Muslim Brotherhood, cit., pag. 12.
[22] Sami Zubaida riporta una definizione del concetto di società civile nel pensiero di Saad Eddin Ibrahim, the well-known sociologist and writer: (he) argues that reinforcement of civil society is the condition for building up democratic sentiments and institutions in the Arab world. He opts for a definition in terms of voluntary associations…The main examples of such associations are trade unions, professional associations, voluntary societies and clubs, pressure groups, and political parties. (Sami Zubaida: Religion, the State, and Democracy: Contrasting Conceptions of Society in Egypt, in Joel Beinin and Joe Stork: Political Islam, cit., pag. 52).
[23] Dice James W. Robert: Even the most radical followers of the three writers mentioned here [Qutb, Mawdudi and Khomeini] – even bin Laden himself – do not advocate giving up the airplane, the telephone, the microchip, or the pursuit of modern science. They do not reject modernity. What they reject is the Western version of it. They do not want to abandon the modern project – they want to tame it, to bring it within the scope of the received corpus of Islam…Indeed, the Islamists are joined in this by almost all the other voices in Islamdom today. (James W. Robert: Political Violence and Terrorism in Islamdom, cit., pag. 109).
[24] Amr Hamzawy and Nathan J. Brown: The Egyptian Muslim Brotherhood, cit., pag. 26.
[25] Ibid., pag. 3; Fawaz A. Gerges: The Far Enemy, cit., pag. 3.
[26] Rein Taagepera: Prospects for Democracy in Islamic Countries, in William J. Crotty: Democratic Development & Political Terrorism, cit., pag. 99.
[27] Gertjan Dijkink: When Geopolitics and Religion Fuse, cit., pagg. 192-93.